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Election Day 20-21 Settembre/2

Le piccole entità municipali: la potenziale transizione dall’irrilevanza all’insostenibilità dell’autogestione elettiva

  15/08/2020

Di E.V.

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Da tempo si esaurita  la spinta propulsiva che derivava l'azione amministrativa locale dagli idealismi del progetto generale di trasformazione della società. Da anni le corde di richiamo tra linea politica generale e i cardini della testimonianza nelle istituzioni periferiche sono quasi esclusivamente limitate (e svilite) ad una funzione tecnica di cassa di risonanza della verticalizzazione/personalizzazione della leadership e della bulimia comunicativo-mediatica. Una sorta di rimbalzo nella scena locale delle “suggestioni” su cui si gioca la “dialettica” generalista: l'avversione irriducibile all'”accoglienza” contrappuntata dall'altrettanto irriducibile integrazione attraverso l'assunzione di conseguenti provvedimenti in ovvio senso contrapposto dei provvedimenti amministrativi locali di facilitazione ovvero di ostacolo al fenomeno (ovviamente comprendendo l'assegnazione degli alloggi di edilizia sociale, l'assistenza scolastica, l'assistenza sociale e sanitaria); l'assimilazione negli stili di vita e di cultura collettiva della progressione ovvero della repulsione di tutto quanto viene ricompreso nel “politicamente corretto”, nel senza se e senza ma, rivolto a temi civili sensibili, come la teoria gender ed il negazionismo delle peculiarità e delle tradizioni culturali autoctone. Insomma, ogni spunto di derivazione dal grande Barnum, che è diventata la politica delle contrapposizioni, costituisce la cinghia di trasmissione degli inputs indirizzati ad “animare” la periferia (anche quella frammentata delle piccole realtà). Col risultato di deformare la visuale dell'azione istituzionale dal “tavolo” delle criticità reali e delle consapevolezze strategiche e progettuali (ammesso che l'attuale ceto istituzionale ne abbia le risorse) in una contesa irrefrenabile e persistente, soprattutto funzionale  e sinergica alla versione più truculenta, tipica del maggioritario spinto. Orientato, notoriamente, dall'animal spirit dell'assolutismo delle visioni, dell'impermeabilità alla mediazione, della pretesa di praticare lo spoils system.

La proiezioni di queste linee-guida (in qualche misura ereditate dalla Prima Repubblica, caratterizzata, però, dai correttivi del “consociativismo” e, soprattutto, da una certa flessibilità nelle alleanze locali) hanno fortemente contribuito all'ingessamento dello sforzo progettuale e della dialettica politica nella periferia amministrativa e al blocco del turn over generazionale nei ranghi dell'elettorato passivo.

Abbiamo parlato, non a caso, di disaffezione. Che, da almeno un decennio, ha assunto anche nella nostra provincia una consistenza allarmante. Si pensi che nella tornata dello scorso anno, che interessava 99 Comuni, in ben 27 ci fu la presentazione di una sola lista; mentre in alcune altre ce ne furono due, semplicemente per conseguenza di contrapposizione interna (non sempre motivata da idealismo!). È del tutto evidente che quanto sopra esercita un condizionamento alla presa di consapevolezza dell'ineludibilità di un cambio di fase e di passo, precondizione per una lettura fattuale e, soprattutto, per uno sforzo collettivo. Che ponga a servizio dell'inversione della tendenza uno sforzo corale, discendente dalla prevalenza di una visione e di una pratica “civica” sull'omologazione alla catena di comando dal centro alla periferia.

L'irrisolta questione dell'efficientamento dell'azione amministrativa, che per territori periferizzati come il nostro comporta un handicap straordinario suscettibile di tarpare le ali a qualsiasi aspirazione di resilienza, risulta aggravata dalla situazione emergenziale in atto.

La consapevolezza di ciò non può non indirizzare responsabilmente tutte le sensibilità politiche in direzione di una desecration della carica ideologica che ha fin qui orientato la cultura politica e l'azione nell'ambito delle istituzioni locali.

Non si tratta ovviamente di decerebrare il progetto politico e la struttura teorica dei partiti nelle realtà decentrate. Ma è indispensabile che si faccia uno sforzo per superare l'automatica omologazione della struttura delle alleanze locali alle linee nazionali.

La mission dei municipalismi a misura dei grandi progetti di trasformazione della società, figlia della cultura ideologica dell'800-900, è andata esaurendosi per effetto della profonda destrutturazione del pensiero e della pratica politica avvenuta alla fine del secolo scorso. La stella cometa dello sforzo progettuale territoriale è transitata dalle visioni universali alle visuali se non altro correlate alla condizione asimmetrica della periferia. Che obbliga (o dovrebbe) ad uno sforzo progettuale differenziato e che non può non differenziare il range delle convergenze.

In tal senso, non deve essere percepito come profilo figlio di trasformismo l'impulso a ricercare una politica delle convergenze e delle alleanze orientata, a prescindere dai riferimenti di livello superiore,  dalla priorità del profilo “civico”

Tale premessa non può, tra l'altro prescindere, dalla consapevolezza di precarietà che da un po' di tempo connota le performances del ceto politico-istituzionale locale.

Ci riferiamo, come abbiamo fatto in una precedente riflessione (doverosa alla vigilia di una chiamata alle urne per il rinnovo di alcuni Comuni del territorio) sul depauperamento dell'afflato partecipativo alla vita istituzionale delle realtà periferiche.

Abbiamo definito crisi delle vocazioni il fenomeno sempre più esteso della difficoltà a far corrispondere i ranghi fisiologici della democrazia amministrativa alla disponibilità fisiologica di cittadini disponibili ad assumere ruoli gestionali.

I ranghi del ruolo di Sindaco, Assessori, Consiglieri, figure che già in passato costituivano il terminale a più diretto contatto con una realtà  decentrata e misconosciuta dallo Stato, hanno vieppiù assistito, in connessione con l'aggravarsi delle tensioni sociali tipiche di un ciclo di profondi smottamenti, alla progressione di tale deriva.

Ne è prova, come abbiamo registrato nel precedente articolo, la crescente difficoltà a garantire un minimo sindacale dialettico di almeno di due offerte (di programmi e di liste) contrapposte. Che in alcuni casi si sono caratterizzate per l'assenza anche di una sola lista e per la conseguente gestione commissariale.

La strada che abbiamo indicato è rappresentata dalla rimodulazione della rete di Comuni. Che non può restare, per la nostra provincia, quella che nel 1928 resistette all'aggregazione forzata di Mussolini.

C'è, infine, un altro ordine di problemi che attiene alla condizione in cui gli eletti sono chiamati ad esercitare il mandato. Il Sindaco molto spesso opera in scenari improbi caratterizzati sia dal difficile esercizio della mediazione politica sia, soprattutto, dall'obbligo di supplenze rispetto ad una domanda onnivora della cittadinanza (che diversamente non saprebbe a chi rivolgersi, per mancanza di riferimenti).

Per tentare di alleggerire almeno questo versante della tensione si parla sempre più di indennità di carica da ripensare e di introduzione di un'indennità di fine rapporto e di un trattamento di quiescenza. Se non si alza un po' di più lo sguardo sulla materia delicata, si arrischia di somministrare un metadone. In quanto non si risolverebbe la questione principale e si completerebbe la mestierizzazione della testimonianza civile. L'aggravio degli incombenti della funzione amministrativa di vertice è legata in parte al fatto che gli eletti (maxime il primo cittadino) vengono percepiti come l'avamposto del rapporto con lo Stato.

Si aggiunge un rapporto non esattamente trasparente tra il vertice eletto ed il vertice burocratico, che dovrebbe presiedere a tutta la filiera della procedura interpretativa della legge, istruttoria degli atti, esercizio dei controlli.

Un segmento questo sciaguratamente soppresso dal ciclo della seconda repubblica; che l'ha affidato ad una dimensione sostanzialmente autogestionaria. Che, in realtà, si limita al controllo finanziario, svolto, come se fosse una società privata, da un collegio di revisione nominato dallo stesso controllato.

Si può fondatamente ritenere che tale sia il perno delle maggiori apprensioni in capo a chi è chiamato ad amministrare. 

Ciò posto non v'è chi non veda l'ineludibilità del ritorno ad un sistematico strumento di controllo preventivo (e, se necessario, susseguente) da parte di organi a ciò deputati, di nomina, com'era un tempo, della Regione, ovvero da parte di sezioni territorialmente staccate della Corte dei Conti.

Tale ritorno avrebbe il vantaggio di sollevare l'alone di preoccupazione gravante sul sentiment degli eletti di sbagliare anche in buona fede, che costituisce la maggior causa di disaffezione dalla missione civica; in ovvia aggiunta alla ricollocazione nell'alveo della legittimità e del merito di comportamenti gestionali, da un quarto di secolo sfuggiti sia a un rigoroso rispetto delle competenze istituzionali sia ad una dilatazione della spesa.

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