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Focus Ponchielli/3

….il bello deve ancora venire…

  14/09/2020

Di E.V.

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Nei numerosi e gratificanti riscontri alle due precedenti testimonianze, un lettore ci ha sottolineato in un whatsapp “Hai fatto un ricco saggio storico, un lavorone… manca un po' il presente”. Lo prendiamo per più che un garbato rilievo critico per, considerando i contesti, un'ovvia aspettativa.

Abbiamo risposto all'interlocutore che, come si usa dire, il proiettile è da tempo in canna.

D'altro lato, la nostra testimonianza si avvale della condizione, forse un po' snobistica, di essere benestanti (di nostro), di applicarci a ciò cui vale la pena spendere tempo ed impegno volti a richiamare, approfondire, attualizzare. Ah sì è molto più facile la narrazione semplificata fatta di spottoni a valere per scansioni temporali di rapido consumo e, quasi sempre, per finalità usa e getta.

Il focus Ponchielli, di cui non crediamo essere esclusivi opinionisti, meritava, anche se l'impiego comunicativo quotidiano ne fa una sorta di junk food (a servizio di una politica di pari rango), quanto meno dal punto di vista dell'aderenza al format editoriale della nostra testata, di sfuggire all'andazzo implacabile.

Non certamente per sfoggio intellettualistico, abbiamo ritenuto che fosse doveroso contestualizzare il confronto dialettico in corso (molto simile alle abitudini di ringhiera) “ai precedenti”. Vale a dire al complesso di riferimenti e di accadimenti preesistenti all'excurus attualizzato.

Riferimenti ed accadimenti, manifestamente mantenuti off the radar, non si sa se per inconsapevolezza ovvero tornaconto concettuale, dai players accalcatisi, da qualche settimana, attorno al tavolo donde scaturiranno, prima o poi, delle decisioni.

Quelle che si profilano, appaiono nella sostanza e nelle modalità, di tipo intendenziale; come se la ratio e le conseguenza del percorso dialettico (fatto, soprattutto, di asperità e di preconcetti) potessero e dovessero esaurirsi in una burocratica transizione di responsabilità verticali.

La lunga “briscorsa” che ci siamo presi dimostrerà che tale transizione, ove fosse avulsa da una più ampia analisi a posteriori, risponderebbe solo ad input estranei agli interessi comunitari.

Un'ulteriore premessa-inquadramento della materia attiene obbligatoriamente alla qualificazione della materia, nei contesti delle politiche culturali e promozionali della città.

Ampi contesti da cui la pratica degli ultimi trent'anni e soprattutto le premesse di questo ultimo miglio sembrano del tutto avulsi.

Il Ponchielli era già teatro all'epoca condominiale e svolgeva, con qualche lode e senza infamia, la sua funzione. Che comportava, ça va sans dire, esborsi, correlati al rilievo di questa branca comunitaria ed all'implicito obbligo di performances quanto meno ispirate dalla dignità.

L'imbocco del percorso, fin lì inesplorato ancorché immaginato nell'alveo delle opzioni teoriche, della gestione pubbliche fu accelerato per effetto sia del venir meno della residua sostenibilità del modello “privato” sia dell'ebbrezza della sperimentazione del tentativo di fare del Teatro uno dei perni di un progetto aggregato di crescita culturale e civile comunitaria e di sviluppo sinergico con le potenzialità attrattive di Cremona, proiettate verso le opportunità della crescita del terziario.

Senza essere tranchant, da tale punto di vista il Ponchielli municipalizzato è clamorosamente mancato; nonostante, si deve aggiungere, che nella corrispondente scansione temporale si siano aggiunti nuovi asset (il MdV ed il Conservatorio statale) e si siano potenziati quelli storicamente esistenti (Filodrammatici).

Come sarà facile desumere dalla rivisitazione delle analisi di mezzo secolo fa la confluenza del Teatro maggiore nell'organico delle attività istituzionali trovava giustificazione in una più complessa crescita del patrimonio di opportunità, fatta di impulsi sinergici e di consapevolezze territoriali.

Questo pilastro, fondamentale per motivare quella transizione, non solo è totalmente mancato, ma non è mai stato seriamente affrontato. Carenza questa, che ricade quasi totalmente sul versante politico-istituzionale (nonostante non sia mancata la sollecitudine di alcune voci, tra cui quella costante di Evelino Abeni).

Da tale punto di vista non si può sfuggire ad una severa riprovazione nei confronti della sistematica trascuratezza nei confronti di un opportuno lavoro comune con le altre istituzioni, a livello quanto meno di programmazione delle stagioni e di fungibilità di ruolo a seconda delle singole caratteristiche.

L'altro pilastro atteneva più strettamente al perseguimento di innovative politiche “aziendali”, nella prospettiva dell'acquisizione di condizioni di una produzione artistica in house, capace di far premio sull'esistenza in loco di riconosciute individualità e di istituzioni, pubbliche e private, formative.

Come sia andata si sa.

Da tale punto di vista, si può concludere che la transizione di cui abbiamo parlato e stiamo parlando si è rivelato non già incongrua, bensì completamente antitetica alle declaratorie politiche ed al mandato istituzionale.

Per trenta ed oltre anni la gestione si affidata esclusivamente all'outsourcing (che in qualche misura, se si volesse mantenere la qualità a congrui livelli, è giustificato).

Ma, mentre il teatro Sociale di Mantova è stato in grado di avvalersi di un'apprezzata orchestra stabile (in aggiunta all'Orchestra Sinfonica del Conservatorio), nella realtà locale non c'é traccia alcuna di volontà di un salto nella direzione di correlare il mantenimento della qualità dei cartelloni anche all'autoproduzione.

Con il che planiamo lestamente alla valutazione dell'esito di politiche gestionali che per molti lustri sono rimaste ancorate ad una grandeur, se non dissipatrice, certamente incongruente alle possibilità concrete. Le cui conseguenze sono state poste (per una fruizione prevalentemente destinata ad un ceto “abbiente”) a carico della fiscalità comunale. E, quando, anche per una ragione di decenza, tale fonte si è rinsecchita per ragioni sia di equilibrio delle voci sia di più generale spending review, alla finanza “creativa”. Con cui per anni si sono impostati esercizi inintelligibili e, comunque, al limite, come hanno evidenziato i rilievi del Consiglio in carica, del consentito.

Una pratica, questa, che ha prosciugato i pozzi precauzionali di alimentazione degli interventi straordinari e di stabilità patrimoniale.

Se i preposti organi di indirizzo e di gestione nell'imboccare la direzione della discontinuità di indirizzo strategico e di responsabilità e ruoli hanno tenuto conto, oltre che di un'evidente anomalia di durata di una posizione ormai approdata alla fattispecie satrapica, del prevalente imperativo di risanamento e di stabilizzazione dei binari patrimoniali della Fondazione, la percezione di tale fatto non può che attestarsi non tanto sull'encomio quanto sulla presa d'atto (di una determinazione tardiva, ma inaggirabile).

Non vorremmo essere sgradevoli (e/o maramaldeggianti); ma ci viene da chiedere la ragione della pervicacia con cui la folta schiera di prefiche (inconsolabili nell'elaborazione del lutto della discontinuità sovraintendenziale) si ostini nel rifiuto a misurarsi sul terreno dell'ineludibilità della scelta. Di rinnovare l'incarico di vertice e, azzardiamo (anche se i segni di tale volontà non appaiono manifesti), di ridisegnare il format della Fondazione e le regole d'ingaggio.

Saremo franchi. Il Ponchielli versione sfavillante per più di un terzo di secolo è insostenibile. Soprattutto, finanziariamente. Ed è bene che, assumendo le doverose responsabilità, lo si dica.

Per una serie di motivi, che non è qui il caso di particolareggiare tanto sono comprensibili, la gestione non potrà più essere a pié di lista né, una volta rimessa sui giusti binari della trasparenza, contare (almeno a parere di chi scrive) su una dilatazione dell'aiutino comunale.

Indubbiamente, dovrà essere mantenuto il “decoro”. Ed altrettanto bisognerà dedurre risorge aggiuntive dall'ottimizzazione del modello gestionale.

Il Ponchielli non è la Scala. È l'istituzione teatrale (comunale, ahinoi non restituibile al Condominio Foletti) di una città della musica e della liuteria. Ma a tutto c'é un limite.

La fascia sociale elettiva è manifestamente insediata nel ceto medio/alto.

Comprendiamo che proprio perché medio/alto possa essere anche colto ed aspirare ad affinità elettive. Ma, insomma, se non si hanno remore a spendere 1000 euro all'anno per un posto di tribuna allo stadio, meno remore si dovrebbero avere a farsi carico del restringimento del gap tra il gettito del botteghino ed il costo.

Riteniamo questa una premessa inaggirabile.

La segnaliamo al Sindaco, cui va il merito (non universalmente riconosciuto) di aver incanalato l'imbarazzante vicenda verso una discontinuità di cui non tutti sono consapevoli.

Parimenti diventa, come abbiamo premesso, obbligato, nel momento in cui si affidano ai cacciatori di teste i destini di resilienza del Teatro, rimodulare le regole.

È bene, quindi, che il Sindaco, espressione del governo cittadino, sfoderi un bel read my lips, come premessa ad un forte cambio di fase. In cui, a nostro parere, esistono tutte le condizioni di congruità di vocazioni locali per il ruolo sovrintendenziale.

Le indiscrezioni parlano di strabilianti candidati “figli di…”

Se ci è concesso, esprimeremmo qualche perplessità nei confronti dell'affidamento dell'operazione di scrematura delle candidature, in assenza di una griglia di regole di ingaggio e di requisiti.

La città è piccola e, come direbbe la "Caramella Tina Pica", la gente mormora.

Se certe indiscrezioni sono giunte sino a noi, che siamo non alla periferia, ma fuori dai circuiti della comunicazione istituzionale, vuol dire che …

Non sappiamo se la procedura annunciata possa essere, prudenzialmente, ricollocata nel tubetto.

Per tentare quanto meno di verificare se non esistano risorse cremonesi, che, ovviamente a parità di requisiti, possano essere focalizzate almeno nel ventaglio delle opzioni.

Ma su questo profilo avremo modo di esternare nel prosieguo. Quando non potremo non rilevare che l'affaire deve essere sfuggito al sistema consociativo e conformistico dei “poteri”, se com'è avvenuto, è sceso in campo sull'argomento addirittura il titolare della golden share dell'alleanza maggioritaria.

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