Il Referendum, con un auspicato esito favorevole dei SI, può rappresentare un ingrediente aggiunto a gettare, in termini di profondità riformatrice, il cuore oltre l'ostacolo. La credibilità dell'ordinamento italiano ha bisogno di questo. Questo profilo ha connotato la testimonianza della nostra testata.
Di seguito, però, in omaggio alla par condicio, pubblichiamo un contributo del Segretario del PD.
Il Partito Democratico, nell'ambito della Direzione Nazionale, si è espresso per il voto a favore del NO per tutti e cinque i quesiti referendari che verranno sottoposti al voto popolare, domenica 12 giugno. Nell'ambito del PD cremonese non è stato possibile sviluppare un confronto interno che potesse portare ad una posizione condivisa dell'assemblea provinciale.
Nonostante sia consapevole delle lungaggini e delle storture del sistema giudiziario italiano e nonostante consideri pienamente legittime le posizioni di chi, anche nell'ambito del centrosinistra, si è espresso a favore del SI per ciascuno dei cinque quesiti, a titolo puramente personale, ritengo che una materia così delicata con risvolti e ricadute molto importanti, non debba essere sottoposto al voto referendario: si tratta di quesiti molto tecnici, molto settoriali, molto specifici, la cui complessità e la relativa espressione nel merito, ritengo non sia opportuno vengano messi in carico ai cittadini italiani che per questo hanno delegato il Parlamento.
Rilevo inoltre che 3 dei 5 quesiti referendari ai quali siamo chiamati ad esprimere un parere, domenica 12 giugno, potrebbero essere già superati dalla conclusione dell'iter della riforma dei processi penale e civile, votati in via definitiva a novembre dello scorso anno e della riforma del CSM, ad oggi, in fase di approvazione in Parlamento.
I referendum sulla giustizia sono presentati dai promotori come il vero strumento per una riforma importante ed efficace della giustizia. Purtroppo non ritengo sia così anche perché non superano il limite più importante della giustizia italiana: la lunghezza dei processi.
In sintesi la mia posizione in merito ai quesiti referendari di domenica sarà per esprimere cinque NO.
Siamo appagati dalla constatazione del riscontro positivo ricevuto dal Segretario Provinciale del PD, Salvatore Soldo, cui avevamo sollecitato, nel quadro del Forum Referendum ispirato dal confronto delle idee, un pronunciamento.
Ci è arrivato. Lo pubblichiamo; e non solo in omaggio alle linee-guida del nostro modulo giornalistico costantemente correlato ai cardini della catenaria fatto-approfondimento dialettico.
Come si sarà compreso dalle precedenti uscite, influenzate dall'assenza di pulsioni militanti ma fortemente protese alla divulgazione e al confronto, questo focus rientra nelle nostre priorità editoriali.
Ci divide una manciata di giorni dall'esercizio del diritto (dovere) di voto. Molto è stato detto e scritto; anche se non nella dimensione che l'argomento avrebbe meritato. È, bellezza!, l'indotto della deriva che i tempi hanno incardinato in materia di partecipazione alla vita pubblica (in tutti i sensi!).
Pur appalesando la linea editoriale, confidiamo di aver fatto di tutto per stare rigorosamente lontani sia dalla versione “melina” di un approccio confluente nell'aspettativa del default del modulo referendario sia dalla versione “ammuina”manifestamente indirizzata a fornire alimento alla strumentalizzazione, ai fini di parte (immediati e futuri), di uno snodo che, come abbiamo dichiarato ogni volta che ce ne siamo occupati, appartiene ad un'idea inclusiva e trasversale.
Come giustamente osserva il (quasi sempre) saggio esponente radicale, cremonese e nazionale, Sergio Ravelli, “I referendum, al di là dell'esito, hanno già determinato un importante risultato: rompere l'inerzia politica ed innescare finalmente un drastico e ampio processo di riforma della giustizia italiana”
Contestualmente l'avv. Alessio Romanelli, presidente delle Camere Penali di Cremona e di Crema, dichiara: “I quesiti referendari sono complessi, ma mai come oggi la conoscenza è potere”.
In passato, l'argomento era pervaso da minori gravami di una tecnicalità che, attualmente, è piombo nelle ali dello sforzo di consapevolezze e di confronto dialettico volti ad affermare il conseguimento della migliore opzione nell'interesse della sostenibilità del modello ordinamentale.
Senza voler recare offesa ad alcuno, il giudizio sul livello performante della giustizia è, pur nella percezione di un generalizzato deficit della macchina repubblicana, ispirato da massima severità.
Lo dicono i risultati, che ci affiancano alle pagelle dei paesi sottosviluppati, e, quel che più preoccupa, è l'ombra lunga che permane nel combinato disposto tra l'esercizio delle prerogative di mandato e vita politica e, nell'altro versante, l'indotto dell'incombente ipoteca sui destini e le dinamiche della democrazia di un'entità statuale che da “organo” è diventata “potere”. E che non vuole rientrare, nonostante alcune tracce di discredito, nella “caserma”.
More solito, verrebbe da osservare. Poco meno di 40 anni fa eravamo alle prese praticamente con il medesimo input referendario; cui eravamo giunti, rompendo le convenzioni e scegliendo le maniere forti del voto universale, come gesto di consapevolezza che, come in molte altre materie, la strada canonica delle aule parlamentare per le riforme è preclusa. Per la giustizia, innanzitutto.
Ne è dimostrazione il fatto che, pur essendo stato un cappotto il risultato referendario, la successiva applicazione legislativa è stato un disastro peggiore del tentato rimedio.
Da ultimo, preoccupa il fatto che il piglio permanente della contesa in atto in questi giorni non miri ad una soluzione super partes nell'interesse esclusivo del sistema Italia.
Rispetto alle conseguenze del 1988 il quadro non è stato fermo. Alle pregresse devianze si è assommato un combinato di cattive posture che hanno portato il sistema giustizia alla non sostenibilità. Avvilisce il fatto che si eccettuano i proponenti abrogazionisti e qualche raro endorsement da hombre vertical (come è il pronunciamento di Luciano Pizzetti) si continui a fornire alibi al fallimento del referendum. Avvilisce quella sorta di non contest che è la dichiarazione del Segretario PD. Una posizione rispettabile, ma non chiara e perentoria come dovrebbe essere quella di un prevalent partner come il PD. Un protagonista della vita politica e istituzionale che ambisce ad essere il perno trainante di un “campo”, che dovrebbe essere riformista. Una posizione che, invece, denuncia, da un lato, la permanenza dello stato cachettico in capo alla progettualità dem e, dall'altro, compiace la lectio facilior tendente a riproporre le dinamiche della “balena bianca”.
I non detti più dei detti nella dichiarazione di Soldo (che personalmente stimiamo molto) demarcano nettamente il gap di ispirazione tra riformisti (ai margini del dibattito e della testimonianza) e conservatori, nel “campo”. E, a mente del pronunciamento dei contrarians dichiarati, fanno capire la vera valenza della direzione di marcia del PD di Letta. Per il vero non molto diversa dai recenti predecessori.
Abbiamo adottato una scelta editoriale, favorevole all'esercizio del voto e coerente con l'ispirazione abrogativa della pregressa legislativa. Lo facciamo per un dovere di chiarezza; ma non, ripetiamo, con animo militante. Con la consapevolezza che le urne del 12 giugno non saranno una panacea.
D'altro lato, questo è l'esprit che si rinviene nella dichiarazione di Ravelli e che, nel suo piccolo, si rifà al combinato di ottimismo della volontà di Rossella. Già, a partire da martedì 14, domani è un altro giorno. (e.v.)