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Recovery territoriale

Qualcosa di molto simile ad un ingannevole libro dei sogni

  09/06/2020

Di Enrico Vidali

Recovery+territoriale

Ok, l'accostamento del titolo al supporto grafico, se non proprio temerario, andrebbe spiegato. Lo faremo nel corso dell'approfondimento.

Diciamo subito di essere stati favorevolmente impressionati dall'incipit, dal percorso, dalla conclusione (interlocutoria) del forum che, nei giorni scorsi, ha visto confrontarsi le categorie economiche del territorio con l'Ufficio di Presidenza del Consiglio Regionale della Lombardia. Non tanto per la “novità” dell'evento quanto per quella sorta di “serrate le file”, con cui il “territorio” (inteso come aggregato di rappresentanze categoriali ed istituzionali) si è presentato “al tavolo”.

Forse i protagonisti di questo potenzialmente fecondo incontro di valenza istituzionale lo ignorano (per prevalenti motivi generazionali). Ma dalla punzonatura della Regioni, varato ed insediato nel 1970, il rapporto di interlocuzione tra i nuovi organi e la preesistente rete amministrativa territoriale fu frequente e promettente. Al capoluogo come nei centri capo comprensorio confluirono frequentemente i vertici del Pirellone. Sia per “prendersi le misure” nel mutato ordinamento sia per porre in essere l'encomiabile intento di armonizzazione e di convergenza dei perni dell'azione che avrebbe dovuto dare sostanza al progetto di decentramento legislativo e di periferizzazione dei centri decisionali. Soprattutto, in materia di sviluppo territoriale e di dislocazione dei servizi oggetto delle riforme degli anni 60 e, a venire, 70.

Si era agli albori di quella stagione aurea di idealità non ancora frustrate ed umiliate. Il ceto politico-istituzionale non aveva ancora smarrito il senso e la correlazione delle linee-guida della Costituzione. Soprattutto, l'establishment lombardo era costituito da personalità di notevole spessore. Ne citiamo due: Piero Bassetti e Giuseppe Guzzetti. Venuti sul nostro territorio, sia per fare i primi tagliandi della macchina del Pirellone sia per mettere a fuoco in modo partecipato i progetti attorno a cui la nuova istituzione avrebbe dovuto dare prova della sua portata innovativa. Da quegli intensi rapporti sarebbero nate le intese in materia di inquadramento delle politiche infrastrutturali (navigazione e portualità interna) e i primi abbozzi dell'attuazione della riforma sanitaria (tra cui l'erigendo ospedale Oglio-Po)

Poi, simmetricamente all'attenuazione dell'idealismo, della qualità del ceto politico-istituzionale e alla decisa mutazione del codice genetico in senso centralistico (soprattutto, nel rapporto coi territori periferici) tutto sarebbe venuto meno.

La verticalizzazione politico-istituzionale, parallela all'istituto del Governatorato e ad una pratica soppressiva della mediazione interistituzionale, affidò, pur nel mantenuto cerimoniale di incontri e tavoli (più che altro finalizzato alla sovraesposizione mediatica e personalistica), gli snodi degli indirizzi e della scelte allo “scambio” tra i vertici ed i “pacchetti” della rappresentanza degli eletti (intensa per blocchi territoriali). 

La facciamo breve: l'incontro dei giorni scorsi a Cremona tra la rappresentanza dell'associazionismo categoriale, i vertici amministrativi locali (che nei tempi andati fungevano da traite d'union) e la Presidenza del Consiglio Regionale fa ben sperare in un prosieguo, che potrebbe trarre beneficio anche solo da questo incipit di rapporti politico-istituzionali ravvicinati. Per quanto, come abbiamo osservato in un colloquio con il passato Presidente della Provincia Davide Viola, il metodo della consultazione non si può proprio dire che fosse stato totalmente abrogato (semmai, costante fu il ritorno con le proverbiali pive nel sacco).

È solo in omaggio all'intima persistenza del convincimento che, essendo la Regione nata come prevalente livello legislativo decentrato, è giusto ed apprezzabile che l'interlocuzione sia ripresa con la rappresentanza dell'organo che meglio si attaglierebbe alla precipua funzione.

Un'interlocuzione che, oltretutto, offrirebbe il vantaggio di associare nel confronto anche la rappresentanza dei gruppi consiliari non presenti nell'assetto esecutivo.

Assolutamente da non sottovalutare la circostanza che la ripresa dei rapporti (auspicabilmente organica nel futuro) sia stata suggerita dalle conseguenze di quello tsunami, che ha funestato e sta funestando (scegliendo preferenzialmente la location lombarda) il mondo.

Tener conto di tale portato dovrebbe essere logico e coerente. Farne derivare motivazioni e conseguenze sarebbe deformante.

Normale che si pensi di chiamare un livello di governo, rivelatosi per larga parte del suo mezzo secolo di testimonianza latitante e patrigno nei confronti dei territori, curiosamente decimati dalla pandemia, di una lettura condivisa dell'accadimento e del modo di porvi rimedio (sollecitamente ed adeguatamente).

Ma sarebbe errore madornale farlo seguendo la logica del "semel" in pandemia e tracciando priorità in logica correlata. Per di più manifestando, con l'evidente trascuratezza di una visione strategica a valere ben oltre la gittata della pur straordinaria congiuntura, l'auspicio “che a Cremona venga riservato un posto d'onore”. A risarcimento di una punizione esitata come biblica, che sul territorio ha picchiato più che proporzionalmente, e non, anche volendo prescindere dalle dinamiche tuttora inesplorate sul versante epidemiologico-clinico, del nesso di causalità tra picchi epidemiologici e conseguenze dell'azione di governo regionale.

Una premessa che per estensione non appare un'inezia esige un'altrettanta poca sbrigativa analisi, cui ci sottoporremo simmetricamente al fil rouge della conferenza.

Difficile sarà sdoppiare la direttrice logico-strategica dall'orditura tematica; in cui la priorità  viene scandita dal dopo tsunami, che inevitabilmente ipnotizza l'attenzione per effetto sia della sua immanenza che del modo di porvi rimedio. Nei contesti ancora feriti e, soprattutto, nelle visioni strategiche, che collocano la tutela della salute come massima priorità del divenire dell'azione istituzionale nel concerto con la realtà istituzionale e socio-economica del territorio.

Non ne faremmo una questione di cahier de doléances, per di più lamentoso e recriminatorio.

Anche se quel “Cremona merita un ruolo da protagonista…per ridurre il gap con quei territori che, fino ad oggi, hanno ottenuto di più” si giustifica alla luce delle evidenze (dello storico consolidato e delle scenari ancora in atto).

Restando aderenti alla gerarchia delle priorità almeno enunciative, l'attuale assetto della tutela del diritto primario della salute impone una rivoluzione copernicana, a livello di enunciato, di strategia, di correzione del rapporto di investimenti strutturali e di spesa corrente.

Avremo modo, nel prosieguo di un'analisi tematica dedicata alla sanità, di affermare quanto qui esponiamo per sommi capi.

Va totalmente invertito l'ordine dei fattori ed i perni di spesa dell'azione della Lombardia. Oggi, il “Governatore” Fontana ha rilasciato un'intervista che, senza essere tout court autoassolutoria delle responsabilità remote, recenti e correnti, indulge ad una narrazione suscettibile di richiedere le attenuanti.

In questa analisi-intervista è del tutto assente il combinato percezione/consapevolezza dei cardini che hanno portato al disastro.

Se è vero che non si può pretendere di cogliere in un'intervista il senso inequivocabile di un cambio di passo e di snodi di inversione, è sconfortante che il succo di questa, che dovrebbe essere una rivoluzione copernicana, sia racchiuso in un piano d'azione circoscritto dedicato ai medici di famiglia. Nella locuzione, peraltro, meno aggiornata e congrua.

Governatore, si chiama medicina di base! Per essa intendendo non già la sola figura del “vecchio medico della Mutua”  (peraltro allora centrale in un sistema equilibrato di prevenzione e di terapie non ancora fagocitate dalla ospedalizzazione), bensì la riqualificazione dei segmenti da un quarto di secolo vilipesi e svuotati. 

Da un indirizzo di spedalizzazione come prevalente accesso al percorso della cura, da uno squilibrio a favore dei privati, dalla minimalizzazione della rete territoriale di presidio dei trattamenti di base e di smistamento, da una gestione verticistica priva di collegamenti e di controlli con le realtà del territorio. Che, volendo sintetizzare, è racchiuso nel ciclo della grandeur di Formigoni, durato, prescindendo dalle staffette coi leghisti, un quarto di secolo.

Quanto è avvenuto e quanto potrebbe ripresentarsi non è riconducibile all'opera di un dispettoso trojan. Parlarne, interrogandosi sulle cause non è opera (onorevole europeo Salini!) di “uno squalo assetato di sangue “ ma prerogativa di un sistema liberaldemocratico, in cui la maggioranza governa, l'opinione pubblica monitora e l'opposizione controlla e critica.

Di tutto questo non ci pare, pur comprendendo anche umanamente l'imbarazzo e la difficoltà, cogliere nulla né nello speech dei rappresentanti del Consiglio Regionali giunti a Cremona né nell'assertività remota dell'intero establishment del Pirellone. Intento a leccarsi le ferite di una prestazione non esattamente indimenticabile ed inconsapevole, come un pugile prossimo al getto della spugna, da dove sia partito il kappaò.

Un acronimo che quasi ce ne richiama uno assonante, il Know how. Di cui, specie nei rudimenti basilari di buona amministrazione, appare ormai priva la gran parte del personale politico. 

Ecco, l'ultimo quarto di secolo dei Formigoni e successori appare manifestamente privo di consapevolezze del bene comune di una regione che si è autodefinita la locomotiva del Paese.

Su questo terreno la delegazione ha detto poco o nulla. Forse ha balbettato qualche promessa di azioni riparatorie. A noi, però, che analizziamo e commentiamo, non è del tutto sfuggito, in bocca al vicepresidente Borghetti,  il senso (in capo all'aggregazione all'Ats mantovana) di quel “sia giusto riconoscere al territorio cremonese l'autonomia e il rafforzamento che merita”

Non tanto, ma neppure pochissimo (anche se si pesa il ruolo di chi l'ha esternato).

Da ultimo, vorremmo fare una seria riflessione su un profilo potenzialmente deriva di quella che potrebbe e dovrebbe essere un confronto importante.

Ci riferiamo a quella sorta di libro dei sogni che sta diventando il Mes. I cui flussi anche nella versione della non restituibilità o della non condizionalità devono partire dal principio che non sono sterco del demonio e che non vanno buttati dalla finestra.

Invece, stanno sempre più diventando una sorta di Helycopter fund  per la recovery. Una sorta di mastodontico gettito di risorse dal cielo fatto più per ammansire un'opinione delusa e preoccupata, soprattutto per ammiccare a certa imprenditoria interessata alle commesse.

Intanto diciamo che non si costruisce niente partendo dalla rottamazione. L'ospedale di Cremona è entrato a regime meno di 50 anni fa. Non è costato nulla allo Stato, essendo stato realizzato dalla filantropia cremonese. È frutto di uno sforzo tecnico-progettuale avanzato per quei tempi. Non sarebbe il catorcio di adesso, se negli ultimi trent'anni non fosse stato trascurato sul terreno di una manutenzione ed un aggiornamento tecnologico appena decente.

Viene ipotizzata la sua irreversibile obsolescenza/rottamazione sulla stessa stregua della new wave che orienta la distruzione di S. Siro per un nuovo stadio.

Un orientamento di destruens pro costruens.

Ma non è ciò di cui hanno bisogno né una sanità rettificata dalle sentenze pronunciate dal disastro Covid né un territorio, che è stato tratto dall'impiccio dalla assoluta dedizione degli operatori (con esclusione dei vertici dirigenziali) e del volontariato.

L'ipotesi del nuovo ospedale cremonese (una sorta di elefantino bianco) mette a nudo la fuga in avanti o forse l'avventurismo di politici senza visioni strategiche (che non siano solo quelle di far bere il cavallo). Ospedali come stadi: rottamare e costruire. Eppoi, detta fino in fondo, il territorio di riferimento non è solo Cremona. La riqualificazione della sanità deve riguardare nella sua interezza l'asse che parte da Rivolta d'Adda e arriva a Casalmaggiore e all'Oglio-Po.

Tengano conto di ciò i players della rappresentanza territoriale. Il cui primo impulso dovrebbe essere la sollecitudine a convergere su un progetto di riequilibrio territoriale. Senza del quale il futuro non farà sconti a bassi tassi di consapevolezze e coesioni attenuate.

Speriamo che tra l'esordio ed i nuovi tavoli la nostra classe dirigente trovi il tempo e la determinazione per attrezzarsi adeguatamente.

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