Volendo (anche se la criticità della questione sconsiglierebbe) ricorrere alle risorse del battutismo caroselliano, recentemente evocato da un apprezzato opinionista, verrebbe d'istinto di dire…Moplen!
Non foss'altro che per alleviare, più che una tensione pregressa ma latente (nei contesti attuali della politica si replicano le abitudini dei nidi d'infanzia, in cui, notoriamente, ci si accapiglia ed in un battibaleno si passa ad altro), lo sbigottimento provocato dalla dissolvenza della tensione e dal gesto delle spallucce nei confronti delle conseguenze. E per provare a sondare le intenzioni degli autori della performance, che ha tenuto inchiodata la scena politica per quattro mesi, sul come riannodare i fili. Non prima, tuttavia, di fornire una spiegazione sul perché tutto ciò abbia potuto accadere.
Per irresponsabilità? Per incongruenza nel percepire l'esatta natura ed il reale peso delle questioni sul tappeto? Per incapacità ad uscire da un collo di bottiglia in cui si è scivolati con leggerezza e senza calcolo del dolo eventuale?
D'altro lato, per capire la dinamica dei gesti atletici e dei falli non occorre, nella fattispecie scomodare né il VAR né l'aforisma di Boskov. Tanto appare chiara la dinamica.
Come altrettanto chiaro appare, si ripete, l'impasse, che, al di là del risultato della partita, pesa sul futuro, immediato e protratto nel tempo, di un ente, come la Provincia, non esattamente in forma smagliante.
Una istituzione vilipesa e paralizzata, oltre che dalle conseguenze della inconsiderata riforma Delrio, che revocano totalmente e definitivamente la funzione di ente intermedio di raccordo dei servizi di secondo livello e di indirizzo programmatorio territoriale, anche dal raggiungimento del capolinea di qualsiasi velleità di invertire (o almeno frenare) la corsa verso la marginalizzazione.
Scandita, nella seconda metà del mezzo secolo di vita dell'istituzione regionale, da una sistematica frustrazione dei più elementari criteri di equità nella distribuzione delle risorse correnti destinate alla sostenibilità dei presidi territoriali, nonché da una totale assenza di sollecitudine nei confronti di uno sviluppo armonico di tutta la Lombardia.
Definire questo sedimento storico di trascuratezze conseguenza di deliberata volontà forse potrebbe essere eccessivo (anche considerando che dal 1970 ad oggi si sono succedute al Pirellone formule mutanti di governo). Indubbiamente, l'intelaiatura della prima repubblica, pervasa dalla pratica consociativa, non avrebbe consentito forme accentuate di ostracismo territoriali. Sotto tale profilo, andrebbe anzi detto che negli esordi del nuovo potere legislativo decentrato era, avesse voglia di consultare gli annali di mezzo secolo fa, riscontrabile una volontà politica di gestione equilibrata delle risorse e di programmazione degli investimenti strategici a misura della vocazione delle aree.
Poi anche allora, si scaldava di più e meglio chi era più vicino al fuoco.
Ma sotto tale profilo andrebbe ricordato che sia a mezzo dell'azzonamento dei servizi socio-sanitari ed ospedalieri sia negli indirizzi programmatori per uno sviluppo equilibrato la barra del governo regionale era rimasta, almeno fino all'inizio degli anni 90, saldamente ancorata ad una rotta accettabile (anche se risale a quella stagione l'accusa di tendenze milanocentriche).
Cremona e Mantova, le due aree dell'asta padana lontane dalle percezioni dei governanti regionali molto più della distanza chilometrica, costituivano anche allora le cenerentole. Ma, oltre a qualche significativo gesto di valore strategico (l'Azienda dedicata alla portualità interna e conseguentemente alla promozione della navigazione fluviale e della logistica), risultavano strutturati i criteri di gestione decentrata. Se non proprio di un'autogestione del territorio dei servizi ospedalieri e sociosanitari, si può ex post definire tale modello in certo modo territorialmente correlato.
Anche dal punto di vista degli investimenti strutturali, andrebbe aggiunto che le Giunte Regionali, operanti tra gli anni 70 ed 80, mostrarono una certa aderenza ad una certa volontà innovativa.
Se si pensa che il nuovo nosocomio Oglio Po, da qualche anno nel mirino di chi vuol fare piazza pulita dei presidi decentrati (sulla quale non pare possa sussistere dubbio alcuno), sarebbe stata la risultante il compiacente accompagnamento regionale nei confronti di un virtuoso percorso intrapreso dalle due Province e dai due circondari, divisi da confini amministrativi ma resi omogenei dalle gravitazioni e dalla volontà di condividere il beneficio di presidi modernizzati ed ottimizzati gestionalmente.
La discontinuità rispetto a tale retroterra di visioni progettuali sarebbe stato innescata sia dai mutati contesti politici-istituzionali generali, suscettibili di traghettare le iniziali funzioni delle Regionali prettamente legislative e programmatorie verso il “governatorato” sia dall'accelerazione impressa al modello dell' “aziendalizzazione” della gestione dei servizi ospedalieri e socio-sanitari. Modello che, abrogando la struttura decisionale della zonizzazione (USSL e POC), implicitamente avocava (senza neppure una parvenza di interlocuzione) alle prerogative centralizzate la gestione di un settore che implica l'80% delle risorse regionali.
Si trattava di uno stacco, messo a punto nelle more della traslazione dalla prima alla seconda repubblica ma perfezionato (con la determinazione e con i gesti ben manifestati) nel ciclo in cui, come afferma la vulgata auto agiografica, la Lombardia sarebbe diventata una Regione eccellente.
Da allora molta acqua, come si suol dire, è passata sotto i ponti. Senza che i protagonisti di questa deriva ipercentralizzatrice mostrassero di conoscere la vergogna (ovviamente di rendere sostenibile un modello autocratico dai profili etici molto discutibili e dai risultati inaccettabili dal punto di vista dell'equità e dell'avvedutezza dell'impiego delle risorse).
Il sicurvia ispiratore è individuabile nella centralizzazione, consumata non sempre e non totalmente nell'hinterland milanese, della struttura dei servizi e della direzione diventata ermeticamente monocratica e sotto le dirette dipendenze del potere esecutivo regionale.
La cui mission è stata inequivocabilmente diretta al perseguimento della privatizzazione di quel che un tempo fu ed ora viene chiamato controfattualmente Servizio Sanitario Nazionale.
Che, ricadendo nella fattispecie di una competenza statale delegata, smantellato nella forma; bastando, come ammoniscono le ricadute di alcuni improvvidi provvedimenti assunti a danno dell'Oglio Po e del presidio ospedaliero cremonese (che si aggiungono ad una lunga teoria di ridimensionamenti), non può essere conclamato ma attuato nei fatti gestionali, anche singoli anche apparentemente finalizzati alle economie di scala.
Come finirà non è difficile immaginare. A principiare dalle maggiori ricadute sia sui ceti più deboli sia sulla coesione e sostenibilità dei territori geograficamente e politicamente più lontani dal cuore del potere decisionale.
Se è concessa una digressione rispetto all'analisi principale sulle strategie gestionali in capo maggior cespite di spesa regionale (che corrisponde alla principale di domanda di servizio pubblico), osserveremo, infatti, che i tagli inferti ai presidi ospedalieri specialistici sono, al di là dei danni sociali caricati sulla popolazione residente, rivelatori di una volontà di dequalificazione dei servizi sanitari sul territorio e, contemporaneamente, forniscono motivazione al meccanismo della fuga verso il privato o verso lidi pubblici più appaganti per i bravi specialisti, penalizzati e allarmati dalla constatazione sul campo dell'impoverimento dei presidi, in cui diventa sempre più difficile mantenere alti livelli di professionalizzazione ed adeguati standards di prestazioni.
Detto delle ricadute, soprattutto sul piano dell'innesco della regressione territoriale rispetto alla maggior voce delle funzioni regionali, diremo sinteticamente dei settori strategici, in cui la Regione è detentrice di funzioni direttamente gestionali (come la mobilità su rotaia) o di programmazione ed investimento (come l'infrastrutturazione).
In tal modo inquadrata la questione, non è azzardato affermare che il pregiudizio del governo regionale nei confronti del nostro territorio (come o forse più degli altri periferici) è stato ed è di intensità superiore.
Sulla realizzazione di ciò che costituisce il patrimonio infrastrutturale della provincia non c'è debito di riconoscenza verso i superiori livelli di governo (a parte i limitati e discontinui finanziamenti della Paullese).
Ospedale Maggiore del Capoluogo, Autostrada Brescia-Piacenza, porto-canale sono stati realizzati in regime di autofinanziamento (a parte il porto-canale ed il primo tratto del canale finanziati da un Consorzio dedicato di istituzioni locali).
Non vogliamo qui impegnare un cahier de doléances; ma la situazione, più o meno, è questa.
Cosa può aver concorso ad incardinare e a consolidare nel tempo un così pernicioso mainstream a danno della nostra realtà comunitaria?
Sicuramente un filone collaterale alla tendenza a marginalizzare la realtà dei territori periferici, anche sotto il profilo della valutazione dell'apporto dei consensi alla formazione degli equilibri in sede politica ed all'interno dei partiti.
Se pensiamo all'ultimo quarto di secolo sotto la lente del marchese del Grillo, a nessuno, tranne il parlamentare nazionale Pizzetti (che se l'è ritagliato da solo), dei rappresentanti della circoscrizione è stato riconosciuto, dalla nomenklatura politica ed istituzionale dei livelli superiore, un accettabile e concreto ruolo di rappresentanza delle prerogative territoriali.
In aggiunta, essendosi in qualche misura la realtà provinciale sottratta all'omologazione rispetto ai superiori equilibri, può aver funzionato (col beneplacito sottinteso degli eletti in quota del campo maggioritario regionale e per lunghi periodi nazionale, evidentemente autoassolti dalla rappresentanza delle aspettative locali) l'impulso dei governanti di non tenere in nessun conto, nell'azione di governo (che dovrebbe essere super partes), le istanze delle riserve politicamente disomogenee.
D'altro lato, anche se, per quanto intuibile, la tendenza non fu mai espressamente conclamata, di tanto in tanto (come nel caso del recente election day per le comunali) qualche gallina (il frontman leghista, che evocava la probabile ritorsione nei confronti di un Comune eventualmente disallineato) fa l'uovo.
Nel rivelare, appunto, ad abundantiam ciò che la realtà ha reso evidente da tempo.
Ma ci sarebbe, nell'analisi dedicata alla ricerca del mandato e dei mandanti della marginalizzazione territoriale, un ultimo tassello. Che non viene mai considerato e, quando lo è, viene agitato come una clava e non, come dovrebbe, un elemento di consapevolezza dei motivi concorrenti a rendere ancor più pregiudizievole il rapporto, diciamo così tanto per stare bassi, mal mostoso dei centralisti regionali (che fanno rimpiangere il passato centralismo statale) con la periferia.
Tale tassello, last but not least, riguarda la latitanza del sistema politico ed istituzionale locale rispetto ad un'analisi condivisa dello stato dell'arte ed alla messa a punto, supposto che prima o poi con un po' di responsabilità civile ci si arrivi, della tattica con cui rappresentare, nel rapporto con i superiori livelli istituzionali ed appetto l'esercizio delle proprie prerogative, un'ipotesi di resilienza.
Avrebbe potuto-dovuto essere l'ente intermedio il raccordo per attivare tale snodo. Ma, come abbiamo considerato nelle premesse, dopo la cura Delrio e dopo la performance dell'elezione del successore dei presidenti del ciclo “riformatore” (li ricordiamo Vezzini, Viola, Azzali), che in qualche modo hanno garantito dignità alla funzione istituzionale e l'efficienza possibile ad una attività priva di sufficiente sostentamento, difficilmente si potrà, su questo terreno, fare un tamquam non esset.
In ragione sia della prestazione poco, diciamo così, performante di tutto (tranne qualche sporadica presa di distanza individuale) il pacchetto di mischia della politica, donde è sortito un presidente eletto da un corpo elettorale di secondo livello e nella misura di un quarto dei consensi (al quale, in ogni caso, porgiamo un beneaugurante in bocca al lupo).
Che la percezione di un clima da tutti a casa non sia diffusa solo presso un'opinione pubblica distratta e forse stomacata ma sia approdata ai vertici della struttura comunitaria è dimostrato, tra l'altro, dalla mira ad alzo zero della stampa locale. Nella quale, se il tormentone delle elezioni, fissate a pieno agosto e concluse a novembre inoltrato, ha fornito cacio per irrorare i maccheroni della suspence, è subentrato l'impulso etico a combinare la mission della corretta e particolareggiata informazione con la promozione di una riflessione generale.
L'incipit dell'editorialista de La Provincia, titolato tutta pagina e cubitale, evoca né più né meno la chiamata alla lotta. Per di più dalle barricate.
Se, in un contesto in cui è del tutto sparita la griglia regolante tono-volume delle repliche ed in cui tutto (comprese le inezie) viene tarato su decibel da discoteca, non si temesse di disperdere un così vibrante appello nell'insulsaggine quotidiana, non ci sottrarremmo al gesto di convenire sull'analisi e di ritenere congrua la qualificazione della risposta da opporre allo stato di cose denunciato. Con un disincantato approccio (serve nei confronti di un potere decisionale polarizzato che si fa un baffo soprattutto del dovere di ascolto se non proprio di metabolizzazione delle istanze dal basso?) e con una cinica avvertenza si eviti, per erigere le barricate, di attingere al mobilio altrui!.
Saprà almeno la classe dirigente dell'intera comunità territoriale raccogliere questa esortazione, che dovrebbe provenire dalla politica ma che, invece, si coglie nei conversari e prorompe sui mezzi di informazione?
Ma per far ciò, che costituisce il primo step dello sforzo di dare consapevolezze e dignità all'intero territorio, è necessaria una ricognizione condivisa (territorio, istituzioni comunali e circondariali, rappresentanza parlamentare e regionale, organizzazioni politiche, associazionismo imprenditoriale, corpi sociali intermedi) suscettibile di delineare i termini capaci di invertire il declino e la lamentata marginalizzazione.
Ciò implica la dismissione dell'atteggiamento remissivo e rinunciatario degli ultimi decenni; in cui, per colpa di un ceto politico assorbito nella spirale di una polarizzazione che non lascia spazio alla rappresentanza degli interessi locali (a meno che non sia sintonizzabile alle aspettative di scambio e di omologazione agli assetti maggioritari).
L'evidenziatore delle priorità e del metodo viene dal mondo economico locale, che, con molto senso pratico, indica come strategica la nuova autostrada. Invece derubricata come opera inutile e perfettamente sostituibile con una fantomatica riqualificazione dell'esistente. In omaggio alle visioni minimalistiche della economia circolare di qualcuno e del cinico tatticismo di chi, pur non avendo il coraggio della franchezza, ritiene che il fallimento della mission principale (il finanziamento dell'infrastruttura) tolga dall'imbarazzo il potere regionale ed, al ribasso, riservi qualche briciola da investire in opere spostate ad altro baricentro territoriale (il cremasco) o rapportate ad altre carenze strutturali (viabilità ordinaria e collegamenti su rotaia).
Dividersi su cosa sollecitare replica il gesto dei polli di Renzo.
Dopo la nota di presentazione di Dossier 2, pubblichiamo due importanti contributi, afferenti allo svolgimento ed alle conclusioni dell'iter di insediamento del vertice dell'istituzione provinciale.
Il primo viene da Antonio Grassi, Sindaco in carica del Comune di Casale Cremasco e Vidolasco, con un passato di apprezzato giornalista ed un presente di osservatore-commentatore delle questioni territoriali e dei comportamenti istituzionali.
La seconda testimonianza viene da Tommaso Anastasio, coordinatore della Comunità Socialista Cremonese-Casalasca.
La politica provinciale è sul Titanic, ma chi è deputato a porre rimedio all'emergenza, continua a far suonare l'orchestra.
L'andamento della seconda elezione del presidente della Provincia, a circa tre mesi dalla prima, è l'iceberg che l'ha colpita. Questi i numeri: totale elettori 1.305, votanti 291, elettori non pervenuti 1.014, voti assegnati al neopresidente 281.
Come possa essere rappresentativo un presidente eletto con queste cifre dovrebbero spiegarlo le segreterie di partito che hanno portato al risultato. Invece, garantito al limone, continueranno a suonare l'orchestra e ci aggiungeranno anche la grancassa. Diranno che con questa votazione si è usciti da un stallo istituzionale pericoloso. Intenzione nobile, ma dovrebbero anche precisare che lo stallo blocca nomine in enti e commissioni di competenza dell'amministrazione provinciale.
La politica non è l'esibizione di muscoli e neppure l'arroganza di pseudo maschi alfa. È l'arte della mediazione, della capacità di trovare soluzioni a situazioni complesse. È l'abilità di negoziazione. È la volontà di cercare un accordo che soddisfi le parti in causa. In ultima analisi, di trovare intese favorevoli ai cittadini. In questa circostanza tutto questo non è avvenuto. La politica ha fallito.
Ad essere pignoli, i cittadini hanno subito un danno: dovranno pagare le spese della seconda chiamata alle urne. Nella prima adunata le segreterie di partito hanno presentato un candidato ineleggibile, che è stato eletto. Si è dimesso e di conseguenza si è ritornati alle urne. Al luna park o al mercato direbbero altro giro, altro regalo.
Se si esamina la situazione senza ipocrisie del politicamente corretto, ma si dice pane al pane e vino al vino, non si può negare che la classe politica provinciale non è eccelsa. Per carità, non scarsa, più banalmente non da Champion League. Forse neanche da serie A. Probabilmente da serie B. Per i più caustici, è una dirigenza di dilettanti allo sbaraglio. Ma è ingiusto. Cremona e la sua provincia meritano almeno la serie A.
Cremonesi, cremaschi e casalaschi hanno la necessità di rappresentanti che non intendano la politica uno scontro, ma un dialogo. Che ai bicipiti preferiscano il cervello. Che utilizzino la dialettica invece che i social. Non si pretende degli Aldo Moro con le convergenze parallele e neppure suoi ologrammi o brutte copie. Basterebbero delle bozze.
C'è un altro dato che merita una riflessione.
Alle urne si è recato il 17,74 per cento degli aventi diritto al voto degli 85 Comuni fino a 3000 abitanti. La percentuale sale al 60,34 per cento per i due Comuni sopra i 30.000: Cremona e Crema.
Il voto ponderato allarga la forbice. Il neo presidente è stato eletto con 33.840 voti. Le due corazzate hanno portato 17 mila consensi. Il resto del contado 16.840.
Per il presidente eletto hanno votato 281 elettori. Di questi, 34 sono amministratori di Cremona e Crema e 247 amministratori del contado. Deduzione: Cremona e Crema hanno deciso. Hanno seppellito il contado. È la legge Delrio, bellezza! Ma è anche la teoria del Marchese del Grillo. «Mi dispiace, ma io sono io e voi non siete un cazzo». Non sta scritto da nessuna parte che non si possa cambiare.
Piccolo può essere bello, essere portaborracce e servi della gleba un po' meno. Una
riflessione su questo tema e sulla politica in provincia di Cremona sarebbe auspicabile. Indispensabile per ritrovare una unità del territorio. Per crescere. Altrettanto augurabile sarebbe che i manovratori del Titanic abbandonino l'uso di steroidi e passino alla camomilla. O, come si usava un tempo, all'Acutil fosforo.
È il momento degli stati generali della politica provinciale. Del passo indietro dei partiti, della valorizzazione dei piccoli Comuni e del civismo. È una proposta. Un tentativo per salvare il Titanic.
Antonio Grassi
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PROVINCIA: BASTA CHIACCHIERE. È L'ORA DEL CORAGGIO E DELLA RESPONSABILITÀ
Ora è ufficiale, la Provincia in quanto ente amministrativo, se prima era un morto che camminava, ora è un morto e basta. L'epitaffio in questione non vuole essere tanto irriverente nei confronti del neo-ri-eletto, quanto piuttosto prendere atto della situazione grottesca venutasi a creare con la nefasta riforma Delrio, ovvero, l'incarnazione del detto: “il diavolo fa le pentole ma non i coperchi”!
In queste condizioni è difficile rimanere diplomatici. Non possiamo più esserlo con chi si diverte a distruggere le regole del gioco e magari a portarsi via la palla non appena capisce di stare per perdere.
L'affluenza alle urne di domenica scorsa per “decidere”, o meglio, ratificare il presidente di ormai non si sa più di cosa è stata un flop a livello di “esercizio democratico”. Nemmeno un terzo degli elettori aventi diritto (281 su 1305) si è recato ai seggi. Comprensibile per la sua ovvia e scontata conclusione? Può darsi, ma allora, mi chiedo che senso abbia e quale autorevolezza possa avere, un mandato ottenuto in siffatte condizioni.
Se dal punto di vista operativo l'esautorazione dell'ente era ormai sotto gli occhi di tutti i cittadini, ora, con l'ulteriore passaggio formale di queste elezioni, anche i principi della democrazia rappresentativa vengono ulteriormente umiliati e seriamente minati alla base.
Stiamo passando da una delle Costituzioni più belle del mondo ad un colabrodo fatto di mitragliate continue, sia da governi di centrodestra che di centrosinistra, non ultima, il taglio del numero dei parlamentari che già avevamo criticato, si badi, perché anche in quel caso i “coperchi” sono mancati e si chiamano riforma della legge elettorale e degli assetti istituzionali, nel riequilibrio dei tre poteri dello Stato per la tenuta democratica della nostra Repubblica. Scusate se è poco! Quasi un vilipendio alla nostra Costituzione che suggella il fallimento dei riformisti dè noantri, incapaci, miopi e populisti. Si sa che durante la propaganda tutti i partiti, chi più chi meno, adottano uno stile cosiddetto populista, ma un altro conto è riproporlo anche come metodo di governo, a nocumento quasi sempre di quel popolo che dal populismo viene prima illuso e, poi, inesorabilmente fregato.
Negli ultimi cinque anni le parole si sono fin troppo sprecate sul tema. Dibattiti e convegni non sono mancati, almeno da parte nostra. È ora di agire.
Da bravi socialisti non riteniamo tutte queste storture risolvibili in quattro righe di comunicato né tanto meno attendere che arrivi il salvatore di turno con la bacchetta magica. Rilanciamo piuttosto, con estrema convinzione, l'idea che gli amministratori locali debbano trovare il coraggio (più che il tempo) di formare una consulta provinciale per tracciare un percorso fatto di condivisione e cooperazione fattiva, nell'intento di fare realmente sistema, per il bene del proprio comune e al contempo dell'”area vasta” in cui esso è inserito.
Se proprio volessimo chiedere una cosa al Presidente Signoroni è di farsi promotore di questo piccolo ma importante gesto.
L'alternativa è l'uomo solo al comando. Ma di cosa?
Tommaso Anastasio