Sciopero e mobilitazione dell'11 aprile
Adesso Basta! 11 aprile, sciopero nazionale di CGIL e UIL. Presidio anche a Cremona, lo diciamo anche noi!
Ineludibile chiosa
È arcinota la nostra linea editoriale idiosincratica nei confronti della postura neomassimalistica adottata del vertice della CGIL (in ciò sciaguratamente seguita dalla UIL, che ha ripudiato il suo storico profilo di sindacato riformista).
Ribadiamo qui che la collocazione della centrale sindacale che fu, anche ai tempi del massimo scontro sociale e politico, attestata sulla linea del riformismo (di Di Vittorio) sia la peggior ricetta per affrontare adeguatamente le criticità di questi contesti.
Ma non possiamo, di fronte alle evidenze, fare il pesce in barile. Il picco delle evidenze è che di lavoro si muore ogni giorno.
È ciò è intollerabile.
In passato la nostra testata si è molto esposta in una testimonianza dal profilo radicale.
Dopo questa premessa (forse apparentemente non lineare), non possiamo non evidenziare l'importanza della giornata di lotta di cui abbiamo dato notizia.
Ripubblichiamo alcuni articoli che nel passato dedichiamo alle cosiddette “morti bianche”.
Worker lives matter
Il lavoro serve per vivere... non per morire!
Alla ricerca di ogni pretestuoso tormentone (che faccia tendenza e/o distinzione) infuria nell'opinione e nel media system nazional (popolare) la diatriba sulla genuflessione; applicata non già al gesto liturgico, bensì alla denuncia civile contro lo strisciante e, nei migliori dei contesti, latente impulso razzistico.
Diciamo subito, a titolo personale ed in rappresentanza del profilo della testata, che, su questo terreno, più denuncia c'è e meglio é.
Esaurita la doverosa premessa, aggiungiamo, però, una certa idiosincrasia ad accodarci alle mode dei gesti esibiti au caviar e pretesi coram populo (pena l'ostracismo nel girone dei razzisti).
Tutte le vite contano; a prescindere dal colore della pelle, del censo, della cultura e, prendendo l'abbrivio, per la riflessione che vogliamo fare qui, di che cosa uno campa.
Ecco, è per questa fattispecie che inviteremmo i praticanti dell'inginocchiamento e, invia eccezionale, noi stessi a riservare il gesto per un motivo di cui vale molto la pena.
Nei giorni scorsi in uno dei latifondi dell'Italia meridionale, in un contesto di temperature torride e di prestazioni lavorative molto simili al più bieco schiavismo, è morto Camara Fantamadi, aveva 27 anni e veniva dal Mali.
Era venuto in Italia, a fare i lavori che “gli italiani si rifiutano di fare” (per il vero centinaia di migliaia di connazionali si rifiutano, in omaggio al reddito di cittadinanza e ad un generalizzato e generoso assistenzialismo).
Fino a qualche anno fa (lo possiamo testimoniare da molti decenni, visto che abbiamo soggiornato per più volte con il compagno ed amico Franco Sanasi nella sua terra natale), quando ancora non si aveva percezione dei flussi migratori, i back erano i connazionali che occupavano nei latifondi pugliesi l'ultimo gradino della scala sociale.
Era la terra di Peppino Di Vittorio, prima attivo antagonista dello sfruttamento del latifondismo agrario e del caporalato (categorie non casualmente sintonizzate sul nascente fascismo) e, poi, autorevole ed amato leader del Sindacato bracciantile e della Confederazione sindacale.
Passano le decadi e forse anche i secoli, ma l'impulso a scambiare il lavoro umano con il lavoro bestiale (specialmente se finalizzato alla massimazione del profitto) non concede, a dispetto dell'evoluzione civile, tregua o sconti.
D'altro lato il “Tavoliere” è una terra baciata da Dio, per quanto riguarda la resa delle attività agricole ed orto frutticole.
Che hanno un apprezzato mercato nazionale ed estero. Fatto questo che, coi suoi margini se non cospicui sicuramente buoni, dovrebbe, quantomeno, indurre a moderare lo sfruttamento.
Ma questi margini non bastano. Per un'imprenditoria agraria da grandi numeri, per l'interferenza di molti corpi intermedi facilitatori dello sfruttamento (il caporalato e l'intermediazione più o meno legale), per un sistema distributivo frazionato e, come nel caso della grande distribuzione, onnivoro. Una grande distribuzione (non vorremmo ometterlo) che arrotonda i margini gestendo una logistica, speculare (come è avvenuto la settimana scorsa a Piacenza) ad un'ulteriore filiera di sfruttamento.
Ecco, proviamo a pensare anche a questo, quando entriamo in qualche centro commerciale e vediamo esposte delle isole di primizie a prezzi tutto sommato abbordabili. Le primizie che vengono raccolte da lavoratori, venuti dal Mali, acquartierati in orrende locations fatte di lamiere e cartoni, costretti a raggiungere in bicicletta quando ancora non si è fatto giorno un ambiente di lavoro a cielo aperto e a più di 40 gradi all'ombra. Ritornando, come faceva Camara, a sera, dopo 12-14 ore di lavoro retribuite a 6 euro all'ora (probabilmente senza istituti salariali, complementari e normativi).
Già si muore di lavoro. Non solo del lavoro, privo di tutelate antinfortunistiche (semplicemente, come nel caso della povera ventiduenne toscana, rimosse per velocizzare la produzione), ma del lavoro primordiale.
Camara, finito il suo lungo turno quotidiano; ha inforcato la bicicletta e si è diretto nell'abituro. Dove non arriverà. Ad un certo punto smesso di pedalare, ha appoggiato la bicicletta in terra e si è messo in ginocchio. Poi si è accasciato ed è morto, stroncato dalla fatica.
Scrive Repubblica che “Nel nostro Paese una media di oltre due lavoratori al giorno non fa ritorno a casa”. Vite invisibili, inosservate e dimenticabili; fin quando come nella fattispecie il combinato tra il limite della decenza e la rilevanza mediatica non proiettano l'intollerabilità nelle nostre coscienze.
Prima di Camara (ma in mezzo ce ne sono state tantissime altre di morti invisibili) ci fu, sempre in Puglia, il caso di Paola Clemente, 49nne salariata agricola addetta all'acinatura (patrocinata dal caporalato locale) dei vigneti. Stremata dall'usura di lavori disumani, dalla levataccia e dal trasferimento nei campi e, probabilmente, dal supplemento del lavoro domestico.
Il tutto per pochi euro, che finivano in un bilancio domestico sempre troppo magro, mentre il profitto imperturbabilmente era diretto, come sempre, alla catena di cui abbiamo detto.
Per due volte consecutive occasione del 1° maggio abbiamo eletto Paola Clemente testimonial protagonista del dossier festa del lavoro de l'Eco del Popolo.
Non l'abbiamo persa di vista neanche in questa circostanza in cui abbiamo acceso i fari sulla vicenda tremenda di Camara; soprattutto, considerando (anche se il fatto non ce la restituirà in vita) che il datore di lavoro (sic, lo schiavista!) è stato rinviato a giudizio per omicidio colposo (insieme con altri 6 imputati).
Parva res, rispetto alle dimensioni ed alla gravità del fenomeno; parva, ma pur sempre un segno di inversione di una tendenza civile e monito a non girare più la testa dall'altra parte.
Già, perché, senza voler minimamente prendercela col ceto politico-istituzionale pugliese, registriamo che da decenni il riflettore della testimonianza civile e sociale ha trascurato i lavoratori “invisibili”, ma ha privilegiato l'utero in affitto, la xylella della vite e il no trivelle.
Ognuno ha, nella testimonianza civile, le sue priorità. Certamente Clemente, Fantamadi e i numerosi altri “invisibili” non hanno avuto modo di accorgersi del profilo di sinistra dei Governatori della Regione in cui hanno vissuto una breve e tribolata esistenza e sono morti.
Con il che (con il groppo in gola ed un incomprimibile incollerimento) finisco la riflessione chiedendo a me stesso e a chi mi leggerà se quanto denunciato possa appartenere all'ordine delle cose del terzo millennio e sia compatibile col più ampio contesto delle emancipazioni sociali raggiunte.
(E.V.)
Onore ai caduti Vezzoli e Lissignoli. Onore al lavoro
Quando ci si addentra nei territori del dolore si corre il rischio di sottoporre la testimonianza all'accusa di ricorrere alla retorica e, ancor peggio, alla strumentalizzazione.
Pazienza! Ma abbiamo cuore e mente troppo gonfi di dolore e di risentimento per questa (ennesima) tragedia del lavoro; che induce a considerazioni un po' più ampie dello spunto cronachistico.
Perché, va detto, diversamente dal solito, questa circostanza, non induce, almeno dalle battute iniziali con cui è stata presentata la ricostruzione dell'evento, ad agitare un caso di ordinaria trascuratezza.
È un evento tragico che, però, non è neanche conseguenza del fato o del taglio del filo delle Parche.
Le doverose investigazioni ne chiariranno puntualmente la dinamica; ma sin d'ora, sarà perché si può definire una tragedia a km 0, sarà perché la dirittura umana ed imprenditoriale del gruppo coinvolto sono cosa ben nota, appaiono universalmente escluse le circostanze dell'incuria con o senza dolo eventuale.
Ogni giorno la vita impartisce delle lezioni, in alcuni casi anche severe.
La tragica fine di Angelo e di Francesco è una di queste.
Due cittadini esemplari, ben inseriti nella comunità, due lavoratori senza mende, responsabili (come sempre dovrebbe essere) verso l'azienda. La congiuntura che se lo fossero stati un po' di meno, ad esempio assumendo un atteggiamento neghittoso di fronte alle avvisaglie dell'anomalia causa del sinistro, oggi parleremmo di pesanti danni economici per un primario gruppo agro-industriale, non già di un grave infortunio sul lavoro con due decessi, dice inequivocabilmente della loro dedizione.
Si sarà fatto certamente caso al particolare che, quasi sempre, le morti sul lavoro si moltiplicano per effetto di gesti eroici di soccorso tra compagni di lavoro.
I due morti sul lavoro di Bonemerse rappresentano la media pro die dell'incidentalità, con conseguenze mortali, del trend infortunistico italiano; il più elevato, per inciso, a livello continentale. Esso rimane costante a prescindere dalla riduzione della base produttiva provocata dalla crisi economica.
Indubbiamente si muore di più sulle strade; si morirebbe di più in guerra. Già! Ma questo dato, di per sé stesso, resta impressionante.
Le norme (eccessive e farraginose) non mancano. Un po' meno l'assiduità, la sistematicità e la profondità dei controlli e una direttrice spontanea del management.
Ma questo tributo di vite strappate nell'esercizio dell'attività più rilevante e feconda per il consorzio umano dice ancora qualcosa alle nostre coscienze od è destinato a scivolare su di noi come l'olio sull'acqua?
Si è andata attenuando la percezione delle reali dimensioni degli apporti etici alla stabilità e alla coesione sociale, alla gerarchia dei valori, su cui regge l'intelaiatura della vita comunitaria e della civiltà.
A concorrere a ciò è la perdita di contatto delle cose che contano: il lavoro, la dedizione verso sé stessi e gli altri, la solidarietà, la serietà.
Certo che si deve vivere! Ma per ciò, si trae sostentamento dal lavoro (dai lavori!), a prescindere dal ruolo e dalle funzioni.
Invece, il capolavoro del combinato tra globalizzazione/deregulation pilastro del turbo-capitalismo ha svuotato l'economia del perno manifatturiero, ha impancato la finanza, con cui dai soldi si traggono altri soldi, attraverso ovviamente trappole ed illusioni, ed ha travolto il perno etico-morale del sistema, il lavoro.
Lo si è messo in un recinto e svilito. Si sono messi sotto schiaffo diritti e regole, subordinati alla “flessibilità” (termine che mimetizza il mantra della pretesa di mani libere). In cui il tuo ruolo ed il tuo apporto all'organizzazione aziendale hanno lo stesso significato degli altri fattori produttivi: le materie prime, l'energia, il packaging, lo stoccaggio/logistica, la trasportistica, il marketing.
E, come tutti gli altri fattori, quando servi meno o non più, vieni ridimensionato od espulso.
Vieni lasciato in balia di un welfare sempre più declinante e degradato; in barba alla vulgata dello stato etico, che ti coccolerebbe fino a rimboccarti le lenzuola.
Questa degradazione di ruolo sociale comincia già da come la tua vita viene preservata nei luoghi di lavoro. E vabbè, se ogni tanto ci scappa il morto; ma è ineluttabile: dicono.
Non v'è, in ogni caso, dubbio alcuno attorno al fatto che la resilienza dai presenti scenari di degrado e di declino non passi (e non debba passare) dalla riduzione dei diritti e dall'umiliazione del lavoro.
Né dal rifiuto a distribuire i sacrifici su una platea più vasta di quella che i sacrifici ha sempre subito.
Magris annotava ieri:
La crisi economica arrischia di provocare non tanto una lotta per la sopravvivenza quanto una fiacca rassegnazione. Ci sono individui che lottano con le unghie e con i denti per la loro esistenza e per la dignità della loro esistenza.
Il fermo-immagine dei caduti sul lavoro di Bonemerse ci sprona a far sì che tutto ciò non accada più.
Sarebbe ciò un grave segnalatore dell'attenuazione delle capacità individuali e collettive di essere fedeli ai capisaldi etici su cui si fonda la comunità. Angelo e Francesco sono nostri figli. La campana della loro morte ci rende consapevoli che oggi la comunità è più povera. Ciò è dimostrato dalla folla che ha partecipato alla cerimonia di commiato.