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Coronavirus e stress psicologico

I mass media non hanno certo aiutato

  25/06/2020

Di Vittorio Dornetti

Coronavirus+e+stress+psicologico

Egregio Direttore,

 

un paio di mesi fa, nel bel mezzo della pandemia, un mio amico (non importa dire chi) osò scrivere su Facebook un monito diretto a quanti postavano incessantemente l'elenco dei morti e le foto di quanti erano stati posti in condizioni estreme dal Covid. Il mio amico sottolineava il cattivo servizio di simili comunicazioni (che si aggiungevano all'ossessivo computo dei morti che telegiornali ed osservatorio medico snocciolavano quotidianamente più volte al giorno) perché di fatto venivano ad aggravare uno stato depressivo, o comunque di forte stress psicologico, che era un nemico non meno insidioso del virus. Stare chiusi in casa tutto il giorno, uscire di casa per un attimo bardati e protetti dalla mascherina (e magari sollecitando le proteste di vicini e condomini), essere sottoposti al cumulo di pessime notizie vomitate dal piccolo schermo, non era uno stato di cose che andava ulteriormente esasperato e sottoposto a nuove tensioni.

Il post scatenò una marea di proteste, con le prevedibili accuse di cinismo e di insensibilità, di superficialità davanti alla tragedia, e di mancanza di pietas nei confronti della morte di tante persone. I censori erano probabilmente gli stessi che scagliavano anatemi degni di Savonarola contro quanti cantavano, dialogavano dai balconi e facevano concertini e assoli di strumenti da finestre e verande delle loro case. Anche qui accuse del medesimo tenore (mancanza di sensibilità soprattutto), dimenticando che, fin dalle origini, gli esseri umani hanno cercato di superare il dolore e lo sperdimento del lutto, attraverso un di più di vitalità, un insistere sulla vita proprio quando quest'ultima è maggiormente minacciata (presso gli antichi greci il riso rituale era una componente fondamentale della cerimonia funebre; si brinda spesso ai defunti; a New Orleans, dopo le esequie, la stessa banda che ha suonato marce funebri si scatena in pezzi trascinanti). Insomma, la vita deve continuare perché c'è anche una pietas verso quanti sono sopravvissuti.

Ma, esempi antropologici a parte, l'indignazione dei puri nasce anche dalla classica sottovalutazione del disagio psichico, Non si dice la depressione, ma lo “stare male” a livello psicologico è spesso definito con metafore banalizzanti (nervosismo, cattivo umore, malavoglia, ecc...), anche quando forse le cose sono un tantino più complicate. Il coronavirus ci ha messo di fronte ad uno spettacolo tra i più angoscianti che un essere umano può tollerare: la reiterazione della morte in una condizione di impotenza e di immobilità, che mostra tutti i caratteri della trappola.

Una responsabilità non modesta per lo stress psicologico che tutti abbiamo subito, spetta sicuramente ai media. Si sa, i giornali (e in special modo i telegiornali) sono ansiogeni di natura: campano proprio sullo stupore, il turbamento, la sorpresa che provocano. Fa parte del gioco: come insegnava già Manzoni, nessun romanzo può essere scritto quando le cose vanno bene. Ma è anche una questione di scelte. Può dipendere anche dalla mia personale antipatia per conduttori e conduttrici di talk show e trasmissioni di approfondimento, ma non riesco a dimenticare (e nemmeno a perdonare) il lampo fulmineo di soddisfazione che brilla per un attimo nello sguardo del conduttore di turno quando deve annunciare le cifre impressionanti delle morti che si sono verificate in giornata e anticipare lo spettacolo delle bare che si accumulano nelle chiese. E poi, specie nei momenti di maggior tensione, le statistiche dei morti, i contagi che aumentano / calano, le prospettive preoccupanti, in una escalation che diventa sempre più intrusiva. Con parole e commenti, fra l'altro, che sono sempre gli stessi, ridotti a slogan. La realtà virtuale cancella quella autentica, e la sostituisce, diventa la situazione ufficiale di uno stato di cose allo sbando.

Si poteva fare diversamente? Gli allarmisti non mancano di buone ragioni. In un'opinione di massa in cui a volte basta incidere una crepa per provocare la rottura della diga, i moniti e gli esempi negativi servono, almeno come deterrente. La preoccupazione, assieme agli effetti visibili delle proprie azioni, risulta spesso un antidoto efficace a molta superficialità e stupidità e a tanto menefreghismo, magari orgogliosamente ostentato. Tutto questo va bene.

Quello che non si riesce ad accettare è l'iterazione spasmodica, la cupezza diffusa, la staffetta delle notizie preoccupanti che si rincorrono da una trasmissione all'altra, disegnando un futuro che non può che essere nero. Questo è spettacolo, non è più “dare la notizia”; è oltretutto spettacolo di bassa lega, quando la fantasia latita e non si tiene conto delle conseguenze.

Forse sarebbero state più opportune una maggiore moderazione nel dare le notizie, una salutare alternanza di notizie cattive e notizie buone, qualche spiegazione e aggiustamento in più per quanto riguarda i numeri delle statistiche (che non sono affatto parlanti di per sé stessi e vanno interpretati). Di statistiche comunque ce ne sono state fin troppe (è il male del secolo), accanto a slogans come “andrà tutto bene”, opportuni nei tempi brevi, ma a loro volta inefficaci se ripetuti come un suono vuoto. Si tratta di guardare avanti, vedere le cose con un minimo di serenità, piangere i morti ma non amplificare gli effetti del male, ricordarsi che siamo vivi e che possiamo continuare ad esserlo.

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