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Ustica-Sigonella: una storia "italiana"

  12/09/2023

Di Redazione

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Incipit del caso

Caro direttore, dopo quanti anni un noto rappresentante politico sente il dovere di affermare di poter ancora essere in grado di offrire un avvicinamento alla verità? La verità su una strage ancora ritenuta inspiegabile, nonostante le varie ipotesi e le levate di scudi tra nazioni diverse ed alti esponenti politici?  Afferma di non conoscere la verità ma di avere il modo di indirizzare i pochi (o tanti) che ne sono ancora interessati (non dimentichiamoci dei parenti rimasti di tutte quelle vittime)  a sviscerarla? 

Il peso dell'età lo induce a rivelare segreti di Stato, magari non condivisi ai tempi, tramite una pseudo pubblica confessione?? 

Ed ora che può succedere? Si torna ad essere l'un contro l'altro armato arrampicandoci su ipotesi, rivendicazioni, segreti militari e non? C'è qualcun altro che vicino ad un imminente previsto fine vitae vuol lavarsi la coscienza ed aggiungere altre “vecchissime novità”? Oppure si preferisce ancora mettersi con le spalle al muro perché nessuno possa darti uno spintone per buttarti nella polveriera?  Mi affido a Lei, gentile direttore, per un possibile chiarimento in merito… La ringrazio vivamente.

Clara Rossini, 8 settembre 2023, Cremona
Clara Rossini, 8 settembre 2023, Cremona

Riprendiamo questa rubrica, molto seguita dai nostri lettori di “simpatie” socialiste, prendendo spunto sia dalla lettera (che fa da innesco) della presidente dell'Associazione Zanoni sia dal clamore di una querelle (che tale arrischia di diventare la recente esternazione di un braccio destro del Craxi statista). Che, in poche ore, ha riaperto un focus che universalmente si riteneva assopito ancorché latente nel radar delle grandi incompiute di questa Italia politica, sempre propensa ad essere in debito di chiarezza su dossier fondamentali della vita pubblica.

Ci riferiamo all'inaspettata esternazione, un po' claudicante in termini di esatta riferimento tematico-temporale, da parte del “dottor Sottile”, l'insigne Giuliano Amato, il cui cursus honorum occuperebbe una mezza pagina. Per essere stringati, diciamo che fino a trent'anni fa fu percepito come il grande suggeritore del Craxi capo del governo, per diventare, nel procelloso prosieguo delle vicende craxiane e socialiste, un riferimento centrale dei poteri della seconda repubblica.

Diciamo che, dopo una settimana dall'avvio della “campagna” non si sa più se di reale volontà di aprire squarci di chiarezza su pagini inquietanti della storia contemporanea (nazionale ed internazionale), imperniate sui dossier Ustica e Sigonella (andando per sommi capi) ovvero se per una volontà di introdurre diversivi negli scenari correnti, non si è arrivati sul terreno sia della percezione di una in equivoca interpretazione del cui prodest sia di un eventuale diversivo sottostante a nulla di solido.

Saremmo esageratamente omissivi se non rilevassimo, sia pure incidentalmente, che l'outing storico-mediatico del dottor Sottile, ha finito per focalizzare, per effetto sia del rango del personaggio sia dell'argomento suscitato, un quasi universale impulso contrario al morettiano “non vado… vado ma mi tengo in disparte”. Soprattutto, agendo da carta moschicida, in quella che si può definire riserva socialista.

Ma su ciò terneremo (dolorosamente) nelle conclusioni. Non ci resta che fornire i perni di questa rassegna di “passi scelti” di inquadramento storico del tema e di riflessione sui reali intendimenti del confronto; che abbiamo attinto da due importanti articoli di Domenico Cacopardo, nonché dalle analisi di Mauro del Bue su La Giustizia, di Andrea Ermano direttore della testata socialista Avvenire dei Lavoratori e di Alberto Benzoni e
Roberto Biscardini su Critica Sociale.

Anticipando i testi (noblesse oblige in capo al rango accreditato di “dottor Sottile” e di “delfino”) con un estratto di una delle tante interviste rilasciate da Claudio Martelli.

Non prima, però, di aver fornito ai nostri lettori una sintetica traccia dei due dossiers, finiti col tempo nel porto delle nebbie e, comunque, in una dimensione molto attenuata di memoria.

Incanalati verso il cospicuo deposito delle vicende etico politiche, suscettibili di diventare storiche, pur restando eternamente aperte, dal punto di vista di una fattuale base interpretativa

Resumées dei dossiers Ustica/Sigonella

La strage di Ustica è stato un incidente aereo, avvenuto alle 20:59 (UTC+2) del 27 giugno 1980 nel Mar Tirreno meridionale, nel tratto compreso tra le isole italiane di Ponza e Ustica. Vi fu coinvolto il volo di linea IH870 della compagnia aerea Itavia, partito dall'aeroporto di Bologna-Borgo Panigale e diretto all'aeroporto di Palermo-Punta Raisi. La partenza era programmata, come da orario della compagnia Itavia, per le 18:15, ma venne posticipata di quasi due ore a causa dell'arrivo in ritardo dell'aeromobile Douglas DC-9-15 con marche I-TIGI.  L'aereo perse il contatto radio col Centro di controllo d'area di Roma (nominativi radio Roma Radar con frequenza 124,2 MHz e, successivamente, Roma Controllo, frequenza 128,8 MHz), responsabile del servizio di controllo del traffico aereo in quel settore e ubicato presso l'aeroporto di Roma-Ciampino, si spezzò - come appurato dopo lunghe analisi dei dati radar e con il successivo recupero del relitto dal fondo del mare - in almeno due grossi spezzoni e cadde nel mar Tirreno. Nell'incidente morirono tutti gli 81 occupanti dell'aeromobile, tra passeggeri ed equipaggio. È il quarto disastro aereo italiano per numero di vittime, dopo quelli del volo Alitalia 4128, del volo Alitalia 112 e di Linate.

Terrorismo, sequestro dell'Achille Lauro

34 anni fa il dirottamento della nave da crociera, l'assassinio di Klinghoffer e lo scontro tra Italia e Usa a Sigonella. Il sequestro della nave. L'obiettivo originario dei terroristi del Fronte popolare della Palestina (Flp) imbarcatisi a Genova sull'Achille Lauro non era il suo sequestro e il dirottamento, poiché nei piani che i loro capi avevano elaborato era previsto che compissero un attentato nel porto israeliano di Ashdod, dove la nave da crociera avrebbe dovuto fare scalo.I quattro terroristi palestinesi, tutti appartenenti a una fazione radicale filo-siriana del gruppo, erano riusciti a imbarcarsi servendosi di passaporti falsi, all'epoca dei fatti uno di loro era minorenne. Tuttavia un imprevisto mutò improvvisamente lo scenario: la notte del 7 ottobre 1985 un membro dell'equipaggio notò le loro armi. Vistisi scoperti, i palestinesi decisero di sequestrare la nave prendendo in ostaggio le persone che si trovavano a bordo. A questo punto l'Achille Lauro, che era in navigazione al largo delle coste egiziane, venne dirottata. Il riscatto chiesto per la liberazione degli ostaggi fu il rilascio di cinquanta palestinesi detenuti nelle carceri israeliane. Il calvario dell'Achille Lauro si protrarrà per tre giorni: dall'Egitto alla Siria (dove non venne concesso l'attracco), quindi di nuovo in Egitto, quando finalmente il nucleo del Flp si consegnò alle forze di sicurezza di Mubarak. Questo grazie alla complessa trattativa che nel frattempo era stata avviata, che però non teneva ancora conto – anche se americani e israeliani con ogni probabilità ne erano già al corrente – del brutale omicidio di Leon Klinghoffer. Un omicidio del quale il Presidente del Consiglio italiano venne messo al corrente soltanto pochi minuti prima della conferenza stampa nel corso della quale avrebbe annunciato la liberazione dell'Achille Lauro. Qui iniziò la seconda fase della vicenda, caratterizzata dal duro confronto tra Roma e Washington. Un gravissimo incidente diplomatico che rischiò di degenerare in uno scontro armato. Il degenerare della situazione. Subito dopo il sequestro da parte dei terroristi palestinesi, l'allarme lanciato dal marconista di bordo dell'Achille Lauro venne ricevuto in Italia, attivando immediatamente i responsabili politici e della sicurezza. L'esecutivo presieduto da Bettino Craxi in carica nell'ottobre 1985, vedeva alla Farnesina un altro grande amico del mondo arabo, il democristiano Giulio Andreotti, uomo politico di lungo corso in relazioni privilegiate con la Libia di Gheddafi. La fuga dei terroristi. Una volta che il Boeing 737 atterrò sulla pista di Ciampino la questione divenne interamente italiana, con l'ulteriore “complicazione” rappresentata dalla ovvia pretesa della magistratura di sottoporre a interrogatori sia Abu Abbas che i quattro terroristi palestinesi. Le rocambolesche vicende che contrassegnarono le ultime ore di permanenza del capo del Flp in Italia – fatte di travestimenti e depistaggi propri di uno spy movie – consentirono l'occultamento dell'ingombrante personaggio. Abu Abbas, braccato per tutta Roma da magistrati e servizi segreti esteri, trascorse la notte dove nessuno avrebbe mai pensato di cercarlo: in quell'aereo dell'Egypt Air da dove in realtà non era mai sceso. Quello stesso aereo che il giorno seguente decollò per un breve volo fino a Fiumicino, dove si affiancò a un altro velivolo passeggeri, stavolta della Jat, le linee aeree jugoslave. Il trasbordo dei due esponenti palestinesi venne effettuato in segretezza e, una volta imbarcati, l'aereo decollò rapidamente alla volta di Belgrado. Craxi lasciò allontanare i mediatori e trattenne i terroristi, forte del fatto che in quel momento la magistratura italiana non era in possesso di elementi tali da consentire l'arresto di Abu Abbas ed el-Hassan. Washington aveva nel frattempo inoltrato al Governo italiano una formale richiesta di arresto e di estradizione dei terroristi, tuttavia, l'allora ministro di Grazia e Giustizia, il democristiano Mino Martinazzoli, valutò insufficienti gli elementi posti alla base di essa. I fatti dell'Achille Lauro e di Sigonella lasciarono un lungo strascico, nel Paese divampò una dura polemica sulla gestione politica della vicenda. I ministri del Partito repubblicano italiano si dimisero dai loro incarichi, mentre Craxi annullò in segno di protesta la sua prevista visita ufficiale negli Stati Uniti d'America. Sarà lo stesso Ronald Reagan alcuni giorni dopo a scrivergli chiedendogli di non rinunciare al viaggio. Le sentenze giudiziarie. Il 1 luglio 1986 il Tribunale di Genova condannò all'ergastolo Abu Abbas e due dei quattro componenti il commando terroristico palestinese che aveva sequestrato l'Achille Lauro. L'esecutore materiale dell'omicidio di Leon Klinghoffer venne condannato alla pena di trenta anni di reclusione, mentre il terrorista che all'epoca dei fatti era minorenne si vide comminare diciassette anni di pena. Le condanne vennero confermate in appello meno di un anno dopo. Sedici anni dopo, il 15 aprile del 2003, Abu Abbas fu arrestato a Baghdad dai militari statunitensi che avevano invaso l'Iraq. In quel paese aveva vissuto sotto la protezione di Saddam. Egli morì meno di un anno dopo in un carcere americano alla periferia della capitale irachena, ufficialmente per un attacco cardiaco. Secondo un benevolo modulo interpretativo, da allora si fece strada l'interpretazione secondo cui a Sigonella Craxi non disse «no» a Reagan, ma gli dimostrò che si poteva essere alleati degli Usa «senza per questo divenire loro servi».

Rassegna della stampa correlata

Claudio Martelli, estratto dall'intervista rilasciata a Corsera

Penso che abbia voluto liberarsi di un fardello, di un senso di colpa collettivo. Tra gli accusati c'è anche Craxi. L'atteggiamento di Amato tradisce un certo livore. Nel 1980 Amato era avversario di Craxi e di Formica. Craxi insorge a difesa della sovranità nazionale. E che la politica estera uscisse dalle ambiguità  e dai sotterfugi.  Lui lo fece con Sigonella, pagando un prezzo molto caro.

Quell'ognuno per sé sul terreno della rivisitazione ed interpretazione postuma di un segmento cruciale, la politica estera, del nuovo corso dà conferma, nel caso fosse ancora necessario, della persistenza (allora è dopo) di un sentiment collettivo dei colonnelli da se non proprio c'eravamo molto odiati certamente da c'eravamo poco amati. La coesione satrapica della leadership imponeva pochi svolazzi dialettici. Le differenze, su temi importanti come l'interpretazione delle prerogative delle alleanze internazionali, emergono postume.

Il caso Ustica 1 e 2

Di Domenico Cacopardo.

Molti si sono chiesti perché Giuliano Amato abbia riaperto la sentina dei misteri connessi alla strage di Ustica in questo momento cioè quando tutto sembrava archiviato e per sempre.

Ho conosciuto Giuliano quand'era un giovane laureato socialista che frequentava gli uffici di Giorgio Ruffolo, segretario generale della programmazione e ho lavorato con lui a lungo nel percorso differente ma parallelo da noi compiuto almeno sino al 1987. E ripreso quando lui tornò alla presidenza del consiglio dei ministri succedendo a Massimo D'Alema.

Purtroppo, l'età fa dei brutti scherzi inquinando la memoria di chi ha una “bella” età (si dice che dopo i 65 anni si sia anziani, dopo i 75 vecchi, dopo gli 85 -Amato li ha compiuti il 13 maggio- grandi vecchi) e per guidarlo sul terreno di quelle che il generale Leonardo Tricarico, già consigliere militare di Massimo D'Alema e forse di Amato (1999-2001), ha definito «fandonie».

In proposito, non dimentico che Tricarico fu a capo delle operazioni aeree Nato ad Aviano nel corso della guerra contro la Serbia e che in quel periodo passarono dalle mani di alcuni vertici militari Nato e italiani alcune false informazioni consegnate a D'Alema e da questi comunicate al Parlamento. In particolare, 2: che i nostri bombardieri andavano in Serbia ma non bombardavano e l'altra, ancora più grave, che al ritorno dalla missione nei Balcani i nostri bombardieri non si liberavano del carico esplosivo scaricandole in mare Adriatico.

Era vero il contrario: la norma di inderogabile cautela imponeva ai piloti di liberarsi delle bombe eventualmente rimaste a bordo.

Il che non ci dice che Tricarico -o chi per lui- sia stato un bugiardo, ma ci dice che i militari italiani inquadrati nella Nato rispondono alla Nato prima che al governo italiano. Il che è vero anche oggi e, di questo, dobbiamo farcene una ragione.

Giuliano Amato confonde le cose, parlando di un Mig caduto in Calabria. Anche ieri è tornato sul Mig definendolo di Gheddafi.

Purtroppo l'ex presidente di tante cose dovrebbe ricordare che un capo di Stato o di governo non si sposta su un aereo da guerra, magari supersonico. In particolare, l'aereo caduto in Calabria era un Mig 23 che poteva ospitare a bordo solo il pilota. Anche se Gheddafi fosse stato Mandrake è difficile immaginare che sapesse pilotare un Mig 23 supersonico. A parte il fatto che il cadavere ritrovato nell'aereo caduto non era evidentemente di Gheddafi.

Quella notte doveva volare e forse volava un aereo executive Falcon attrezzato come ambulanza che avrebbe dovuto condurre una personalità libica -fors'anche Gheddafi in persona- reduce da una visita medica a Parigi. Ed è il Falcon che potrebbe avere scelto di volare in coppia con il DC9 Itavia. Evidentemente c'erano state indiscrezioni e informazioni di spie, perché a bordo del Falcon non era salito Gheddafi né alcun altro esponente del governo libico.

Nel dopo-Ustica ci sono state varie morti sospette di militari dell'aeronautica italiana.

In particolare: il maresciallo Mario Alberto Dettori (nel 1980 controllore nella stazione radar di Poggio Ballone potrebbe avere ‘visto' qualcosa la sera della sciagura) fu trovato il 31 marzo 1987 morto impiccato a un albero in riva al fiume Ombrone in prossimità di Grosseto (lavorava nella base aeronautica di questa città). Dopo la strage di Ustica aveva trascorso un periodo di addestramento in Francia e si disse -allora- che ne fosse tornato sconvolto e in depressione. Il maresciallo Franco Parisi invece morì alla periferia di Lecce nello stesso modo, ma più tardi rispetto a Dettori, il 21 dicembre 1995. Controllore a Otranto, non era in servizio il 27 giugno 1980, ma lo era meno di un mese dopo, nella mattinata del 18 luglio, quando fu ritrovato il Mig libico, quello che si vorrebbe caduto quel giorno mentre diverse risultanze dicono che precipitò una ventina di giorni prima. Parisi, interrogato a tre mesi dal decesso, dal magistrato inquirente Rosario Priore, nel settembre 1995, sarebbe caduto in “palesi contraddizioni”, mentre erano emersi episodi di minacce nei suoi confronti. Priore intendeva risentirlo, ma la morte (di Parisi) glielo impedì.

Queste sono considerazioni di premessa.

Il beef -ben consistente- è altro.

Ma qui debbo fornire un chiarimento.

Il presidente del consiglio D'Alema mi incaricò, nella qualità di suo consigliere giuridico, di redigere un documento complessivo, d'intesa con Rosario Priore, che mettesse in evidenza gli aspetti oscuri e contraddittori emersi nelle indagini a carico dei governi Usa, Regno Unito e Francia.

Il materiale è tanto e ne rinvio lo sviluppo a una prossima puntata, precisando -visti gli usi delle case coinvolte nella strage- che i documenti cui farò riferimento sono ben custoditi negli archivi della presidenza del consiglio dei ministri e, altresì, nelle presidenze dei 3 paesi destinatari delle lettere che non Amato, ma Massimo D'Alema inviò per le vie diplomatiche a Bill Clinton, a Tony Blair e a Jacques Chirac.

***

Oggi mi occuperò di quanto era emerso nelle indagini di Rosario Priore a proposito della presenza e del ruolo della Francia nella sciagurata serata del 27 giugno 1980. 

Seguiamo il susseguirsi delle rogatorie rivolte alle autorità di Parigi.

Il 4 settembre del 1986, l'ammiraglio Fulvio Martini, direttore del Sismi -personaggio di sicuro spessore che in anni successivi e lontani ho avuto occasione di frequentare (sua la battuta celebre ai suoi tempi: «Quelli dell'Aeronautica sono come bocciofili con la passione del volo». Intendeva dire che gli ufficiali di quell'Arma erano estranei agli intrighi che spesso dilagavano alla Difesa)- scrive in cerca di informazioni al suo omologo francese che gli risponde che la caduta del Dc9 non costituiva un «affaire de terrorisme» e che pertanto non disponeva di alcuna informazione.

La Commissione d'inchiesta presieduta dal dottor Carlo Maria Pratis magistrato di Cassazione richiese che, per canali diplomatici, si chiedessero a Parigi le seguenti informazioni: -se vi fossero navi militari francesi nella zona e nell'ora della caduta dell'aereo; -cosa risultasse dai sistemi radar francesi situati in aree prossime alla rotta del Dc9.

Il 19 aprile 1989, l'ambasciata d'Italia riportava a Roma la risposta francese: «dalle verifiche che sono state effettuate dal ministero della difesa (francese) emerge che nessuna unità francese si trovava il 27 giugno 1980 nella zona tra Ponza e Ustica o nelle sue prossimità. Non è stato dunque possibile raccogliere alcuna informazione per questa via. Inoltre, per ciò che concerne il traffico aereo civile gli organismi francesi non hanno competenza per quella zona … e non possono disporre di informazioni radar a riguardo …» seguiva un'altra frase sull'assenza di mercantili francesi in zona. Non sfugge a nessuno che questi riferimenti riguardano iniziative adottate molti anni dopo la strage. I cadaveri delle vittime erano da tempo freddi e tumulati.

Nel contesto delle indagini svolte dalla Commissione stragi con l'aiuto del Ministero della difesa venne chiesto all'Ambasciata francese di fornire ogni notizia utile sulla portata dell'apparecchiatura radar dislocata nel 1980 nella Corsica meridionale. L'Addetto militare di quella Ambasciata Colonnello Varizat in data 28.11.1990 rispondeva che l'incidente era avvenuto fuori delle normali ore di lavoro dell'aerobase di Sollenzara situata in Corsica meridionale. I radar di detezione avevano interrotto la loro attività operativa e comunque la portata del radar di Solenzara era limitata ai dintorni del litorale orientale della Corsica. Nessuno velivolo dell'Armée de l'Air era presente nella zona quando è avvenuto l'incidente. Questa risposta apparve poco attendibile. La Commissione voleva sapere di radar di difesa o traffico aereo, che proprio per le loro funzioni non possono essere spenti seguendo un ordinario orario di lavoro ma devono essere in attività  ventiquattro ore su ventiquattro; specie quei radar di difesa sull'area più' calda, quella del Tirreno, per la Francia - non certo come quelli verso la Spagna o la Gran Bretagna-. E l'Addetto militare invece aveva capito che si parlasse dei radar di approach control; cioè quelli in funzione di guida di avvicinamento, che devono essere accesi tanto quanto resta in funzione l'aeroporto. Aeroporto che peraltro quel giorno non fece proprio orario fino alle 17.00. In effetti in virtù delle deposizioni rese dai fratelli Santo e Nicolò Bozzo, quest'ultimo Generale del CC, i quali entrambi riferivano di essersi trovati quel 27.06.1980 in villeggiatura in Corsica, proprio a Solenzara, già nella mattinata avevano notato un'attività aerea che col passare delle ore era divenuta sempre più intensa fino a raggiungere il culmine nel tardo pomeriggio, per poi terminare verso le ore 22.00/23.00 locali; si trattava di Mirage francesi e F104 tedeschi e belgi.

Il 26 luglio 1990 il Direttore del Servizio Interpool comunicava che il suo collaterale francese aveva riferito che "alcuna registrazione radar era stata compiuta nell'ora, nel giorno o località indicati".

Questa risposta è del tutto inaccettabile: non è possibile immaginare che la Francia non avesse un sistema di registrazione delle tracce radar. È possibile che, come accade normalmente per le situazioni "normali", dopo breve tempo dalla effettuazione le registrazioni siamo state cancellate.

A questo punto la copia del documento in mio possesso si arresta. Ed è evidente che si sia trattato di una cancellazione abusiva frutto di una intrusione illegale. Resta il fatto che originali dei memorandum e delle lettere ai Clinton, Blair e Chirac debbono essere agli atti di Palazzo Chigi.

Riferirò a questo punto soltanto un elemento del quale ho un ricordo alquanto preciso. Dopo lunghi sforzi e pressioni, il ministero della difesa francese rilasciò il diario di bordo della portaerei Clemenceau, partecipante alla esercitazione Nato in corso nel periodo precedente e successivo al disastro del Dc9 Itavia (circostanza che da sola già smentiva l'asserita assenza di navi militari francesi in navigazione nel Mediterraneo). Questo diario di bordo (tutti i diari di bordo sono scritti a mano da sottufficiali in turnazione) risultava redatto per un lungo periodo di tempo (a memoria 36 ore) da una sola mano, con una sola calligrafia. Una circostanza che indusse Rosario Priore a ritenere che si trattasse di un falso, essendo impossibile per chiunque operare per tanto tempo e al di fuori delle prassi marinare. Una sola mano per un diario di un giorno e mezzo.

E qui mi fermo.

C'erano degli altri rilievi stringenti e inoppugnabili di Priore, ma non ricordandoli con precisione, mi astengo dal riferirli.

Aggiungo per la precisione che, succeduto Giuliano Amato a Massimo D'Alema, venni confermato nell'incarico di consigliere giuridico ed ebbi alcune occasioni di parlare con il premier che intendeva tenere caldi i dossier con Usa, Regno Unito e Francia. Non so se poi egli, nella qualità di presidente del consiglio, abbia rinnovato la richiesta di cooperazione formulata dal suo predecessore.

Ma questo oggi, poco importa. Ciò che importa che il dossier non sia stato chiuso soprattutto per il roccioso rifiuto degli alleati di cooperare alla soluzione rendendo noto ciò che sapevano. 

Domenico Cacopardo, Presidente di s. del Consiglio di Stato
Domenico Cacopardo, Presidente di s. del Consiglio di Stato

L'affondo di Amato su Ustica

L'intervista a Repubblica di Giuliano Amato sulla strage di Ustica contiene solo una novità. Non la tesi del missile, delle responsabilità in particolare dei francesi già richiamate da Francesco Cossiga nel 2007 di fronte alle autorità giudiziarie, sulla base di una soffiata del capo dei servizi segreti militari Martini (che Amato ritiene persona “afflitta da problemi bipolari”, perché a lui confidava il contrario) e suffragata dalle indagini del giudice Priore, ma mai provate giudiziariamente, a cui si contrappose l'idea che sia stata una bomba (come sostenuto dall'aeronautica militare italiana) a fare esplodere l'aereo. La novità che riporta Amato, che sposa decisamente la tesi del missile, riguarda il ruolo avuto da Craxi in quel giugno del 1980. Secondo Amato, che però confessa di non avere prove che lo dimostrino, essendo le sue solo deduzioni, fu Craxi, che aveva avuto la notizia attraverso un personaggio del vertice militare, a confessare il rischio a Gheddafi che così in quella giornata del 27 giugno non salì sull'aereo che lo avrebbe fatto volare in territori italiani. Ne sarebbe nata una vera caccia al Mig libico con aerei americani e francesi e ad essere colpito per errore, da un missile “a risonanza” lanciato dai francesi, sarebbe stato il Dc9 dell'Itavia, partito da Bologna e diretto a Palermo, nei cieli di Ustica. Amato non si ferma qui e fa appello alla Francia, e in particolare al “giovane presidente Macron”, perché si difenda o chieda scusa. Le autorità francesi, logicamente, non hanno dato alcun accenno di risposta trincerandosi nel più assoluto silenzio. A tale proposito nascono due legittimi interrogativi. Quarantatré anni dopo, dalle indagini finora terminate con un “non luogo a procedere” nel 1999 per mancanza di imputazioni certe, ma riavviate recentemente dalla Procura di Roma, ancora non é emersa alcuna verità. Possibile che un ex presidente del Consiglio nonché recente presidente della Corte costituzionale, abbia ricavato non sensazioni, non ipotesi, ma prove al punto di chiedere ufficialmente alla Francia un “mea culpa”? E poi, anche alla luce delle successive dichiarazioni dei figli di Craxi, Bobo e Stefania, non vien da chiedersi se Amato non confonda l'avvertimento del 1980 con quello del 1986, quando Craxi, da presidente del Consiglio, e non da semplice segretario del Psi, fece arrivare un segnale a Gheddafi circa un imminente bombardamento americano, che poi egli stesso, che aveva negato l'uso delle basi Nato poste in Italia, condannò? Resta il fatto che Giuliano Amato, personaggio piuttosto schivo e restio a tuffarsi in polemiche pubbliche, non parla mai a vanvera. La Meloni, ovviamente, pretende prove certe prima di assumere qualsiasi provvedimento e Amato non credo abbia alcuna voglia di subire una generale sconfessione senza muovere un dito. Il sasso é stato lanciato. Vedremo dove arriverà.

Mauro Del Bue, La Giustizia
Mauro Del Bue, La Giustizia

“Chi sa parli” di Andrea Ermano

Da "L'Avvenire dei lavoratori" del 7 settembre 2023, settimanale della più antica testata della sinistra italiana Organo della F.S.I.S., Centro socialista italiano all'estero, fondato nel 1894 / Direttore: Andrea Ermano Redazione e amministrazione presso la Società Cooperativa Italiana - Casella 8222 - CH 8036 Zurigo settimanalmente trasmesso a 22mila utenti in italia, Europa e nel mondo.

Quale storia laggiù attende la fine? “Chi sa parli”. Ottantuno persone morte in quell'aereo passeggeri dell'Itavia precipitato il 26 giugno del 1980 dai cieli sopra l'isola di Ustica. Gli esperti escludono che la causa sia stata una bomba a bordo. Forse, dicono, s'è trattato di un missile. Ma potrebbero essersi anche verificatesi delle forti turbolenze lungo la traiettoria di volo, causate da aerei militari in azione di guerra “coperta”. Il Dottor Sottile, che ha ormai la sua bella età, lancia una sfida a palle incatenate verso l'Eliseo, affinché il Presidente Macron prenda posizione, ammettendo oppure escludendo recisamente, in tutta chiarezza, l'eventuale coinvolgimento francese nella strage di Ustica.

 In vita mia Giuliano Amato io l'ho visto una sola volta, fatti salvi ovviamente i congressi socialisti di un tempo che fu, nei quali giocava l'inarrivabile ruolo di enfant prodige craxiano.

Poi l'ho visto da lontano, una sola volta, e solo per brevi istanti. Mi accadde, credo, nel 2011, quando tenne un discorso professorale all'Aula magna dell'Università di Zurigo. A differenza di Valdo Spini, Giuseppe Tamburrano, Giulio Polotti e tanti altri esponenti del vecchio PSI, Amato non ritenne di contattare i dirigenti del Centro Estero socialista. Lui forse nemmeno sapeva che esistesse un Centro Estero guidato, nel corso del tempo, da figure come Giacinto Menotti Serrati, Angelica Balabanoff, Ignazio Silone ed Ezio Canonica.

Eppure fu questa struttura a svolgere un ruolo decisivo, tanto nell'opposizione alla dittatura mussoliniana durante il famigerato Ventennio, quanto nell'organizzazione della resistenza armata contro il nazi-fascismo, quanto infine al lungo impegno di lotta, che continua, contro la xenofobia sin dai tempi in cui i “terroni”, gli “albanesi” e gli “africani” eravamo noi migranti.

Per altro, mi attardo su queste antichità polverose, ben sapendo che oggi l'espressione “Centro Estero” suscita in Italia felici sorrisi di compatimento tra i professionisti della politica e/o delle libere professioni, né certo soltanto tra quelli al seguito delle destre al Governo.

Ma torniamo alla visita zurighese di Giuliano Amato. Abbandonai quasi subito la sala. Forse fu per il suo notorio bigottismo d'opportunità. In fondo, nel 2000, da presidente del Consiglio, Amato si era detto rammaricato di non poter impedire il corteo del Gay Pride. Poi, nel 2007 si era schierato, da Ministro dell'Interno, contro la trascrizione di matrimoni gay celebrati all'estero.

Ricordo l'ampia sala gremita che pendeva dalle labbra del “Dottor Sottile”. Un nomignolo che gli era stato affibbiato per via della corporatura minuta, soprattutto se giustapposta al gigantismo anche grossolano del suo leader di riferimento, ai tempi in cui lavorava come segretario di gabinetto per un premier Craxi che somigliava all'orco delle fiabe, mentre lui stesso incarnava una genuina finezza cartesiana di pensieri, parole ed opere.

Scampò, unica anima pia in un covo di lestofanti, alla catastrofe della Prima Repubblica grazie ai suoi sillogismi conclusivi, ai suoi distinguo impedienti, per non dire degli impedimenti dirimenti al culmine trionfale totale di un latinorum davvero impagabile… qual perfettissimo Azzeccagarbugli!

E invece adesso eccotelo qua, patapunfete, Amato parla della Strage di Ustica, nessuna sottigliezza, zero sofismi, assenza totale di chiaroscuri da un trapassato imperfetto. Data la possibilità che un missile francese abbia abbattuto il DC9 italiano uccidendo le ottantuno persone a bordo, l'ex premier ha chiesto a Macron “di occuparsi della cosa”. Poi, tanto meglio se Parigi dimostrerà che ogni sospetto è infondato. Altrimenti Macron “deve chiedere scusa”, sostiene l'ex Dottor Sottile.     Una domanda che più rettilinea e più chiara di così non si può. Ma perché ora?! Lui dice di avere reputato necessario parlare dopo la morte di Andrea Purgatori, il grande giornalista che ci ha lasciati il 19 luglio scorso dopo breve e fulminante malattia.

Con Purgatori si era già occupato del Caso Ustica e forse i due intendevano ritornarci su, in modo mediato o immediato. Chissà.

Comunque sia: la domanda di verità sta lì – “ancora una volta per la prima volta” come dice Nietzsche – senza possibilità di fraintendimento. Adesso – o Francia o USA – chi sa qualcosa risponda con veridicità, se ne ha il coraggio.

Perché qualcuno, da qualche parte del mondo, in qualche cancelleria occidentale qualcosa dovrà pur sapere, come si può ben intuire dall'alzata di scudi seguita sui giornaloni un tanto a tassametro dopo le parole dell'ex premier italiano.     Insomma, per una volta il “Dottor Sottile” si è espresso senza sottigliezze dottoresche, senza peli sulla lingua, senza distinguo legulei o garbuglioni sillogistici, e per una volta che ha detto pane al pane e vino al vino, ecco a voi il gran vespaio, l'insurrezione firmaiòla degli opinionisti l'uno alla rincorsa dell'altro nello svelamento dello svelamento dello svelamento… della nuda verità latitante.     Non sta a questo giornaletto vetero-siloniano dare lezioni a nessuno e quindi il presente editoriale si conclude – come un amico poeta titolò le sue liriche: “senza niente”, sans rien, without nothing.

Ustica e la memoria storica italiana

La memoria storica di un popolo può essere di due tipi. C'è quella comune: che porta a ricordare, Collettivamente, lo stesso tipo di fatti. Ma c'è anche, anche se è molto più rara, quella condivisa; quella che porta la stragrande maggioranza della popolazione a vedere questi fatti allo stesso modo.
Ciò posto, quello che contraddistingue e rende più debole la nostra comunità nazionale è la mancanza sia dell'una che dell'altra. Che porta, tra l'altro, a rimettere automaticamente in discussione anche le “verità giudiziarie”. Che si tratti della morte di Moro o della strage di Bologna. Delle vicende di Mani pulite o dei tanti scandali annunciati con clamore e ben presto evaporati.

A creare questa situazione una serie di fattori strutturali tutti presenti nel caso di Ustica. La disponibilità o, se volete, la sudditanza psicologica di magistrati e politici nei confronti delle indicazioni o dei suggerimenti che vengono dall'alto; o, peggio ancora, trattandosi di un paese ad autonomia limitata, degli ambienti militari e politici rispetto ai vincoli della Nato e dei rapporti con i più importanti stati membri. Il giornalismo d'inchiesta ridotto a pratica eroica quanto solitaria. I vari archivi chiusi a studiosi e ricercatori, spesso per ragioni di puro potere, se non peggio. I pregiudizi o i depistaggi che bloccano per lungo tempo la ricerca della verità. E infine - non si insisterà mai abbastanza su questo punto - la totale mancanza di reazione che, dal caso Mattei a quello Regeni, ha caratterizzato l'atteggiamento di governi e istituzioni di fronte alle offese subite da stati esteri, direttamente o tramite i loro servizi.
Non sorprende, allora, che la bufera sollevati dall'intervista di Amato a Repubblica si sia limitata a interrogarsi criticamente sull'Autore e sulle sue motivazioni; senza tener conto della sua personalità dei suoi argomenti. Ora è proprio da questi che dobbiamo partire; per poi allargare il discorso ai socialisti e a quella particolare ricerca della verità che gli ha contraddistinti negli anni che hanno accompagnato la fine della prima repubblica.

Il Nostro non è secondo a nessuno nel capire e seguire il corso della storia e i processi politici così da adeguarvi le sue precedenti posizioni. Ma ciò non fa di lui un professionista a contratto e nemmeno un traditore da quattro soldi o un volgare voltagabbana mosso da interessi personali. Il suo modello non è Jago ma semmai Talleyrand: diversi, se non opposti i suoi punti di riferimento nel corso del tempo; uguale la sua visione del paese, dei suoi interessi di fondo e del suo ruolo nel mondo. In più, rispetto a questo modello, il senso del tragico, leggi la capacità di vedere i limiti e le insite debolezze di quella visione del mondo che egli stesso aveva contribuito a creare e di cui per lungo tempo ha mancato di contestare gli effetti.
Di qui il bisogno di parlare, di testimoniare “pro veritate”, fattosi crescente nel corso degli anni con l'approssimarsi del muro del definitivo silenzio.

In questo quadro le molteplici critiche mosse all'intervista e alla successiva replica - l'essere priva di pezze d'appoggio, l'errore fattuale sul ruolo di Craxi, l'essersi successivamente “rimangiato tutto”, l'attacco irresponsabile alla Nato e ai militari - mancano completamente il bersaglio. Vediamo perché. Cominciamo col dire che Amato non disponeva né poteva disporre di pezze d'appoggio, leggi di prove circostanziate a sostegno della sua “verità storica”. Perché, se le avesse avute e tenute nascoste, l'intervista di oggi sarebbe diventata un'autodenuncia a scoppio ritardato e l'appello a Macron un semplice e inutile artifizio retorico.

A confermare, per altro verso, questa verità, è proprio il già citato “errore fattuale”. Ovvio che Craxi, nel 1980 semplice segretario del partito, non era in grado di avvisare Gheddafi dei rischi che correva allora nel suo progettato viaggio a Varsavia. Resta però il fatto, ricordato, ancora su Repubblica, da Vento, consigliere diplomatico dello stesso Amato, quando era presidente del consiglio: Gheddafi in procinto, nel 1980, di recarsi a Varsavia è stato dissuaso proprio dai servizi segreti italiani, sulla base di informazioni di cui già allora disponevano.
E qui veniamo al pezzo mancante del nostro puzzle. Alla famosa intesa siglata dal colonnello Giovannoni con esponenti della resistenza palestinese. Da una parte un occhio di riguardo sulle loro attività sul territorio italiano; dall'altra la garanzia che questo sarebbe stato risparmiato da qualsiasi azione terroristica così come dai relativi preparativi. Un accordo considerato con orrore dai moralisti a costo zero e dagli atlantisti senza se e senza ma. Ma che ha funzionato alla perfezione sino a oggi e senza danneggiare nessuno: nessuno spazio per l'azione jihadista in territorio italiano; l'Italia stessa immune da attacchi terroristici da quasi cinquant'anni. Aggiungendo, e qui la verità storica prevale in modo decisivo su quella giudiziaria, che l'esistenza stessa di questo accordo, escludeva in partenza l'ipotesi di un attacco deliberato e contro un aereo civile italiano. Rimanendo, a questo punto, l'unica ipotesi possibile quella dell'errore materiale.

Ciò detto sui fondamentali, il successivo intervento di Amato ricalca e precisa i contenuti della prima (nessuna marcia indietro, dunque); sottolineando, semmai, con maggiore forza il valore etico e politico della ricerca della verità. Mentre l'accusa di attentato all'onore delle forze armate e ai valori dell'atlantismo fa semplicemente parte dell'armamentario ideologico a disposizione della destra al potere. Che, sia detto per inciso, la Meloni si è ben guardata dall'avallare. Nel nostro caso, dunque, gli elementi della verità storica sono tutti presenti. Dal depistaggio iniziale del “cedimento strutturale” (che determinò la liquidazione dell'Itavia), alla fola della bomba, fino alla mancata presa in considerazione di ciò che era assolutamente evidente: che, una volta scartata perché completamente arbitraria l'ipotesi della distruzione deliberata, rimaneva soltanto quella dell'errore.
Inutile, però farsi delle illusioni. Tra qualche giorno o tra qualche settimana, nessuno parlerà più dei passeggeri dell'Itavia e del loro bisogno di giustizia e soprattutto di verità. E per le ragioni che abbiamo ricordato all'inizio di questa nota.

Ci limitiamo quindi, in conclusione, ad aggiungerne un'altra. Il fatto che a bloccare la ricerca di verità condivise è stato anche, nel corso del tempo, l'uso strumentale di questa ricerca al servizio di pregiudizi ideologici o di interessi di partito o di gruppo. E basti pensare, a questo riguardo alle “stragi di stato”, alla “questione morale” e soprattutto all'interpretazione che della vicenda Moro darà il Pci, sino a portarlo, anni dopo, ad aderire, senza se e senza ma, alla controrivoluzione di Mani Pulite. Doveroso, allora, ricordare, in primo luogo a noi stessi, che il Psi si muoverà, anche a suo danno, in tutt'altra direzione. Che potremmo definire nel segno del revisionismo. O, più esattamente, di quella vera e propria rivoluzione culturale avviata all'indomani del Midas.

C'è qualcosa che unisce i vari elementi di questo percorso. Che si tratti del Vangelo socialista o del caso Tobagi. Di Ustica o del “governo dei tecnici e degli onesti”. Del pacifismo o della questione palestinese. Ed è la reazione istintiva e qualche volta fuori misura contro il falso. Leggi contro un sistema caratterizzato dalla non corrispondenza tra le parole e le cose.

Mani pulite sarà il coronamento di questo sistema. E il Psi, assieme al suo leader, ne uscirà distrutto. Ragione di più per ricordare agli immemori quelle lontane vicende.

Alberto Benzoni
Alberto Benzoni
Roberto Biscardini
Roberto Biscardini

Fuori del coro

Chi più chi meno, l'abbrivio di quasi tutti i comparenti nel confronto parte dall'incrocio di Amato. Se non vado errando, lo incrociai anch'io nel 1964, ai tempi del PSIUP. Poi perso di vista. Salvo ritrovarlo nel nuovo corso craxiano, in posizione di prestigio e di potere. Persona di intelligenza, ma, per me, non di elevato rating idealistico. E non solo perché, di fronte allo sprofondamento di Craxi e del Psi fece come le tre scimmiette.  Non aveva visto niente. Figurarsi! Le due volte che andai da Craxi al terzo piano in via del Corso 476 lo vidi uscire in maniche di camicia dal cesso condiviso. Un civil servant buono per tutte le stagioni. Ciò premesso, non capisco la ratio di questa uscita. O è andato giù di testa...o vuole riguadagnare visibilità...o si mette a disposizione di qualche nuovo committente. A parte il ruzzolone tematico-temporale dei fatti focalizzati, dico subito di non aver mai condiviso né il cinismo né le gesta di Craxi, servitori in quell'epoca di due forni. L'Occidente con cui era alleato (con tutto il portato conseguente percorso tattico) e il cosiddetto mondo arabo palestinese.  Con cui, come si sapeva da tempo e come rimbalza oggi, trescava nell'ombra. Tra l'altro, ho un episodio personale. Nei giorni dell'uccisione di Klinghofer da parte dei palestinesi, io ero in missione a Porto Carras in Grecia per un meeting dell'AISCAT, da dove stavo rientrando in aereo. Un ritardo nel volo da Atene fece scrivere ad un quotidiano che ero finito nel sequestro. Io ho interpretato il mio essere filoatlantico all'insegna della dignità di alleato, non di servo sciocco del senior partner. Ma se sei alleato nella Nato, non puoi proteggere i terroristi palestinesi, Arafat e avvertire Gheddafi. Questo scivolone di Craxi non gli fu mai perdonato né da parte dell'establishment Usa né soprattutto da parte di Israele, da sempre molto influencer dei circoli atlantici nordamericani.  Sarebbe stato accomunato nel destino iniziato nel 1994 ad altro degno compare, che pensò di essere diventato il deus ex machina della quarta sponda mediterranea.  Strana postura questa di parecchi "statisti" italiani da fine 800 in poi, innamorati del bel suol d'amore! Quanto alla massiccia scesa in campo, in questi giorni, di molti degli ex colonnelli di quel nuovo corso socialista non stupisce né la folta platea né lo speech non univoco. Quell'ognuno per sé sul terreno della rivisitazione ed interpretazione postuma di un segmento cruciale, la politica estera, del nuovo corso dà conferma, nel caso fosse ancora necessario, della persistenza (allora è dopo) di un sentiment collettivo dei colonnelli da se non proprio c'eravamo molto odiati certamente da c'eravamo poco amati. La coesione satrapica della leadership imponeva pochi svolazzi dialettici. Le differenze, su temi importanti come l'interpretazione delle prerogative delle alleanze internazionali, emergono postume.

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