Colpisce e sgomenta lo scontro devastante che ancora una volta sta divampando nei territori israeliano palestinesi. Con vittime e distruzioni la situazione sta facendo degenerare una così delicata e difficile compresenza e convivenza di due popoli in episodi di guerra civile e di odio crescente.
Pur senza averne alcuno specifico titolo, colgo la disponibilità de “l'Eco del popolo” ad ospitare le diverse opinioni su una così drammatica situazione. Ho sempre avuto su queste vicende una convinzione di base: la netta distinzione tra la sacrosanta comprensione delle tragedie e delle ragioni storiche degli ebrei, con la più netta ripulsa di ogni forma di antisemitismo, da una parte, e dall'altra i giudizi sulle concrete vicende dei modi con cui è nato lo Stato di Israele e di tanti successivi relativi accadimenti.
Su questa seconda parte, pur riconoscendone la enorme complessità e torti e ragioni degli uni e degli altri, continuo a ritenere che i palestinesi abbiano subìto e continuino a subire gravi torti ed abbiano accumulato crediti morali e materiali che andrebbero riconosciuti e risarciti.
Un capo, tra i fili di questa così arruffata matassa della storia, che andrebbe preso per dipanarla mi sembra la sostanza dell'accordo di Oslo del 1993, protagonisti Rabin ed Arafat (con rappresentanti internazionali di attiva garanzia). Si basava su reciproco riconoscimento ed impegno di pace, avvio di un autogoverno palestinese, accordi con concessioni da parte di Israele in materia di territori e di diritti al popolo palestinese. Era un avvio, i problemi erano tutti da affrontare con difficili trattative ma ci si metteva sulla strada giusta. Naturalmente da una parte e dall'altra si manifestarono contrasti da appianare ma il fatto principale che portò al successivo fallimento dell'accordo fu l'uccisione del premier Rabin (1995) per mano di un estremista di destra israeliano. Rabin infatti era cardine di quel processo: egli, anche per il suo passato, dava sicurezza e garanzia alla parte israeliana e per la sua determinazione, lealtà, consapevolezza dei loro problemi era affidabile per i palestinesi. Dopo la sua morte quella prospettiva man mano si chiuse, si dissolse nella marea di altre vicende interne e mondiali. In Israele si affermò una politica di arroccamento e di arroganza: si ripresero comportamenti di colonizzazioni grandi e piccole con espulsioni, sfratti, ghettizzazioni verso i palestinesi. Si teorizzò il superamento dello status di Gerusalemme a favore unilaterale di Israele su basi nazionalistiche e religiose. In campo arabo prendevano piede filoni di estremismo religioso con venature di terrorismo mentre si indeboliva il tradizionale pensiero laico prevalente nel popolo palestinese. Man mano, nella frustrazione, nelle delusioni, nelle sconfitte diventarono egemoni tendenze estremiste, integraliste e velleitarie. Due derive che si sono alimentate reciprocamente sino a toccare i punti attuali. Anche adesso la superiorità militare, tecnologica, economica dello Stato di Israele permette ritorsioni e sanguinose vittorie sul campo. Ma con quali prospettive? A me pare prospettive fosche per quei territori e non solo. Pur se in condizioni ben diverse e molto più difficili, la strada che fu aperta ad Oslo e poi abbandonata andrebbe ripresa.
Giuseppe Azzoni