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Vajont, sessant'anni dopo: memoria e consapevolezze

  10/10/2023

Di Redazione

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Una esperienza atroce ed angosciante

Mi sembra giusto dare testimonianza di quanto segue in relazione all'anniversario della tragedia del Vajont. Ero militare di leva, la notte tra il 9 e il 10 ottobre 1963 la trascorsi in viaggio nella tradotta militare che mi portava dal CAR addestramento reclute di Miano di Napoli alla Caserma Divisione corazzata "Ariete" di Casarsa della Delizia. Qui sarei poi stato oltre un anno come soldato addetto alla infermeria della caserma (quasi un piccolo ospedale perché i soldati erano diverse migliaia). Arrivammo a Casarsa il 10, alle prime luci di una alba fredda. Subito fummo informati di quanto era accaduto nella non lontana Longarone, giungemmo in una caserma in piena mobilitazione per portare soccorsi e spalare nel fango sui luoghi della disgrazia. Così fu da quel momento e nei giorni successivi. Per quanto mi riguarda non dovetti spalare, ero col personale medico e infermieristico nelle ambulanze che a turno presenziavano in loco ed assistevano chi effettivamente lavorava nel fango. Tra loro c'era un carissimo amico, compagno delle elementari del mio paese di Vicobellignano, Palamede Casetti (purtroppo scomparso qualche anno fa). Fu comunque una esperienza atroce ed angosciante, di quelle che non si dimenticano. L'impegno profuso  da quei militari di Casarsa, Pordenone ed altre caserme fu eccezionale ed è giusto che anche di esso si faccia memoria.

Giuseppe Azzoni
Giuseppe Azzoni

60 anni dal disastro del Vajont

Di Giovanni Crema

9 ottobre 1963, ore 22,39, inizia la “lunga notte del Vajont” con le sue immani distruzioni e la perdita di duemila vite umane compresa quella del Sindaco Socialista Giuseppe Celso, Segretario Provinciale della Federazione Socialista di Belluno, e della sua famiglia: moglie, figlio, padre e madre. A quell'ora, dalle pendici del monte Toc una frana con un fronte di due chilometri per 260 milioni di metri cubi di terra e sassi precipita alla velocità di oltre 100 chilometri l'ora nel bacino del Vajont. È un evento catastrofico perché quella massa devastante provoca l'“onda maledetta”: decine di milioni di cubi d'acqua che dalla quota 700,42 metri dell'invaso rovina sulla valle del Piave e spazza via Longarone ed altri paesi dopo aver infierito su Erto e Casso. La diga a doppia volta alta 140 metri, “firmata” da Carlo Semenza per conto della SADE, vanto dell'ingegneria idraulica nazionale ha tenuto ma non ha evitato la tragedia. E così la valle del Piave diviene un enorme cimitero. Una tragedia annunciata che si sarebbe potuta evitare almeno nella vastità delle proporzioni se si fossero ascoltate le tante voci critiche che si alzavano per denunciare il pericolo. Ed invece prevalse la logica perversa del profitto. E il Vajont è sinonimo di colpa. Non della natura ma dell'uomo, come stabilì un complesso processo penale preteso dai sopravvissuti del bacino ai piedi del Toc, montagna di roccia “malata”. Fu una colpa non aver interrotto i lavori di fronte a segnali inequivocabili: fu una colpa aver omesso tutta una serie di doverosi controlli e non aver garantito corrette indicazioni anche quando la situazione stava ormai precipitando. Colpevole anche lo Stato – lo affermò a chiare lettere il compagno Senatore Luigi Ferroni, membro Psi della Commissione parlamentare d'inchiesta intervenendo al convegno pubblico “Vajont: vent'anni dopo” tenutosi a Longarone l'8 ottobre 1983 – che “si è appoggiato supinamente alle decisioni della Società Adriatica di Elettricità o per lo meno in buona parte, pur se l'ordinamento lo colloca, in astratto, nella posizione di vero dominus della vicenda, discendendo da quella che è chiaramente la concezione demiurgica dello Stato”. È stato calcolato in tre minuti il tempo della tragedia. Dopo la terra e i sassi, dopo l'acqua, il vento, e poi il silenzio della morte su una Longarone rasa al suolo dove si conteranno davvero troppo pochi i superstiti. Al tempo del dolore, della rabbia, delle accuse, subentra quello del “che fare”. La volontà di chi è scampato al Vajont è unanime. Longarone va ricostruita come era e dove era. Al posto del Sindaco Celso, scomparso e che era stato a lungo uno dei denunciatori dell'incombente pericolo, c'era il Vice-sindaco Terenzio Arduini, anch'esso Socialista, che l'aveva sostituito, che dedicò tutte le sue energie alla rinascita della sua terra. È amaro ricordare in un momento così tragico un'insensibilità burocratica. Arduini convocò nei giorni stessi del lutto e delle macerie il Consiglio comunale: erano rimasti in pochi e presero le prime decisioni. Il Prefetto dichiarò nulla la seduta per “mancanza di numero legale”. Il rispetto della legalità formale innanzi tutto! E mentre scatta la solidarietà degli italiani e quella internazionale, si intensificano le operazioni di soccorso, le iniziative per ritornare alla vita, appunto alla ricostruzione materiale e morale di una comunità che ha pagato un prezzo assolutamente ingiustificato al progresso e al profitto, che si rimbocca le maniche, affronta con decisione e coraggio nuovi rischi e sacrifici considerandoli un atto dovuto nei confronti delle vittime che oggi riposano nel cimitero di Fortogna. La legge per la rinascita fu emanata il 28 maggio 1964 e l'allora Ministro dei lavori pubblici il Socialista Giovanni Pieraccini ricorda che nonostante la dura contrapposizione politica del momento il Parlamento discusse a fondo la legge, la migliorò, l'affrontò con serenità. Alla fine ci furono soltanto quarantun voti contrari. Almeno dinanzi alla catastrofe prevalse la coscienza della necessità di unirsi nell'interesse del Paese. Non dovremmo dimenticare questa lezione. Ed oggi a sessanta anni dalla tragedia, da Longarone e del Vajont nel nome delle migliaia di vittime innocenti ci si impegni per davvero che crimini del genere non si ripetano. Per far sì che prevalga l'interesse della comunità e non quello del profitto di pochi – sono ancora parole di Ferroni – “è un crimine che va contro ogni religione e contro ogni credo politico”.

Giovanni Crema, Sindaco di Belluno per un quadriennio con il Partito Socialista Italiano, diventa parlamentare dei Socialisti Italiani nel 1996 alla Camera dei deputati, dove guida la componente socialista nel gruppo misto anche dopo la trasformazione in SDI. Durante la XIV legislatura è presidente della Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari del Senato. Nella XV legislatura è componente dell'Ufficio di Presidenza della Lega delle autonomie locali. Nel 2005 presenta la relazione parlamentare sul caso Antonveneta e le intercettazioni dei senatori: si trattò della prima riflessione intorno ad una guarentigia "di difficile gestione (vista la natura di atti a sorpresa di queste misure)", riflessione in buona parte confermata dalla successiva sentenza n. 390 del 2007 sulla Legge Boato. Attualmente è impegnato in posizione di vertice nell'Associazione Socialista Liberale.

Il presidente Mattarella nei luoghi della memoria

Occuparsi dell'ambiente e rispettarlo è garanzia di vita, e ad un intervento dell'uomo che si traduce in prevaricazione corrisponde la violenza della natura. Vogliamo oggi immaginare di specchiarci negli occhi di coloro che non ci sono più, negli occhi dei soccorritori, negli sguardi severi dei sopravvissuti, negli occhi di chi oggi è depositario di questi territori, per poter dire che la Repubblica non ha dimenticato, per poter dire che riuscire ad garantire condizioni di sicurezza è garanzia di giustizia e di buon governo. La tragedia che qui si è consumata reca il peso di gravi responsabilità umane, di scelte che venivano denunciate, da parte di persone attente, anche prima che avvenisse il disastro. Doveroso, se non addirittura opportuno, che tutta la documentazione del processo celebrato a suo tempo per accertare le responsabilità, rimanga in questo territorio: era stata necessariamente raccolta nei luoghi del giudizio penale, perché aveva allora una finalità giudiziaria. Ma ora riveste una finalità di memoria, e deve essere conservato vicino a dove la tragedia si è consumata; per rendere onore alle vittime del Vajont, per ricavarne un ammonimento, e per evitare altre tragedie.

“È un crimine che va contro ogni religione e contro ogni credo politico”

Senatore socialista Luigi Ferroni, membro della Commissione parlamentare d'inchiesta sul Vajont.

Curiosamente quest'Italia, quasi sempre stranita dal combinato del collassamento dei sentimenti eletti e dal prevalere delle insulsaggini nella comunicazione della vita pubblica, ci ha, in questo caso, sorpreso. Certo, nel sessantesimo del Vajont, ha avuto la sua fetta l'aspettativa del ritorno mediatico. Est modus in rebus, perché nel battage, tutt'altro che inaspettato e in aspettabile, ci sono stati anche qualità di messaggio, correlazione con la messa in campo anche della cultura e, ultimo ma non ultimo, un'offerta di rivisitazione storica aderente ai fatti e, udite udite!, suscitatrice dell'impulso a trarne conseguenze per il presente e per il futuro.

Ringraziamo Giuseppe Azzoni per il suo intimo memoir di vissuto da vicino e la Direzione de La Giustizia che ci consente di divulgare, nel contesto del richiamo dei fatti salienti, l'approfondimento ad opera di Giovanni Crema del ruolo che ebbero i socialisti bellunesi in quei tragici contesti. Di nostro, sentiamo l'impulso a fornire un breve segmento introspettivo di ricordo e di consapevolezze. L'apparato comunicativo di quei tempi, per quanto non antidiluviano, non possedeva i ritmi e la pervasività resi tali da paradossali bocche di fuoco dei contesti attuali. Diciamo che, allora e adesso, ci bastavano e ci basterebbe la dorsale informativa di allora, rappresentata da un ottimo servizio radiotelevisivo. Magari le notizie non erano in diretta. Ma non erano, nel lato essenziale della notizia, carenti. Soprattutto, nel fornire un quadro fattuale e veritiero di un castigo biblico come fu il Vajont. Eravamo poco più che adolescenti, ma resi attrezzati (da una scuola formativa ed educante) ad una congrua percezione/elaborazione dei fatti. Volendo allargarci, ricorderemo che meno di una settimana prima della tragedia si era svolto a Roma il 35° Congresso Nazionale del PSI. Si sarebbe rivelato uno dei soliti campi di lotta interna donde sarebbe scaturita l'ennesima scissione (gennaio 1964), ma, fortunatamente, anche un'autorevole assise per percepire e portare a sintesi i recenti percorsi di stampo riformista. Tra questi, la nazionalizzazione dell'energia elettrica, considerato (giustamente!) un caposaldo della strategia dell'imbocco del modello sociale bastato sull'economia mista. In cui gli assets appunto strategici (fonti energetiche, in particolare) dovevano essere nella disponibilità e nel controllo dei protagonisti della programmazione economica. L'energia elettrica insieme agli idrocarburi (che lo erano da tempo) non poteva non far capo al controllo statale. Diciamo che la “nazionalizzazione” (che non era e non dovrebbe essere una cattiva parola) era stimata dai socialisti (ma anche dall'ala progressista DC, dalla socialdemocrazia e dai repubblicani di La Malfa) un test per verificare le reali intenzioni dell'alleanza riformista, destinata ad accantonare il centrismo ed aprire una fase di ulteriore sviluppo del modello Italia. La nazionalizzazione venne assunta, invece, dai protagonisti dell'opposto campo politico e socioeconomico, dei poteri reazionari e proto capitalisti, come un tester a parti invertiti: da dimostrazione che la “nuova stanza dei bottoni” avrebbe incamminato il Paese verso un modello sovietizzante. Cominciando, appunto, dalla limitazione delle cosiddette libertà economiche. Che, in realtà, dall'avvio della ricostruzione al compimento della prima fase del boom, avevano consentito ai padroni del vapore (in particolare a quelli del settore energetico, con esclusione di metano e petrolio, fortunatamente gestiti dalle aziende parastatali) di riempirsi le tasche e di condizionare le linee espansive ed in qualche misura equitative del nuovo ciclo. Non proprio l'immagini evocative dei bimbi degli industriali elettrici lasciati nell'indigenza, ma la campagna politica e mediatica del fronte anti-nazionalizzazione elettrica, mise in campo, a cominciare dalla testimonianza di testate “indipendenti”, tutto quanto di reazionario si potesse concepire. In realtà, i ceti imprenditoriali e i vertici dei cosiddetti corpi intermedi datoriali, pur continuando a tirare la corda dell'opposizione frontale alla transizione riformista (considerata alla fine del 1963 e soprattutto dopo il Governo propedeutico Fanfani, artefice con Riccardo Lombardi, Antonio Giolitti e Pieraccini, ormai irreversibilmente incanalata), si acconciarono a fare di necessità (una battaglia per la vita del capitalismo estremo) una virtù. Tirando i remi in barca e spremendo fino in fondo il limone dei risarcimenti statali. Insomma una nobile (sic!) battaglia per vendere a caro prezzo la pelle di un capitalismo energetico-commerciale, che nei decenni antecedenti aveva consentito, al di fuori di qualsiasi controllo e garanzia per l'utenza, industriale e al dettaglio), profitti ingenti ed ingiustificati. Come dimostrerà la vicenda, sommariamente definita del Vajont, la strategia risarcitoria concepita dall'imprenditoria prevedeva la massimazione degli asset nazionalizzati, quelli effettivi ma anche quelli, oseremmo dire, in itinere. Molto attiva in questa strategia si sarebbe rivelata la SADE (Società Adriatica di Elettricità), Un vero e proprio monopolio idroelettrico, il cui fondatore e patron, Giuseppe Volpi, tenne per molti decenni il proprio potere cavallo tra industria e politica.  Nel 1905 aveva fondato, ancor prima del Ventennio durante il quale avrebbe smisuratamente esteso le proprie prerogative politiche ed industriali, la Società Adriatica di Elettricità. In poco tempo, tra acquisizioni e ottime conoscenze, la Sade si fece strada e surclassò tutte le altre piccole e medie imprese idroelettriche. Conquistò un vero e proprio monopolio, strettamente connesso con i gangli vitali dello Stato. Monopolio che dimostrava senza ombra di dubbio l'efficacia del proprio pressing nei confronti sia dell'autorità statale sia dei contesti socioeconomici ed amministrativi territoriale. Avvalendosi non raramente, per non dire sempre, anche della leva ricattatoria, nei confronti di un contesto territoriale storicamente sottosviluppato e giustamente desideroso di partecipare alle opportunità delle sviluppo post bellico.

Il perno di questa strategia di sviluppo industriale apparve ben presto l'utilizzazione dell'acqua del Piave. Ogni opposizione da parte delle istituzioni locali era risultata inutile: nuove leggi rendevano più forti le grandi società idroelettriche, in grado di investire forti capitali e garantire maggiori volumi di produzione di energia elettrica. L'industria nazionale aveva fame di energia: in particolare, ne aveva bisogno il nuovo polo industriale di Porto Marghera, anch'esso controllato da  Volpi. Alla pianura serviva l'acqua bellunese: per carburare il boom economico e per irrigare le coltivazioni. I fiumi e i torrenti della Provincia si riempirono di dighe, sorsero nuove centrali (Cencenighe, Agordo, La Stanga, Gena, Sospirolo), all'interno delle montagne vennero scavate gallerie. La Sade portava lavoro ed espropri, paesi sott'acqua e temporaneo sollievo dall'emigrazione. Le lotte (vane) degli ertani, dalla fine degli anni Cinquanta, non furono una novità: qui e là, nelle valli bellunesi, c'erano già state simili prepotenze, simili proteste. Va aggiunto, come suggeriscono le schede online che abbiamo compulsato e che consigliamo agli interessati di approfondire, che la storia del Vajont è cominciata nel 1929, con la prima derivazione concessa alla Siv (società Sade) presso il ponte di Casso. Dal 1939 il sistema venne poi integrato, in varie tappe, con l'acquisizione di precedenti concessioni rilasciate sul Boite e sul Piave, con le concessioni sul Maè, con la previsione di quattro bacini a Vodo, Pieve di Cadore, Pontesei di Forno di Zoldo, Erto Casso e val Gallina, con i collegamenti in gallerie e condotte forzate e la produzione finale a Soverzene. Insomma il “Grande Vajont”.

Il cambio di regime politico non sarebbe stato una mano santa per il Gruppo fondato, radicato e sviluppato da Giuseppe Volpi, cognome in se plebeo ma arricchito dal quarto di nobiltà prestazionale acquisita nel e col regime. I contesti successivi, come appena detto, non avrebbero fornito gli appoggi preesistenti; ma non avrebbero impedito alla holding politico-finanziaria di restare, azzardiamo, sul mercato e in posizione dominante. E, se in questo Paese smemorato ed ingiusto si volesse rendere qualche merito postumo, si dovrebbero iscrivere nel marmo ad imperitura memoria la preveggenza e la determinazione con cui il campo riformista degli anni Sessanta procedette alla nazionalizzazione dell'energia elettrica. Se non altro invertendo la pratica dello strapotere capitalista, il cui cinico impulso a macinare poteri e profitto non si faceva scrupoli a praticare operazioni tipo il Grande Vajont

Questa fu la SADE, talvolta citata nelle rivisitazioni durante i sessant'anni trascorsi e in particolare in questi giorni rievocativi. Difficile sostenere, come di solito si fa in queste circostanze, che si trattò di una tragica fatalità. Questa tragedia, infatti, va imputata per intero a quelle ciniche visioni paleocapitaliste e a quel laissez faire senza limiti da parte del potere politico-istituzionale. In questo senso la ricorrenza del Sessantesimo, non può non avere riferimento il dovere, come dice il Presidente Mattarella, di rendere onore alle vittime del Vajont, ricavarne un ammonimento, evitare altre tragedie.

(e.v.)

Dall'archivio L'Eco Storia

  sabato 1 dicembre 2018

Il profilo umano di Gino Rossini (2°parte) ed il ricordo della figlia Clara

Come preannunciato nella scheda di presentazione del 70° anniversario della scomparsa di Gino Rossini, dedicheremo alla ricorrenza degli approfondimenti tematici della ricca e complessa personalità di uno dei protagonisti della vita pubblica della prima metà del Novecento cremonese

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