Considerato l’argomento di prevalente attinenza artistico-culturale, ci concediamo, almeno nel titolo, un rimando incipitario senza dubbio pretenzioso.
Un titolo che potrebbe essere anche interrogativo di coda: molto rumore per nulla?
Lo sapremo nei prossimi giorni. Quando il primo cittadino cremonese incontrerà a Milano l’Assessore alla Cultura della Regione Lombardia in una sorta di tie-break per un confronto, che, in verità, non avrebbe bisogno d’altro.
Tema del rendez-vous, annunciato ad nauseam e talmente delibato da renderne quasi inutile la versione fisica: il (tentato) ratto dell' “ortolano”.
Che non sta per l’operosa e (dall’infausto clima estivo e dalle inique sanzioni putiniane) vessata categoria; bensì il capolavoro pittorico di Giuseppe Arcimboldo o Arcimboldi (Milano, 5 aprile 1526 – Milano, 11 luglio 1593).
Come recitano tutte le enciclopedie (a cominciare da quelle consultabili on line) si tratta di un artista che, nel suo tempo, assunse notorietà internazionale per la bizzarria dei suoi lavori. Con cui combinava al soggetto dell’opera elementi di genere connesso; come ortaggi, frutti, pesci, uccelli, e quant’altro fosse utile, come sostengono i critici e gli storici dell’arte, a “desublimare” il ritratto stesso.
Termine antinomico con cui si definisce la missione contraria alla sublimazione Evidentemente, anche a quei tempi non esattamente proclivi a libertà espressive (siamo esattamente nell’era aurea, sic, controriformista), qualcuno amava il genere, fatto di trompe-l'œil grotteschi.
Tra questi indubbiamente merita, nella parade arcimboldiana, un rilievo paradigmatico il Rodolfo II d'Asburgo, rappresentato dall’artista nelle vesti del dio romano Vertumno.
Vero è che, nell’epoca, l’Arcimboldo, con la sua tecnica pittorica un po’ così, finirà per ritagliarsi, de gustibus non est disputandum, un suo spazio e, si presume, le relative ricadute.
Sia come sia, le sue opere, considerate maggiori, sono esposte in gallerie piuttosto importanti: Museo del Louvre, Parigi; Kunsthistorisches Museum, Vienna; Real Academia de Bellas Artes de San Fernando, Madrid; Museo di Stoccolma; Národní galerie, Praga; Gabinetto disegni e Stampe degli Uffizi, Firenze; Gabinetto dei disegni e delle stampe di Palazzo Rosso, Genova.
Nella distinta dei maggiori musei custodi dell’antologia arcimboldiana, appare anche il Museo Civico "Ala Ponzone" di Cremona con il suo olio su tavola conosciuto come Ortaggi in una ciotola ovvero L'ortolano.
Abbiamo così fornito il back-stage di quel meta-tormentone di fine estate che arrischia di diventare il confronto tra gli autori (l’”ambasciatore artistico” di Expo 2015 e l’establishment regionale) del tentato ratto dell' “ortolano” ed il vertice comunale (per esso, nella duplice veste, il Sindaco-Assessore alla Cultura.
Per casualità empatica, il caso di Cremona è finito, sia pure lateralmente, nel cono di luce delle querimonie originate dalle resistenze opposte dalla Calabria al transfert dei ben più celebri “bronzi di Riace” alla corte meneghina del già detto “ambasciatore” (sulle cui predisposizioni “diplomatiche” l’establishment lombardo avrebbe, prima dell’ingaggio, fatto bene a riflettere; vista l’attitudine, al di là delle competenze scientifiche, ad emulare i gesti del classico elefante nel negozio di cristallerie).
Cremona si è dovuta accontentare di un (malaccorto) titolo del Corriere Gian Giacomo Schiavi “Cremona nega Arcimboldo - È l’Expo dei campanilismi“; una firma normalmente equilibrata, che, però, nella fattispecie non ha rinunciato al facile ricorso alla banalità.
Per il vero, il giovane Sindaco, assurto al soglio nonostante fuori-rosa per la casta king-maker (ma, per supposta fragilità/inesperienza, considerato permeabile a trattamenti, sic, subliminali), s’è beccato l’intemerata domenicale del quotidiano locale ed indipendente.
Difficile imbattersi in un editorialista così calato, secondo i canoni di Stanislawski, nella parte di mediatore culturale (tra cittadinanza ed establishment istituzionale) da suggerire che: “Vittorio Sgarbi ha ragione nel dire che solo Firenze, Venezia e Torino, oltre che Milano, beneficeranno del flusso dei 20 milioni di visitatori attesi”.
Per raggiungere, immemore della parte avuta, in aderenza ai principi anglosassoni dell’informazione, “intanto la Giunta Galimberti seguita a ratificare decisioni sbagliate prese dai predecessori” (subito smentito, in proposito, dal “predecessore”).
Indubbiamente, è andata meglio alla Calabria: che ha visto intervenire, a difesa delle sue prerogative, addirittura il premier Matteo Renzi.
A cospetto di così autorevole endorsement (da non pochi valutato come uno spottone pre-elettorale) ci si dovrebbe risolvere a considerare la partita defintivamente chiusa (con qualche possibilità di influenza sull’analoga querelle interessante Cremona?).
Già! I bronzi di Riace sono i bronzi di Riace e, per di più, stanno ad un migliaio di Kilometri dalla sede dell’Expo.
Al confronto, il nostro meschinello ortolano sembra il prototipo di bersaglio per la compagnia di tiro che si sta esercitando nell’arte di spianare tutto ciò e tutti coloro che ostacolano la maggiore gloria della rassegna mondiale nella versione milano-centrica.
Ora non faremo mancare alle nostre considerazioni qualche utile richiamo al profilo dell’esposizione (come si sarebbe detto un tempo) universale.
Si tratta di un evento di nuova concezione. Come sostengono gli organizzatori: tematico, sostenibile, tecnologico e incentrato sul visitatore. Si svolgerà a Milano dal 1 maggio al 31 ottobre 2015; quindi, per 184 giorni di evento e con oltre 130 paesi partecipanti,
Se volessimo azzardare una valutazione sia sulla scelta di Milano sia sulla fattibilità del progetto, in rapporto agli scenari generali poco fecondi, sia sulla quasi totale caduta della spinta propulsiva dell’Italia, oseremmo affermare che si tratta di un miracolo.
Che incorpora, già nel tema Nutrire il Pianeta, Energia per la Vita, una chance aggiuntiva.
Diciamolo pure: con i chiari di luna della recessione e della drammatica perdita di competitività del settore manifatturiero all’Italia non è restato molto.
Non siamo proprio al mare, sole e mandolino, ma…
Puntare alle nostre eccellenze alimentari, possibilmente presentate dentro una cornice stilistica scevra da cadute mercantilistiche (venghino, signori!), è quanto ci terrebbe un po’ lontani dalla canna del gas.
Offrire per sei mesi alla platea mondiale questa cultura esistenziale sul palcoscenico dell’Expo costituisce un miracolo che neanche Medjugorie.
Aggiungasi che il paese ospitante ed organizzatore detiene, oltre al già detto primato della qualità alimentare, anche un’altra importantissima prerogativa di cui appresso diciamo.
L’Expo è stato, bongré malgré, il detonatore di molte riflessioni. La prima indubbiamente riguarda la piena consapevolezza di essere, come Italia, detentori-custodi di qualcosa come un terzo o addirittura la metà del patrimonio architettonico, monumentale, culturale ed artistico del pianeta (di cui un cospicua parte in Lombardia). Tale consapevolezza ne sottende un’altra: responsabilità, doveri di conservazione e di valorizzazione, oneri (ma anche aspettative di ritorni).
Ma per esercitare tale consapevolezza bisognerebbe essere capaci di fare sistema; cioè, anziché affondare la mannaia della spending review nel corpaccione del sapere e dei beni culturali (creano spesa improduttiva, si dice!), persuaderci dei nostri doveri e delle eccezionali opportunità. E, soprattutto, stare sul pezzo.
La quasi raggiunta irrilevanza nei settori trainanti ci costringerà a farlo.
L’Expo ne costituisce il primo banco di prova.
Quando parliamo della capacità di fare sistema, ci riferiamo, innanzitutto, alla condivisione del principio di appartenenza al sistema, che nessuno esclude e tutti incorpora. Di cui è precondizione una grande riforma della cultura.
Sotto tale punto di vista, non possiamo affermare che le mosse propedeutiche del vagone di testa degli organizzatori siano ispirate da un impulso inclusivo.
Sembra prevalere, infatti, quell’imprinting, che, praticamente dagli esordi del 1970, ha fatto della Regione Lombardia un’entità, come e più dello Stato, pervicacemente legata ad un’incoercibile visione milano-centrica (con qualche concessione, nel tempo, alle prerogative di aree forti economicamente ed aree forti politicamente).
All’inizio degli anni 70, i padri fondatori regionali si degnavano, almeno, di venire sul territorio ad incontrare le istituzioni locali, per parlare di riequilibrio territoriale, di infrastrutturazione compensativa, di navigabilità interna, di questione padana.
Le fasi successive avrebbero riservato solo delusioni: criteri penalizzanti di destinazione delle risorse regionali, eradicazione dalla governance dei servizi socio-sanitari di qualsiasi ruolo territoriale, obsolescenza (ai limiti dello scandalo) della trasportistica ferroviaria, blocco di qualsiasi progetto strategico che preludesse a qualche valorizzazione dell’agro-alimentare come delle grandi potenzialità dell’asse padano.
In compenso, i suoli (di quella che dovrebbe essere considerata dai tempi di Jacini la provincia con pari rating di qualità di prodotti e di innovazione nel contesto europeo) concepiti come una sorta di valvola di sfogo: per infrastrutture di utilità tutta da dimostrare; per cave cosiddette di prestito (a servizio delle realizzazioni infrastrutturali di altri territori) e per stoccare ogni tipo di rifiuto, specie se tossico nocivo.
Anche da questo storico di considerazioni si dovrebbe partire prima di mettere a punto una risposta alla pretesa di avocare, alla corte artistica di Sgarbi, l’Ortolano di Arcimboldo.
Se la nostra mente ed i nostri sentimenti non integrassero le consapevolezze appena visitate e se la richiesta fosse stata espressa con buona grazia e con qualche impegno di compensazione, si sarebbe potuto glissare su un nuovo episodio di spoliazione.
No, invece! Si sono fatti entrare in campo l’arroganza ed il dileggio!
Ma c’è un’ulteriore circostanza che rafforza simbolicamente le ragioni che militano a favore della valorizzazione dell’Arcimboldo (s’intende a Cremona!).
La mascotte di Expo Milano 2015, Foody, è frutto di una geniale intuizione di grafica moderna che fa premio sulla lezione di Arcimboldo. Il Volto è la risultante dell’assemblaggio dei personaggi che esprimono con forte carica simbolica l’afflato comunitario cui si ispira la manifestazione (Guagliò - L'aglio, Arabella - L'arancia, Josephine - La banana, Gury - L'anguria, Pomina - La mela, Max Mais - Il mais blu, Manghy - Il mango, Rodolfo - Il fico, Piera - La pera, Rap Brothers - I rapanelli, Chicca - La melagrana).
Una reviviscenza dell’Ortolano!
Il suo rimando a quello di mezzo millennio fa potrebbe essere percepibile anche (soprattutto!) nella sua sede naturale; in modo da esaltare, unitamente alla peculiarità della vocazione agroalimentare, pure il non irrilevante patrimonio di città del violino e della musica.
La Lombardia, una regione grande ma non sterminata, caratterizzata da un territorio urbanisticamente “diffuso”, non può immiserire il progetto di esposizione in una visione centralistica. Expo ha bisogno di tutte le risorse umane, di tutte le intelligenze, di tutte le ricchezze monumentali ed artistiche appartenenti a tutta la regione; a condizione che tutto ciò resti nella sua specificità.
Concentrare sulla sola Milano (che solo qualche secolo fa era, in termini di popolazione, civiltà, cultura, arte, un nostro quasi pari-grado) la prerogativa del red carpet, da un lato, suonerebbe come un spot per i visitatori a non uscire dall’area metropolitana e, dall’altro, immiserirebbe la percezione dell’eccezionale dotazione del patrimonio da mettere in vetrina e da indicare, affinché i visitatori tornino, a futura memoria.
Cremona vanta un patrimonio che, negli ultimissimi tempi, è stato incrementato dal gesto di un eccezionale filantropo e mecenate concittadino; che, non solo l’ha arricchito, ma ne ha cambiato la cifra identificativa nello scenario mondiale.
Ne sono avvertiti i protagonisti regionali, che avrebbero più di un motivo per investire nella sinergia tra gli eventi di contorno e la potenzialità dell’appeal della città della musica e del violino sui turisti colti?
Ne dubitiamo fortemente. Ed allora, come suggerirebbe il compagno Lenin, che fare?
Affrontare l’agenda di Expo 2015 a prescindere. A prescindere dalla conclusione del tentativo di ratto. A prescindere dall’ammorbidimento del rigore centralistico. A prescindere dalle non pari opportunità.
Avverse condizioni, cui si oppongono almeno due circostanze: la consapevolezza dei nostri gioielli di famiglia e la distanza relativamente breve dall’epicentro espositivo.
Dopo di che, in una motivata visone auto-gestionaria, tutti a remi!
Senza, ovviamente, piangersi addosso e recriminare. Qui si parrà la nostra virtù.
I suggerimenti li teniamo nella penna.
Segnaliamo un primo spunto, apparso nel dibattito in corso.
Il consigliere comunale Carletti ha suggerito: “Come non pensare, ad esempio, ad una mostra a Cremona incentrata su dipinti che abbiano come protagonista l’agroalimentare proprio partendo dall’ortolano dell’Arcimboldo?
Sarebbe un’idea per attirare a Cremona visitatori e un passo per certificare il percorso che deve compiere Cremona per diventare la vera capitale dell’agroalimentare.”
Stessa ansia propositiva si è colta nelle recenti riflessioni del direttore del settimanale Mondo Padano.
Ma, per un buon livello di fattibilità, del progetto, che potremmo definire Expo 2015 (anche a Cremona), occorre guardarci, animati da pensiero critico, un po’ intorno.
Ottima l’idea di animazione di Corso Garibaldi! Ma ci fermiamo lì? E le altre dorsali cittadine? La Piazzetta Filodrammatici?
Sono presentabili le facciate dei palazzi del centro fagocitate da un persistente, invasivo ed ormai intollerabile fenomeno graffitaro (giunto sino al gioiello appena donato, che dovrebbe costituire l’epicentro dell’offerta cremonese)?
E col verde, l’abusivismo, la sicurezza del cittadino, come siamo messi?
Procedendo: abbiamo fatto e/o stiamo facendo proprio tutto per mettere in sinergia le notevoli potenzialità della diffusa rete di produzione artistico-culturale cremonese?
Insomma, valutiamo, nella situazione data, Cremona “in ordine”, cioè degna di essere offerta ad una platea di visitatori esterni, magari dall’occhio meno assuefatto del nostro alle indecorose lordure?
Pensiamo, infine, di coinvolgere nella mission, oltre che le categorie terziarie, anche la cittadinanza?
Già, la cittadinanza! Andate in questi giorni a Mantova, per vedere come la si coinvolge in una rassegna di grande richiamo e, tutto sommato, di basso costo.
Ultimo, ma non ultimo: la condivisione comunitaria, abbiamo appena sostenuto, è essenziale, ma non sufficiente.
Occorrono i mezzi, che scarseggiano. Il Comune, anche in considerazione del rivolgimento istituzionale alle viste per l’ente intermedio, faccia da capofila per tutto il territorio. Solleciti le categorie, l’associazionismo, i singoli a mettersi a disposizione, a donare.
C’era riuscito (con metodi né auspicabili né replicabili) il puzzone ottant’anni fa (con la paradossale campagna di “donazione” delle fedi nuziali).
Quando ci sono buone cause civili per la comunità ed il convento è povero, non è né anacronistico né indecoroso chiedere ai cittadini (che possono) di attingere alle sostanze private.
Diversamente, sarebbe un bel “much ado about nothing” (ma con l’!)