Ha voglia con il pensiero liquido e la politica leggera! Che, impossessandosi dei recenti scenari, hanno relativizzato (e, soprattutto, banalizzato) tutto. Liquidità e leggerezza, per quanto scaturiti in una universale e, ahinoi, irreversibile assuefazione, devono porsi dei limiti.
Vabbé la questione della mestierizzazione dell'esercizio della politica come direzione e rappresentanza dei nuovi movimenti e dei ruoli istituzionali. Ma quando, da caso singolare la tendenza diventa sistemica, allora si inoculano nel tessuto del servizio civile germi non esattamente fecondi.
Il leaderismo, cucito sui profili di verticemolto simili alle nomenclature, inclina, ad un certo punto, a diventare volano per un'autoreferenzialità, poco congrua alla rappresentanza del mandato in cui si identifica la comunità, per un'autosufficienza gestionale, che annulla anche gli ambiti residuali di correzioni suggerite dall'autotutela, per una dinamica di “scambio” che quasi sempre mortifica la democrazia ed inocula i virus del conformismo.
Deriva questa che, da un lato, introduce tossine nella politica e devianze in quell'architrave della vita pubblica, bene o male orientata dal bilanciamento tra potere e controllo.
Tale è, come abbiamo sommariamente analizzato, il profilo prevalente del sistema che è andato consolidandosi attraverso un uso inappropriato delle prerogative in capo al nuovo corso del cosiddetto maggioritario.
Non significa assolutamente che prevalente significhi universale. Perché, vivaddio, esistono ancora a macchia di leopardo testimonianze ispirate da cardini virtuosi; specie là dove la funzione elettiva viene esercitata come servizio. Ma su un impulso un po' generalizzato, a prescindere dai campi più o meno contrapposti, potremmo anche giurare. In un format intossicato come quello descritto non ci sono spazi per mediazioni su visioni e capisaldi condivisi. Ogni tema diventa una partita per la vita; perché la preservazione del modulo è sempre una partita per la tenuta del ruolo e delle prerogative che si sono cuciti addosso. Si lascia l'incarico di vertice (che, tra l'altro, consente, ma spese dei cittadini, di trovare un'occupazione generalmente ben retribuita o, se già se ne dispone, di elevare il rango sociale di partenza) solo per ricoprirne un altro di livello superiore (prospettiva che generalmente orienta o forse ipnotizza tutte le azioni di coloro “che si sacrificano per i cittadini”).
Che non ci sia spazio per meccanismi di turn over (nel senso che, finito il mandato, torna il leopardiano lavoro usato) c'è solo da giurarci. Insomma, questa che un tempo Pannella chiamava “partitocrazia” e che negli scenari attuali lo è pur senza i partiti (rimodulati in ristrette oligarchie), ha chiuso, per prima cosa, le tube alle mamme dei Cincinnato.
Ci sarebbe da sviluppare un secondo filone propedeutico all'analisi delle tendenze insite nel voto di domenica scorsa.
Si tratta di una rivisitazione aggiuntiva rispetto a quanto abbiamo sin qui considerato, in materia di peculiarità del sin troppo lodato metodo elettorale “del sindaco” (che si vorrebbe elevare a metodo universalizzato).
Quelle mediazioni, correttive di risultati non netti, che nella prima Repubblica avvenivano nei consessi, scattano, nei nuovi contesti, già in sede di pole position delle candidature. Ecco spiegarsi le ragioni per cui la candidatura per eccellenza incorpori ab origine una griglia articolata di sottomarche, congegnate allo scopo di garantire la copertura sinergica della rappresentanza delle istanze più frammentate.
E più la mappa è articolata ed estesa e più evidente è l'intenzione di vincere al primo turno. In subordine di partecipare al secondo ben posizionati.
Ma, quando, come nel caso della (ri)candidatura del sindaco uscente di Crema, la strategia appena analizzata è minuziosa, in senso inclusivo ma anche esclusivo, allora le cose si complicano fortemente per il repêchage che costituisce la mission del ballottaggio.
Il profilo della ricandidatura del campo del centro-sinistra era chiaramente compreso in una forcella talmente ristretta da non comprendere varianti in corso d'opera: autoreferenzialità del programma ed autosufficienza della “raccolta” dei voti.
Su ciò non vi può essere dubbio alcuno. In quanto quel ring, fissato cinque anni fa che comprendeva tanto la golden share prerogativa del socio fondatore del centro-sinistra quanto le micronizzate istanze radicali di sinistra (che sulla politica nazionale si identifica nell'imperativo “Mai con una sinistra che ruoti attorno al partito di Renzi”), è sopravvissuto, nonostante balcanizzazione del campo, a se stesso.
Per idealismo? Per insopprimibile sollecitudine a ricercare una maggiore coesione della sinistra? Per non interrompere la performante età aurea della sindacatura Bonaldi? Per spirito di sopravvivenza nel ruolo di comando?
Sia quel che sia l'offerta elettorale del centro-sinistra è stata, come anticipato, percepita come opzione a scatola chiusa. O la voti (maggioritariamente, come ha sempre preteso la Bonaldi) o non sei dei nostri.
In ciò è facilmente ravvisabile una tendenza allo zero per eventuali sviluppi di armonizzazione e convergenze in sede di ballottaggio.
Se fosse andata come negli auspici/certezze del binomio Bonaldi/Piloni, ci troveremmo oggi di fronte ad un volto sgradevole ancorché legittimo di centro-sinistra cingolato; ma ogni residua questione sarebbe archiviata.
Il problema è che, invece, le urne hanno riservato una grossa delusione per un aggregato di intelligenze e di risorse, che è restato con un colossale cerino acceso in mano.
Dopo aver, in sede di predisposizione della griglia, esercitato la pesca a strascico di tutti anche minimali ambiti di caratterizzazione ascrivibili al progetto della riconferma e dopo aver insolentito qualsiasi altra voce che potesse riservare al futuro qualsiasi pur minimale prospettiva di mediazione, il prosieguo della ricerca del voto sufficiente a restare in sella è azzerato dall'assenza di interlocutori.
Non che ci interessi molto, ma per scrupolo analitico, non intravediamo possibilità di travaso di voti dai contenitori estromessi dalla final season.
In teoria, ma molto in teoria, perché la civica “cambiare si può” non costituisce versione mutante del campo di centro sinistra, e perché l'interlocutore principale, che avrebbe potuto essere Mimma Ajello (con il composito parterre di contraenti il progetto civico), si rivela sempre più persona seria.
In pratica, come si diceva, le prospettive di una convergenza sul filo di lana (che fosse alla luce del sole e che non fosse dettata da motivazioni maleodoranti) non esistono per assenza di presupposti politici e programmatici.
La lista Ajello si colloca, per autodefinizione, a sinistra. Ma qui non c'è problema che tenga. La schiena dritta che ne sorregge l'ispirazione etica e la dorsale progettuale è incompatibile con il formato Bonaldi/Piloni. Con le tracce lasciate nel quinquennio appena concluso e con i programmi futuri.
Il problema non è, come si inalbererebbe il compagno Peppone, “io dico cappelletti e voi capite tortellini!”
Il centro-sinistra ed Ajello (ed i socialisti) hanno parlato due linguaggi diversi e non compatibili. Diversamente, avrebbero affrontato una fase, come si diceva poco fa, di armonizzazione e convergenza in vista di un percorso elettorale comune.
Per il pochissimo che conta, gli ambienti socialisti cremaschi e provinciali, avevano, da tempi non sospetti, suggerito un percorso che prevedesse un tavolo progettuale e primarie di coalizione. L'ipotesi di lavoro non ha avuto neanche una risposta.
Il cerino, che generosamente Bonaldi/Piloni cercano di passare ai potenziali sherpa portatori dell'obbligo “di non far vincere Zucchi” resta in mani competenti. Né appare corretta la costruzione di alibi a futura memoria.
Ma di ciò parleremo nel prosieguo; quando saranno più esplicite le tattiche dell'ultimo scorcio della campagna elettorale.