Con questo primo articolo apriamo una riflessione, a contributo plurimo (come è facile evincere) sulla correlazione tra, appunto, “i capricci della natura” (che non manda mai dal cielo ciò che gli umani pretendono) e le conseguenze delle posture fatalistiche. Che, tutt'al più, spingono a lamentarsi di Giove Pluvio sia quando latita sia quando “gli scappa la mano”.
A dire il vero, mentre stiamo impaginando questo focus, ci troviamo “in mezzo al guado” di una transizione tra ciclo “africano” (dalle conseguenze siccitose) e ciclo “Atlantico”, contraddistinto da piogge suscettibili di porre rimedio ai guai lamentati (, talvolta, ben oltre). Di cui ci si dimenticherà, fintanto che non tornerà la siccità.
Ecco, vorremmo qui fornire due riflessioni “strutturate” di una problematica che esige metabolizzazioni impegnate e, soprattutto, elaborazioni strategiche.
Da tale punto, e qui finiamo l'introduzione per riprenderne il senso nelle conclusioni, non si ha, nonostante la caratura dell'argomento, l'impressione che venga affrontata con la necessaria sollecitudine e, soprattutto, con una visione larga. Come si premetteva, si continua a lamentarsi delle precipitazioni avare (almeno un tempo, ci si affidava, specie in questa stagione, alle propiziatorie “rogazioni”), salvo, in presenza dell'inversioni del ciclo meteo, lamentarsi del contrario.
L'apporto idrico, tanto prezioso per la vocazione elettiva del nostro territorio, viene, in aggiunta alla fondamentale azione dei presidî irrigui, affidato, con garanzie sempre più residuali, agli auspici, come abbiamo azzardato, ed all'esito dei contenziosi tra chi sta a monte e chi sta a valle dei bacini, lacuali e fluviali.
Pubblichiamo di seguito i contributi di Dario Balotta e di Giuseppe Azzoni.
SICCITA' DEL PO
PROSCIUGATO DAI CAMBIAMENTI CLIMATICI E DAL FEDERALISMO
Dopo un inverno di siccità, a primavera iniziata, la pioggia sul nord Italia e quindi sul Po non è ancora arrivata. La siccità che sta colpendo tutta la Pianura Padana. Quest'inverno le precipitazioni sono state appena meno della metà di quella che cade normalmente. Il più grande fiume d'Italia è di nuovo in secca come oramai gli accade quasi ogni anno. Con una aggravante, di solito è nei mesi estivi che si verifica questo fenomeno. In molte località la portata è ridotta a meno di un terzo e l'acqua ed il fiume diventa una distesa di dune, facilitando le escavazioni abusive di sabbia, fenomeno mai contrastato seriamente che contribuisce a ferire il più lungo corso d'acqua italiano. Se il Po è ai minimi storici (per una volta), su Alpi e Appennini non c'è più neve e nei grandi laghi alpini scarseggia l'acqua da tempo l'acqua. La situazione è molto critica per l'agricoltura e per l'ambiente e siamo solo in marzo. Torna la grande paura della siccità del 2019, che causò ingenti perdite all'agricoltura e nuovi danni irreparabili per gli ecosistemi e l'ambiente di tutto il suo bacino idrografico. Una paura che è ormai ricorrente negli ultimi vent'anni, causata dalla crisi climatica e della pessima gestione idraulica del corso d'acqua. A questo proposito c'è da chiedersi perché manutenzione, riduzione delle estrazioni di sabbia (anche abusive) ed interventi Il 2022, è il settimo anno di secca per il Po nell'arco di appena due decenni. Il Nord della penisola, in effetti, è una delle aree del continente europeo dove gli effetti dei cambiamenti climatici sono più visibili. Dal 1970 a oggi, le temperature medie annue nella Pianura Padana sono aumentate di 2°C. E negli ultimi trent'anni le piogge annuali sono diminuite in media del 20%, e quasi del 50% durante primavera ed estate. A piogge scarse e temperature più alte la siccità diventa sistematica. Quest'inverno la pioggia caduta in pianura è stata la metà di quella attesa. Le nevi, che dovrebbero fare da riserva per la stagione estiva mancano e con l'arrivo dell'estate senza abbondanti precipitazioni la situazione in pianura non potrà che peggiorare.
Dario Balotta Europa Verde Milano aprile 2022
Bacinizzazione del Po
Immagine della secca del Po in prima pagina de “La Provincia” del 26 maggio, oltre a “stringere il cuore” non può non indurre chi governa questa problematica a tornare, magari con necessari ripensamenti, sul tema dei rimedi per la crisi idrica. È banale ma importante convincersi (i tecnici idraulici già da tempo lo dicono) che il fiume in secca non è più un “evento” estemporaneo e passeggero ma incombe come andamento ricorrente sul futuro delle acque dolci superficiali e di falda. Appaiono destinati a durare il restringersi di ghiacciai e nevai e le negative novità per pioggia e neve. Apprendiamo, anche dalla stampa, che le Istituzioni preposte al bacino del Po ed i soggetti comunque coinvolti se ne stanno occupando per molti aspetti: dalle “casse di compensazione” per moderare le piene con nuovi invasi che poi restituiranno l'acqua, al sacrosanto risparmio idrico, alla misura del “deflusso minimo vitale” dai laghi, all'impedire la risalita salina adriatica, ai fondali utili per la navigazione e persino per la solidità di certi ponti, alla produzione di energia rinnovabile. La finalità della navigazione oggi è solo una delle tante, neanche la prima.
Essendomi a lungo occupato, anche se in tempi ormai lontani, della tematica del fiume per responsabilità politiche istituzionali (oltre che per passione di buon nativo casalasco) vorrei far riaffiorare una questione notevole, che mi pare sia data ingiustamente per scontata come inutile e superata.
È il tema della bacinizzazione del Po.
Esso vide progetti a metà del secolo scorso addirittura già avviati in sedi ministeriali ma poi accantonati sia per problemi finanziari sia perché finalizzati alla navigazione merci mentre i trasporti andavano decisamente al tutto gomma. Quei progetti, il mitico “piano SIMPO”, avevano effettivamente anche controindicazioni ecologiche che emergeranno in tempi successivi. La discussione in merito si trascinerà senza costrutto nei successivi decenni. Oggi però mi sembra sarebbe d'obbligo riprenderla, in modo aggiornato e pragmatico, nelle sedi competenti.
Una gestione della presenza di acqua nel fiume sostenuta con alcuni sbarramenti di nuova, aggiornata, ambientalistica concezione non dovrebbe essere scartata per partito preso. Mi sembra invece che torni con prepotenza di attualità per affiancare altri tipi di azione che si stanno predisponendo per una adeguata e permanente disponibilità dell'acqua nel fiume. Mi avevano convinto a suo tempo certe visite guidate su fiumi bacinizzati europei. Ma anche qui da noi, se osserviamo il fiume a monte e a valle di Isola Serafini il rapporto “costi benefici” appare assai buono per molti aspetti, anche dal punto di vista ambientale.
Giuseppe Azzoni (Cremona)
Ben lungi da noi l'idea (la presunzione) che un tema così impegnativo possa essere disinvoltamente liquidato con proposte spicce.
Detto rispettosamente questo, e nella consapevolezza di un ventaglio molto ampio di analisi e di ipotesi, le riflessioni dei nostri due interlocutori mettono in campo argomenti solidi (a cominciare dal nesso di causalità tra cambiamenti climatici e ricadute sulle condizioni esistenziali e sulle attività antropiche).
Uscire dall'inerzia (tipico tratto sia della comunità che della classe dirigente) ed avviare una nuova stagione di testimonianza che abbia come obiettivo la definizione di un progetto che assomigli molto alle caratteristiche degli impulsi fecondi e dei programmi concreti che negli anni 30 portarono al New Deal della Tennesse Valley Autority.
Progetto, dotato di visuali molto vaste e lungimiranti, anche se incardinato dall'urgenza di riqualificare, nel quadro fosco della crisi del 1929, una valle paradigmatica della condizione degli USA in quella temperie.
Diciamo (noi babyboomers) affascinati dai lunghi sguardi di certe riforme (ancorché progettate dagli establishments “capitalisti”) che, nel corso delle sette decadi della Repubblica, quella “resilienza” imperniata sui grandi lavori infrastrutturali fu attenzionata almeno da qualche lodevole tentativo di proposta. Anche a livello di riforma legislativa. Nel piano nazionale dei trasporti nella seconda metà degli anni 80 del secolo scorso vi fu qualcosa di più di un cenno. Portato a sintesi nel progetto relativo alla navigazione interna, che aveva come presupposto, oltre che la realizzazione delle infrastrutture, anche la regimazione dei maggiori corsi fluviali.
In quel dibattito ebbe un ruolo notevole l'intraprendenza (favorita dal pressing del territorio cremonese) della Regione Lombardia nel quadro della sinergia con le altre Regioni padane. La Lombardia, unica Regione, in cui tra l'altro operava ancora il tentativo del Canale Milano-Cremona-Po-Adriatico (poi colpevolmente archiviato dalle politiche di asfaltatura degli Enti “inutili”), costituì l'Azienda dei Porti Interni di Cremona (con una struttura in parte già realizzato a quell'epoca) e di Mantova (progettata, realizzata e, come si vedrà tra poco, attivata con le recenti, innegabili ricadute).
Il presupposto di un progetto di così vasta portata risiedeva in una precondizione: la regimazione/bacinizzazione del fiume, in un ventaglio tecnico diversificato, ma scaturente dalla necessità di “imbrigliarlo” e di non disperderne improduttivamente la consistenza.
È quanto, sia pure sinteticamente, sostiene Giuseppe Azzoni (al quale ci accomuna, tra l'altro, un'importante esperienza amministrativa e politica nel settore).
Ci siamo trovati spontaneamente a riflettere insieme di fronte alla notizia divulgata dal Corsera concernente l'attivazione nel contesto del comprensorio del Porto mantovano di Valdaro di un hub logistico (ambientalmente avanzato e garantito) “a poca distanza da ferrovia, casello autostradale della Modena-Brennero e dal porto sul Canal Bianco”. In cui “potranno venire lavorati fino a 375 mila pacchi al giorno, che verranno spostati lungo 20 chilometri di nastri trasportatori e per mezzo di 675 navette automatiche. Il tetto dell'impianto sarà coperto di pannelli fotovoltaici che produrranno, secondo le stime, l'energia elettrica necessaria per soddisfare i fabbisogni di circa 3 mila famiglie. L'obiettivo è fornire all'hub circa l'80-90% dell'energia necessaria per mezzo del fotovoltaico e la restante parte da soggetti terzi che producono da fonti rinnovabili certificate. Anche le plastiche utilizzate nel polo logistico saranno interamente riciclate e riciclabili.” Il bravo Sindaco della sorella Città di Virgilio (che, negli ultimi anni ci ha soffiato la Camera di Commercio e che si appresta a soffiarci la Dea di II livello), forse inconsapevolmente mette il dito nella (nostra) piaga. Quando lucidamente esterna: “Al nostro arrivo in Comune, nel 2015, l'area di Valdaro, destinata alla logistica era completamente bloccata: non esistevano nemmeno i sottoservizi e i collegamenti elettrici». All'epoca non sarebbe stato possibile alcun tipo di insediamento. Ma lavorando come si deve e con serietà, abbiamo rilanciato il comparto di Valdaro e si stanno insediando diverse realtà produttive che stanno portando a Mantova centinaia di posti di lavoro».
A quel tempo il Sindaco Palazzi, probabilmente impegnato alle Elementari, non ne poteva avere contezza; ma le precondizioni di tutto ciò di cui oggi può gioire erano per quanto auspicate inimmaginabili. Nell'estate del 1987, quando un po' temerariamente il vertice dell'Azienda Regionale e le autorità locali e lombarde “posero la prima pietra" del progettato e costruendo Porto di Valdaro, si era di fronte ad una scommessa. Anche come contesto ambientale: Valdaro allora era un bello scorcio della campagna mantovana. Di passaggio rileveremo che su tale indirizzo aveva convenuto il Presidente della Commissione Trasporti del Parlamento Europeo, venuto, su nostro invito a Cremona, nell'estate del 1988.
Talmente diverso dall'attuale scenario che il sottoscritto, giuntovi tre anni fa in occasione di un congresso socialista, temette di aver smarrito percorso. Tale e tante erano le differenze tra le due Valdaro. Quella di adesso è esattamente descritta dal servizio del Corriere della Sera e esternata, con il giusto orgoglio della consapevolezza del ben fare, dal primo Cittadino Palazzi.
Diciamo che se chi scrive fosse follower delle imperversanti teorie del campanilismo/territorialismo, la narrazione sarebbe ben diversa (“rosicona” per le maggiori fortune del cugino mantovano.
Che questo approdo, in termini di realizzazione delle aspettative lungimiranti, fosse non solo non “gufato” ma addirittura auspicato dal ceto dirigente del nostro territorio costituisce materia di certezze rispetto alle visioni progettuali che, fino ad un certo punto (diciamo, alla fine della Prima Repubblica), avevano visto in posizione molto sinergica Cremona, Mantova, la Regione Lombardia e le Regioni Padane.
Indubbiamente Mantova ha tagliato il traguardo (il picco anche simbolico è rappresentato dall'insediamento a Valdaro dell'hub logistico Adidas, che non farà certamente starnazzare il radical-ambientalisti) per il concorso di due circostanze. Subito diciamo della prima: le istituzioni non hanno dormito all'umido e hanno perseguito con sapienza e tenacia il progetto dello sviluppo plurimodale.
Della seconda devono essere grate ad una serie di benefiche preesistenze: 1) l'idrovia Fissero-Tartaro-Canalbianco (praticabile, diversamente dal Po, 365 giorni all'anno) e la possibilità di collegamento al Po e al Mincio attraverso la conca di San Leone e all'idrovia Po-Brondolo in prossimità di Volta Grimana verso la laguna veneta; 2) il “fascio ferroviario” di convergenza con le ferrovie Mantova - Monselice, la Verona - Modena, la Padova-Bologna e la Bologna - Verona, nonché l'aeroporto Valerio Catullo di Verona; 3) il formidabile asset dell'infrastruttura stradale (la ex SS 482 e la SP 28 che permette il collegamento al casello di Mantova nord dell'Autostrada A22 del Brennero ed alle direttrici di traffico italiane ed europee tramite l'autostrada A22.
Si comprende adesso il senso del giustamente euforico titolo giornalistico di qualche giorno addietro: “Con la conca di Valdaro la città ora «vede» il mare”?
Il confronto con la nostra situazione appare, dato il rilevante gap, ingeneroso.
Nel luglio del 1987, quando l'azienda Regionale dei Porti Interni posò la prima pietra di Valdaro, avevamo in testa esattamente questi sviluppi. Di cui l'annuncio del Corriere è solo un tassello. Un progetto che tendeva alla plurimodalità trasportistica e logistica. L'altra metà del cielo dell'asse Padano, Cremona, era molto più avanti (col porto già realizzato, col canale già prossimo al bacino di viraggio di Tencara e la realizzazione del ponte/canale sull'Adda). Vero che Mantova, come appena considerato, poggia su un più favorevole contesto di incroci viabilistici. Ma pensare che il nostro territorio ci abbia dormito su non è offensivo.
Ci siamo fatti sfilare l'Azienda Regionale dei Porti e il Consorzio per il Canale Navigabile Milano Cremona Po. I cui asset sono stati (colpevolmente) lasciati confluire verso l'Ente (l'Amministrazione Provinciale) più vandalizzato di funzioni di raccordo territoriale e gestionali.
Si ripete con complice acquiescenza e, forse, anche con malcelata condivisione di una new wave di segno masochista (ci hanno scritto: “noi abbiamo un inutile canale navigabile che non raggiungerà mai Milano perché la domanda economica non c'è. Il Po non è navigabile né a Cremona né a Mantova. Infatti le merci che arrivano al porto di Mantova vi giungono via terra e poi prendono la via dell'acqua per andare al mare. Dal porto di Cremona ciò non sarebbe possibile se non irreggimentando il Po”).
Appunto! È la precondizione elettiva, questa. Di cui ci pare poter dire non vi sia minimale consapevolezza (se, almeno da quanto si legge, nel picco della siccità, l'orientamento esternato riguarderebbe non già la bacinizzazione ma correttivi insignificanti).
Per un dovere di completezza accenneremo a due “innovazioni”, annunciate e/o in corso.
La prima riguarda la cosiddetta “alleanza per il fiume più lungo d'Italia” (Tra due Regioni, 34 Comuni, l'Autorità di Bacino Distrettuale del fiume Po, l'AIPo, tre Consorzi di Bonifica e due Società di gestione dell'acqua).
Un'alleanza, che, senza essere disfattisti, ci pare, per quanto volonterosa, non poco generica.
La seconda, per quanto ai primi passi, invece, appare indirizzata ad invertire il percorso nefasto dell'ultimo quarto di secolo in materia di gestione territoriale dei corsi d'acqua e di riordino delle funzioni.
Apprendiamo che sarebbero stati approvati all'unanimità nella V Commissione territorio e infrastrutture di Regione Lombardia quattro emendamenti tecnici, alla Legge di semplificazione 2022, sul sistema idroviario Padano Veneto per riportare l'autorità portuale in capo alle province di Mantova e Cremona.
“Gli emendamenti sono stati richiesti dalle due Province e concertati con gli uffici di Regione Lombardia e i Consiglieri del territorio, tutto firmatari degli emendamenti medesimi. Nello specifico si tratta di:
- attribuzione delle funzioni di autorità demaniale e portuale alle province di Mantova e Cremona all'interno delle aree funzionali allo sviluppo delle attività portuali;
- attribuzione di nuovi ambiti portuali ai porti di Mantova e Cremona alle rispettive province che svolgono funzioni di autorità demaniale;
- procedura per l'approvazione del Piano Regolatore Portuale dei porti di Mantova e Cremona per i rispettivi ambiti;
- esercizio da parte delle Province di Mantova e Cremona di funzioni e attività in materia di gestione del sistema idroviario padano/Veneto che includono aree funzionali allo sviluppo dei due porti, compresi il pontile Pipeline di Viadana, Porto Catena a Mantova e la banchina di Casalmaggiore a Cremona.
Per effetto di questo indirizzo, la governance ora tornerà ufficialmente in capo alla Provincia, com'è naturale che sia per dare piena operatività e ridurre i passaggi burocratici. Attendevamo da tempo questa svolta positiva.
Indubbiamente, si tratta di un preannuncio di cambio di fase. Che, senza l'accorpamento in un'unica entità aziendale regionale, non inciderà molto (soprattutto, sulla realtà cremonese).