Neanche qualche giorno messo di mezzo dalla recensione dell'intervista di Cervetti (alt ai rubli di Mosca), in cui mettevamo a fuoco le “complicità” miglioriste in casa PCI e negli scenari successivi del post-comunismo italiano e ci troviamo alle prese con la profonda sincera commozione e con il dovere di una riflessione, suscettibili di andare oltre le tracce lasciate dall'importante statista che ci ha lasciato un giorno fa.
Non abbiamo mai avuto il privilegio di vederlo da vicino, neanche ai tempi della prima repubblica; ma abbiamo sempre avvertito una forte empatia, per il suo tratto personale e per il profilo distintivo marcato nella lunga testimonianza ai vertici del PCI. E per il tratto di eminenti dirigenti ai tempi del vecchio PCI, non a caso definito, per sottolineare, in contrasto col monolitismo di facciata, un'articolazione carsica di pensiero e di prospettive, un ircocervo. Li chiamavamo, noi socialisti, “amendoliani”; una definizione che collideva con la pratica del “centralismo democratico” (che non ammetteva correnti di pensiero e di organizzazione del dissenso). Si trattava di un'aggregazione di profonde, ragionate affinità, veicolate nelle ristrettezze delle prerogative della vita interna del PCI.
Mentre la definizione Miglioristi, dispregiativa fu coniata da Ingrao, allevato a pane e Littoriali, prima di approdare alla “ditta” ed essere metabolizzato nei piani alti della “nomenklatura” in occasione del Congresso del gennaio 1957. In cui suggellata ai vertici del PCI la nuova leva dei giovani fedeli togliattiani emersi nel pronunciamento di fedeltà al Mosca nell'invasione dell'Ungheria.
Ripetiamo, noi continuiamo a chiamarli riformisti del PCI come Amendola, Macaluso Di Vittorio. Il fato non ha voluto che fossimo un solo movimento liblab. Ma per la sinistra la strada dovrà essere quella.
Scrive oggi Cazzullo su Corsera
Più che un comunista era un liberale scelse il PCI per il fascino di Giorgio Amendola, anche lui figlio di liberale. Incarna la destra del PCI senza essere antisovietico (come Amendola). La loro posizione era portare il PCI su posizioni riformiste senza perdere l'appoggio della base affascinata dal sovietico.”
Al punto, come sottolinea l'ex ministro ed ex socialista Sacconi sul medesimo quotidiano, “non aveva fatto nel ‘56 la scelta dissociativa di Antonio Giolitti (che aveva sbattuto la porta del PCI insieme a molti altri intellettuali ed era passato al socialismo italiano) ma addirittura insieme a promettenti di spicco era entrato nella nuova leva che incarnava il lineamento di assoluta fedeltà sovietica.
Al netto di questa riflessione, che non vuole essere una recriminazione postuma ma che anzi vuole esternare il rimpianto per la mancata armonizzazione/convergenza delle migliori energie ideali e programmatiche di quella che è stata potenzialmente la sinistra lib-lab, liberale e laburista, rimasta, ahinoi, inespressa.
Napolitano lascia due eredità. La prima derivante, come sottolinea Cervetti, dal profilo precipuo di essere stato significativamente un uomo dedito alle istituzioni.
La seconda, non offuscata dalla prima ma rintracciabile nel profilo “militante”, rimasto, ripetiamo, inespresso sul lato pratico. È questa eredità che non dovrà ancora una volta essere smarrita. Perché la sinistra italiana, che sta toccando il fondo, non se lo può permettere. Restiamo convinto che la politica racchiuda in sé molta durezza, necessità, amoralità, molte expediency... ma non potrà mai spogliarsi del tutto della sua componente ideale e spirituale, rinnegare completamente la parte etica e umanamente rispettabile della sua natura.
Sulla figura del defunto Presidente, la cui scomparsa sta giustamente suscitando commozione e senso di perdita, abbiamo chiesto un contributo di ricorso a Luciano Pizzetti, dirigente politico di livello del nostro territorio e della scena nazionale.
In Parlamento dal 2008 al 2022, Pizzetti e stato anche sottosegretario di Stato alle riforme costituzionali e ai rapporti con il Parlamento del governo Renzi dal 2014 al 2016 e poi ancora sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio nel Governo di Paolo Gentiloni dal 2016 al 2018.
L'ho votato entrambe le volte. La prima come delegato regionale, la seconda come parlamentare. L'ho incontrato varie volte nel partito e poi ufficialmente come Presidente al Quirinale. Ma non ho giurato in sua presenza perche solo il presidente del Consiglio e i ministri giurano al Quirinale. I viceministri e i sottosegretari giurano a Palazzo Chigi.
Napolitano —spiega Pizzetti —e stato una figura di primo piano.
Un politico-intellettuale curioso e attento alle cose. Da ragazzo io non sono mai stato un migliorista, ero più a sinistra. Ma da adulto ho capito e apprezzato la sua lungimiranza nel capire per primo i processi che stavano avvenendo: l'Europa, le politiche di Difesa, gli stretti rapporti con il mondo lavoro. Su questo lui era un laburista più che un socialdemocratico.
E' stato un antesignano anche nel predeterminare i cambiamenti avvenuti nel Pci: è stato sempre un passo avanti. Ho due splendidi ricordi con lui. Il primo, del 2005, quando venne a Milano e andammo a
cena in un ristorante, parlando a lungo, Mi colpiva la sua curiosità: voleva sapere ogni cosa e con lui non potevi raccontargli lucciole per lanterne. Eri sempre sotto un accurato esame.
Non e un caso se lui e diventato Ministro dell'Interno e Presidente della Repubblica. È stato anche un riconoscimento dell'evoluzione politica che lui ha rappresentato. L'altro ricordo è il discorso per il suo secondo insediamento, una reprimenda che ho ascoltato ad occhi bassi. In pratica si rivolse al Parlamento per dire: questo Paese ha bisogno di riforme e voi non siete nemmeno in grado di individuare il mio successore. Io resto, ma voi fate le riforme. Ma il suo appello è rimasto inascoltato. Fu stato osannato, ma non ascoltato. È stato, è vero. un presidente interventista, ma in quel momento serviva cosi. A testimonianza poi del fatto che le scelte di Napolitano non erano colpi di testa, ma frutto di processi lungamente maturati.