Si sono svolti negli scorsi 3 e 4 luglio a Roma con dibattito a distanza i lavori della più volte preannunciata Conferenza Programmatica del PSI. Che già dal preannuncio aveva manifestato il serio proposito di porre concretamente una prima pietra al rilancio di una significativa presenza nel contesto politico-istituzionale ascrivibile al pensiero ed alla testimonianza del socialismo liberale.
Rinviamo l'interesse dei lettori a saperne di più andando al sito del PSI, che fornisce un dettagliato resoconto del meeting e degli interventi.
Qui noi ci limitiamo a riportare integralmente la parte conclusiva della relazione di Mauro Del Bue, dedicata alla delineazione della forma movimento che dovrà farsi carico della concretizzazione del progetto.
I principi di un moderno socialismo liberale
Torneranno di moda le identità? Verranno superati i partiti personali, quelli che presentano un uomo solo al comando o quelli che non si rifanno ad alcuna storia o a storie concorrenti in tutta Europa? Oggi sia Carlo Calenda che Mario Draghi si definiscono socialisti liberali, mentre il Pd appartiene alla famiglia del socialismo europeo e le formazioni collocate alla sua sinistra rilanciano una prospettiva legata al socialismo. Eppure, in Italia, tranne il nostro, non c'è un partito che si definisce socialista. Perché? Perché, come disse D'Alema nel 1993, “il termine socialista é divenuto impronunciabile”? Forse per molti lo è ancora. La falsa rivoluzione giudiziaria ha provocato il ribaltamento delle ragioni e dei torti del 1989 e il muro di Berlino é caduto così dalla parte sbagliata. Oggi permane il cosiddetto nuovo fattore S nella politica italiana, che significa demonizzazione o almeno rimozione della nostra storia. Dunque la questione del nome per noi diventa pregiudiziale, perché significa il mantenimento o il superamento di questa pregiudiziale. Si può ben dire oggi, ribaltando il vecchio detto latino, che “res sunt consequentia nomina”. E cioè che i nomi diventano conseguenza delle scelte politiche. Ma veniamo all'aggettivo. Liberale è la definizione del socialismo rosselliano, il primo in Italia che, col famoso scritto “Il socialismo liberale”, edito a Parigi nel 1930, individuava già in Marx, lo aveva già fatto Bernstein, le premesse per l'evoluzione autoritaria del socialismo. Rosselli portò nella teoria intuizioni, mai rivelate, ma pur tuttavia esistenti, del riformismo turatiano meno propenso a un distacco dai sacri testi ma spesso orientato a giustificare le sue tendenze democratiche riferendosi all'elaborazione dell'ultimo Hengels. Il socialismo liberale di Rosselli era tutt'altro che moderato, anzi nella guerra al nazifascismo sposò allora le scelte più estreme col movimento Giustizia e libertà e per questo ne rimase vittima. E non va confuso col liberalismo elitario a cavallo dei due secoli né coi partiti liberali europei del dopoguerra. Era la certificata sintesi di Saragat del 1946 e di Nenni a seguito dell'invasione dell'Ungheria, dieci anni dopo, e cioè che non vi può essere socialismo senza libertà. E che il socialismo o contiene in sé il germe liberale o é destinato a sconfinare nel dispotismo. Queste idee, in ben altro contesto, il vecchio Psi ebbe il coraggio di rilanciare negli anni ottanta, con la politica del Lib-Lab assumendo la tesi secondo la quale non esisteva differenza insormontabile tra un liberalismo a sfondo sociale e un socialismo con cultura liberale. Il revisionismo socialista, quello riformista nella pratica e quello liberale nella teoria, è in fondo l'unico che salva dal fallimento e dalle tragedie una nobile identità spesso deturpata. Oggi tutto questo é ancora attuale? Oggi che siamo di fronte a una globalizzazione che se pur ha attenuato le differenze storiche tra aree geografiche del pianeta, le ha accentuate nei paesi europei e occidentali, dove i ricchi sono diventati più ricchi e i poveri più poveri? Dove il lavoro sfugge e viene sostituito da nuove tecnologie e dove i giovani si trovano di fronte a un futuro di ombre e di incertezze? Oggi che il welfare tradizionale è supportato da ingenti indebitamenti e i vincoli europei, solo sospesi di fronte alla pandemia, appaiono sempre più gabbie insopportabili? Penso che la risposta a tutto questo non possa essere un ritorno al passato. Una riscoperta di fallaci dogmatismi in salsa marxista o addirittura leninista, una politica di nazionalizzazioni, il trionfo del pubblico sul privato. Il tema di fondo resta, soprattutto per l'Italia, quello di favorire la crescita, praticamente bloccata da quasi trent'anni a causa di una classe dirigente incapace di far valere nel contesto europeo le proprie ragioni e di insistere con una politica di investimenti bloccata da assurdi patti di stabilità, ma anche dal potere di una burocrazia e di una magistratura soverchianti, nonché da una sostanziale incapacità di tagliare la spesa improduttiva, ma solo i commissari ad essa preposti. Certo non una crescita qualsiasi, ma uno sviluppo nuovo, basato soprattutto sulla green economy e sull'espansione dell'occupazione. Il Psi facendo propria la duplice eresia riformista e liberale intende mettere in discussione le forme facendo uso soltanto dell'interesse dei cittadini. Alitalia è pubblica, ma è un pozzo di San Patrizio per lo stato. La Fiat è privata ma non lo è stata di meno per sovvenzioni statali e rottamazioni largamente a carico statale. Non può esistere un pubblico sempre meglio del privato e viceversa. Le privatizzazioni degli anni novanta sono state spesso un regalo a gruppi di potere che controllavano altre imprese e anche importanti fette di informazione. Le privatizzazioni telefoniche hanno invece consentito all'utente un risparmio notevole per la legge della concorrenza. Le multiutility che gestiscono con maggioranze azionarie pubbliche acqua, luce, gas, sono sempre la migliore risposta in un regime di monopolio nel quale agiscono? È interesse dei cittadini che si eviti la concorrenza che potrebbe abbassare i costi delle bollette? Questo riguarda in genere anche tutto il sistema dei servizi. Quello che importa non é più la forma, pubblica o privata, ma la qualità e il costo. Come nella sanità nelle convenzioni coi privati le prestazioni non possono derogare dalla spesa media nella sanità pubblica, questo deve valere per qualsiasi altro servizio. Allo stato e alle sue istituzioni resti il governo, cioè la dimensione degli orientamenti generali e delle regole, anche quando i servizi sono gestiti dai privati. E questo timone deve essere ben diretto, con coerenza e senza tentennamenti. L'intreccio tra pubblico e privato é l'unica risposta concreta ed efficace alla crisi finanziaria dello stato, che non sarà a costo zero a seguito della pandemia. In Italia si è ormai superato il 160% del Pil, più o meno la stessa cifra che si contava nel 1922 alla vigilia della marcia su Roma. Chi pagherà questo gigantesco debito, se non riusciremo a rimettere in moto lo sviluppo? Chi ci permetterà di mantenere gli attuali livelli dei servizi e di superare quel gap negativo che già prima della pandemia segnalava l'Italia come la Cenerentola dell'Europa tutta? In un'economia di mercato il socialismo perde la sua vecchia e obsoleta natura statalista e acquista la funzione di soggetto regolatore, che non si rassegna ad accettare i meccanismi insiti nel mercato, ma li modula e li orienta a vantaggio della comunità. Cosa mai era la pianificazione che era stata messa alla base della partecipazione del Psi al governo nei primi anni sessanta, e cos'altro era quell'alleanza tra meriti e bisogni di cui parlò la conferenza di Rimini del 1982? Povertà, peraltro, che rispetto agli anni ottanta, che noi definimmo nuove, sono tornate quelli di un tempo. La nuova povertà é tornata vecchia, insomma. Il problema è che non si possono affrontare vecchi problemi con vecchie ricette. Peraltro abbondantemente fallite. Il superamento del mercato ha generato un sistema nazionalizzato che ha prodotto povertà oltre che assolutismo, un mercato senza vincoli genera oggi palesi, inaccettabili ingiustizie e insopportabili disuguaglianze. Solo una ricetta ispirata ai principi del socialismo liberale, che non mortifica, ma sollecita l'iniziativa privata, accentua i meriti di una necessaria nuova creatività degli individui, assegna regole per limare le differenze, si fa carico dei più deboli anche a spese dei più forti, assicura oggi un avvenire di fiducia alle nuove generazioni. Vedremo se e come contribuire a organizzare un'area liberalsocialista. La luce dopo il grande buio si può riaccendere solo con un ritorno in campo della grande politica e in essa di un forte soggetto ispirato ai nobili principi del socialismo liberale che anche nel duemila appare quello più attuale per interpretare la realtà e rispondere ai nuovi grandi problemi dell'umanità.
Condivido da tempo l'ansia e il disegno di riammettere nell'agibilità politica e istituzionale la sezione italiana del PSE. Già il fatto di condividere tale condizione col PD costituisce controindicazione se non zavorra. Vale a dire la configurazione dei perni dottrinari su cui dovrebbe fondare il rilancio del socialismo liberale. In Italia è in Occidente. Lo dico spassionatamente. Se è vero che "ogni marcia comincia con un primo passo", confido poco sulla valenza di un primo passo costituito da generose ma irrilevanti (per gli equilibri e per la gittata comunicativa), destinate a raccogliere l'1%. Se va bene si acquisisce un eletto. Ritengo più importante lo sforzo di far convergere in un unico aggregato progettuale le presenze diversamente associative sul territorio. Almeno per un interpello, sul terreno della verifica preliminare dell'intenzionalità della convergenza e della sostenibilità della reductio ad unum delle sparse fronde socialiste. Molte delle quali non hanno disertato, vorrebbero aggregarsi, ma pretendono di griffare di sé l'armonizzazione e la convergenza. Non c'è verso, se non entra in campo un prevalent partner. Munito, lo dico subito per evitare fraintendimenti, del mandato di proposta e del ruolo tecnico di raccordo. Facilitati dagli scampoli di visibilità e di sopravvivenza di minimale intelaiatura organizzativa. Ad nauseam ribadisco: il vertice nazionale attivi uno strumento coesivo ed identitario, una regia (in regime di pari dignità) composta dalle più autorevoli presenze territoriali ed editoriali. Provo a far nomi? Ok. Oltre che PSI, Avanti on line, Avanti Milano, Circolo Rosselli. Ma come si fa a fare del socialismo rosselliano un perno teorico, se non associ nell'impresa Spini e quanto gli sta dietro? Tra le fonti segnalo le Fondazioni (Turati, Kulisciof, Nenni, Brodolini e, aggiungo, Olivetti). E come personalità individuali c'è solo l'imbarazzo di una lunga e prestigiosa elencazione. La remuntada ha bisogno di una sostenibile resilienza teorica e dottrinaria. In una prospettiva molto ambiziosa. A valere, come più volte premesso, almeno in un'ottica europea. Un primo passo della lunga marcia potrebbe essere definito in una sinergia di vicinato fuori dagli schemi dei confini amministrativi. Ad esempio, un incontro delle bandierine socialiste sopravvissute nel bacino Padano (Mantova, Cremona, Reggio, Piacenza, Parma). Di più non dico. (e.v.)
P.S.: Invito i compagni socialisti a far pervenire le loro riflessioni