Del teorema e del suo autore, per quanto possa sembrare paradossale, diremo qualcosa alla fine. L’incipit del pezzo, con cui L’Eco del Popolo, dopo una breve pausa estiva nella regolarità delle uscite (les heros sont fatigués e, come i lettori, si ritemprano), riprende le pubblicazioni su Welfareonline, è molto più prosaico della suggestione ispirata dal dotto richiamo, che fa da titolo.
Lo ammetto, a quasi settant’anni, e dopo più di mezzo secolo di indefessa attività pubblicistica, sono caduto, mio malgrado e nonostante intenti incrollabili, nei perversi meccanismi della disfida. Mi riferisco a quella giocata, fortunatamente, solo sulle pagine del beneamato quotidiano locale – rubrica “Spazio Aperto”. Tra gli epigoni degli splendori del ventennio (fascista, s’intende) e coloro che, situati, sul fronte opposto, non resistono (o forse non attendono altro) alla tentazione di controbattere alle provocazioni delle “ultime raffiche” (dialettiche) di quelli che furono (ed, a dispetto della veneranda età, che pure indurrebbe a più sereni bilanci esistenziali e ad altre opere, sono rimasti) i mussolini-jugend.
Quella leva ingaggiata poco a ridosso, appunto, del Mussolini ultimo atto.
Si tratta, invariabilmente, delle temerarie esternazioni di non più di due o tre habitués. La cui verve memorialistica, tanto coriacea alle evidenze dei fatti quanto incurante dell’azione della clessidra, è andata a noia.
Orbene, dopo aver ribadito che a tutto avrei pensato tranne che alla remota eventualità di un assolutamente improbabile accesso alla rubrica anzidetta (soprattutto, per tener testa a quegli irriducibili nostalgici), sono stato tirato in ballo. Per di più, con modalità che difficilmente potevano contemplare l’eventualità di spallucce od incomprensioni.
Per quasi un mese mi è sembrato di avere sopra la testa la dispettosa nuvola di Fantozzi, didascalia del crescente disagio prodotto, da un lato, dall’inconsistenza del proposito di scansare i gorghi di querelles (tanto interminabili quanto sterili), e, dall’altro, (alla vigilia del ventesimo anniversario della scomparsa di Emilio Zanoni) da quella gratuita entrata a gamba tesa. Quasi sicuramente congegnata per canzonare, nella ricorrenza, l’attendibilità della ricerca confluita nel volume “Il socialismo di Patecchio”.
Soprattutto, nella significativa parte, dedicata al “contributo del socialismo cremonese alla Resistenza”; in cui uno tra i più autorevoli esponenti socialisti cremonesi del secondo-dopoguerra, ricordato e commemorato, ha avuto un ruolo centrale.
Mi sembrava di risentirli, i goliardici frizzi e lazzi, più volte uditi (e, con fair play contro-sfottuti in diretta, nelle more di interminabili sedute del Consiglio Comunale) riecheggiati nelle esternazioni di uno dei massimi cantori delle mirabilia del regime e del mi spezzo ma non mi piego. Non mi piego sia nel non tradire i valorosi camerati tedeschi sia nel restare fedelmente aderente al motto “non restaurare, non rinnegare”. Con cui dalle ceneri dell’ignominiosa sconfitta sarebbe risorta (o quanto meno avrebbe tentato) la fenice di un pensiero e di un movimento tra i più nefasti per il nostro Paese. Ed, essendo stato clonato in altri contesti nazionali, per l’Europa.
La doppia negazione, nucleo ispiratore, rappresentò, sin dall’esordio, un espediente quanto meno ossimorico. Teso ad ammiccare ai malintenzionati del potenziale bacino di raccolta, da un lato, e ad incardinare, comunque, nella situazione data, il progetto (si sarebbe poi visto come nel prosieguo) rifondativo.
La prima (“non restaurare”) era inequivocabilmente indirizzata, specie in presenza del divieto di apologia e di ricostruzione del fascismo (XII disposizione transitoria e finale della Costituzione), ad un intento di rassicurazione verso i cosiddetti moderati e l’establishment (tra cui la cathedra pacelliana d’Oltretevere, molto interessata al ripristino di un ordinamento autoritario senza i fascisti).
Ma che la strategia e la tattica degli epigoni del “puzzone”, tolto di mezzo a Dongo, mal celassero, in capo a tale ripudio, quantomeno qualche propensione ad eterogenesi dei fini, è facile dedurre dalle tracce lasciate in oltre mezzo secolo di testimonianza.
Fatta, soprattutto, di tenebrosità e di sistematici inserimenti in tutti gli interstizi dello spesso difficile cammino della liberal-democrazia, incardinata dalla Repubblica e dalla Costituzione.
Come è impossibile contabilizzare le violazioni della Legge Scelba n. 645/1952 e della successiva Legge Mancino La legge 25 giugno 1993, n. 205, così sono stati innumerevoli le circostanze, in cui il neofascismo italiano si è posto al centro (o ha comunque svolto un ruolo sussidiario) di quasi tutte le azioni di sfibramento della tenuta democratica.
Molto meno complicato e più coerente e fattuale si appalesò il “non rinnegare”.
Un imperativo questo, imposto oltre che dall’impulso a far gonfiare orgogliosamente il petto di coloro cui vent’anni (di autoritarismo, di totalitarismo, di persecuzioni e omicidi politici, di leggi razziali, di guerre di aggressione, di alleanza con il nazismo) non erano bastati, anche dalla consapevolezza di approntare le contromisure alle conseguenze del quadro.
Affrontate con una serie di provvedimenti di clemenza (vanificazione delle epurazioni, degli arresti e dei processi, amnistia), con cui i due maggior players del nuovo scenario (De Gasperi e Togliatti) tendevano sì ad una feconda stabilizzazione/normalizzazione, ma anche a togliere acqua al bacino dei molti, soprattutto giovani, che, oggetto di un indottrinamento ossessivo, avevano fideisticamente aderito (a tutto!).
Separata dal nobile proposito di “pacificazione”, la strategia politica, ispirata dalle (in ciò sinergiche), leaderships dei due maggiori partiti, dimostrava di essere ben consapevole della tipica cifra italiana. Notoriamente, vocata all’inerzialità ed al conformismo, ogniqualvolta si trattasse, all’insegna della continuità (come suggerisce il bel saggio di Sabino Cassese, intitolato “Lo Stato fascista”) di affrontare i cosiddetti snodi. Il tandem De Gasperi/Togliatti (a dispetto della reciproca incompatibilità, spesso di facciata e a beneficio delle contrapposte masse, e della minaccia di Ercoli di usare gli scarponi chiodati da montagna per prendere a calci il sedere dell’austriaco cancelliere) puntava a garantire, pur in aderenza al nuovo scenario liberaldemocratico e repubblicano, la continuità (attraverso un massiccio riciclaggio anche delle situazioni più compromesse col passato regime) della macchina burocratica. E a metabolizzare, a scopo politico-elettorale e di funzionalità economico-sociale del sistema in ricostruzione, le schiere giovanili. Che, pur sfoltite dalla guerra e disilluse (dalla presa d’atto dell’irreparabilità della disfatta e, con essa, dello scoppio della bolla di propaganda e di indottrinamento) non andavano regalate al potenzialmente vasto bacino degli indomiti sconfitti. D’altro lato, se avevano creduto così a lungo alle panzane dei destini di Roma, della faccetta nera, del valoroso camerata nazista, avrebbero creduto anche nuove narrazioni mirabolanti.
Fu così che, secondo i meccanismi inerziali, così ben descritti da Cassese per quanto si riferisce all’ordinamento, la continuità si sarebbe dimostrata anche nei comportamenti individuali e collettivi. Sovente, come abbiamo anticipato, sull’onda conformistica.
Buona parte della struttura burocratica dell’ex sindacato fascista (temporaneamente commissariato) si sarebbe trasferita (sostenendo l’originale, pregresso contributo nella formulazione della Carta del Lavoro e nella transizione alla socializzazione dei beni di produzione) nelle nuove libere organizzazioni dei lavoratori. Mentre le stars del cinema, del giornalismo, della radio, vezzeggiate e sussidiate per vent’anni dai gerarchi “liberal”, sarebbero approdate, dopo le ovvie autocritiche reclamanti l’attenuazione giustificata dalla giovane età e dall’ingannevole indottrinamento operato dal regime, ai nuovi scenari. Mantenendo, quando non migliorando le posizioni precedenti.
Messo così, il “non rinnegare”, più che un’orgogliosa dichiarazione di coerenza e di fedeltà, diventava la didascalia, con cui arginare (o almeno tentare di arginare) la slavina destinata a travolgere le schiere di quegli epigoni che avessero nutrito il proposito di una rifondazione, sic et simpliciter, del passato regime.
Insomma, un bel combinato, quello slogan del segretario neomissino De Marsanich. Che tendeva innanzitutto a collocare, nel nuovo contesto, le residue possibilità di reviviscenza del travolto fascismo nell’amor proprio dei giovani sconfitti, ma recalcitranti a prenderne atto. Anzi quella sconfitta, per coloro che nel 1944 si erano arruolati nelle brigate nere della RSI “per riparare al disonore di aver cambiato alleato, la Germania nazista, nel corso della guerra”, doveva diventare nella loro percezione e, soprattutto, negli stilemi della post-gerarchia, il focus della nuova missione.
Un proposito, diciamo, molto controindicato, quello di esorcizzare l’abominio del cambio di alleanze militari; se si considerano i proverbiali precedenti nell’approccio mentale e pratico degli italiani con i doveri derivanti dalla partecipazione ai conflitti armati.
Con una buona dose di beffardo sciovinismo Churchill avrebbe, d’altro lato, sentenziato che ““Gli italiani perdono le partite di calcio come se fossero guerre e perdono le guerre come se fossero partite di calcio.”; in aggiunta alla taccia di non finire mai le guerre con lo stesso alleato con cui le cominciano.
L’ovvio contrario del non rinnegare è l’azione del rinnegare. Che, i discepoli della fedeltà fino alla “bella morte”, cercata contro il nemico demo-plutocratico, e, soprattutto, contro il traditore (della patria) partigiano, rivolgono da subito, non solo al popolo dello sciogliete le righe e del “tutti a casa”, ma, tendenzialmente, a tutti coloro, che, alla resa dei conti, avrebbero rifuggito la bella morte. Per, subito dopo, uniformarsi ed integrarsi nei nuovi scenari.
Ai primi posti della mission dei neofascisti viene collocata, ça va sans dire, l’azione di smascheramento dei “traditori”. In ciò fortemente assistiti dagli organi di stampa di impronta scandalistica, foraggiata dai poteri forti, rimasti refrattari al nuovo corso politico e più che mai intenzionati a favorire la remuntada delle residue sacche di ostilità alla Repubblica (democratica, s’intende!).
L’immagine del povero para repubblichino, finito sul lastrico per non aver rinnegato il giuramento e l’alleato, è quanto meno una falsa vulgata auto-apologetica. In realtà, molte delle ultime raffiche di Salò avrebbero ingrossato le fila di operatori di incerta qualificazione (incerta tranne per il fatto che usciranno dall’ombra e dall’anonimato ogni qualvolta verranno in emersione trame, depistaggi, tentativi sediziosi, attentati, azioni di appoggio a qualsiasi regime liberticida).
Non tutti, i non rinnegati, saranno impegnati nei lavori sporchi. Molti praticheranno la testimonianza “civile”, ben protetta dai poteri forti della finanza, dell’industria, dell’informazione. Più che mai propensa a favorire una deterrenza verso il progressivo rafforzamento degli istituti democratici e della prospettiva dei più avanzati equilibri sociali incardinati dalla Liberazione.
Queste considerazioni mi riaffiorano nella mente ogniqualvolta incrocio, mio malgrado, il “contributo” di quegli ormai fortunatamente pochi, che ancora non si sono accorti di aver perso irrimediabilmente la partita e conto delle conseguenze insite nella malaugurata ipotesi che l’avessero vinta.
Ma, come tutte le guerre civili, quella del 43-45, avrebbe trascinato dietro di sé uno sciame di vendette, di storie private confuse a storie pubbliche, di propositi revanscisti, di recriminazioni sui torti e, soprattutto, sulle efferatezze perpetrate dai vincitori. Circostanza singolare questa, se si considera che quella guerra, pur civile (perché combattuta, sia pure a supporto dell’occupante nazista, da una parte, e degli alleati liberatori, dall’altra) guerra era e, come tale, si giocava con le modalità del conflitto armato.
E se si pone mente alla circostanza che, le viole mammole, impegnate nella recriminazione e nel piagnucolamento all’indirizzo dell’applicazione della giustizia di guerra verso coloro che si erano macchiati di condotte e delitti particolarmente odiosi, si erano applicati per vent’anni a sistematica violenza. Cominciata, ancor prima dell’omologazione del regime, attraverso la punzonatura del nuovo corso impressa dal paradigmatico delitto Matteotti.
Con cui, specie attraverso la solenne assunzione di responsabilità del duce, il fascismo aveva voluto ufficializzare la soppressione violenta degli antagonisti, come strumento legale del nuovo regime, autoritario e totalitario.
Ne sarebbe discesa una prassi costante di violazione dei più elementari diritti civili ed umani; fatta di delitti, di coercizioni, di incarcerazioni, di vessazioni. Cui si sarebbero applicate tutta gerarchia e la mastodontica e diffusa struttura del regime.
La cui azione, specie a partire dalla consapevolezza dall’irreversibile prospettiva della sconfitta militare e del tracollo del regime, si sarebbe contraddistinta per particolare disumanità.
Sono nato nell’anno in cui i fatti descritti erano volti verso un provvidenziale epilogo. Ma è come se li avessi vissuti lo stesso. Come avviene per quasi tutti gli eventi che, pur non vissuti in diretta, ti si conficcano, attraverso la tradizione orale e le sensazioni, nel cuore e nella mente.
Filtrare il senso di quei comportamenti, impiegando le categorie interpretative di oggi apparirebbe, comunque, improponibile ed incongruo.
Scolasticamente, mi sentirei di azzardare, ma oggi!, che la superiorità della causa della pace, della democrazia e della libertà, rappresentata dall’antifascismo e dalla Resistenza, avrebbe potuto, in un impulso di megalopsychia, anche non avvalersi del rigore stremo della giustizia di guerra. A parte, ovviamente, l’esemplarità di ineludibili sanzioni applicate alle fattispecie didascaliche.
Di sicuro, allora ed oggi, non avrei giustificato e non giustificherei rivalse, che, pur motivate dalle ferite ancora sanguinanti prodotte da vent’anni di soperchierie e da due anni di guerra civile con il portato di diffusa crudeltà, avessero avuto, come reale motivazione regolamenti di conti di incerta (quando non confessabile) natura.
In tal modo si erano comportati i fascisti, dall’insediamento del regime e per tutto il ventennio. I resistenti ed i liberatori (parliamo non già dei vertici rappresentativi, ma della periferia) avrebbero potuto testimoniare la superiorità dei principi e dei valori di cui erano portatori. Non attraverso una sistematica e generalizzata clemenza, bensì con una rigorosa selezione dei propri comportamenti non giustificati ed eccessivi.
Veniamo, ora, a quello che, nei tornanti della testimonianza del “non restaurare, non rinnegare” giocata prevalentemente sul negazionismo e sul revisionismo, era da tempo diventato e resta tuttora il tormentone della narrazione e della scrittura della storia, prerogativa del “vincitore”.
Il mio non cercato interlocutore (Fedeli, nomen omen) denuncia l’improntitudine nel diffondere le panzane sul “ventennio” e le menzogne a favore della resistenza.
Se, conoscendolo, da tempo e bene, posso comprendere la sua nostalgia per quel sedimento di fotogrammi (come in Nuovo Cinema Paradiso) di salti nei cerchi di fuoco, di fierezza per la divisa dell’Accademia, di sospiri per la faccetta nera, per gli inni, le liturgie, le immarcescibili certezze nei destini, esaltati dalle percezioni giovanili e scanditi dalle parate e dalle cronache stentoree della “voce” di Guido Notari, non posso non controbattere l’assurdità del perno scientifico della recriminazione. Per l’assenza di presupposti fattuali. Con me, poi, con il refrain della menzogna storica, casca male.
Non perché, nel ricostruire le vicende storiche del fascismo e dell’antifascismo a Cremona, abbia fatto sconti ispirati da velleità revisionistiche.
La contrapposizione fascismo/antifascismo è, per la premessa fatta sulle certezze che ti entrano nel cuore (se sei stato testimone od almeno hai percepito quasi in diretta), uno spartiacque nei principi, nei valori, nei sentimenti. Destinati a guidare la testimonianza civile negli scenari successivi.
La sincerità di un combattente non può riscattare una causa sbagliata. La storia è storia; anche rispetto alla corretta distinzione tra formulati della ricerca scientifica e valore soggettivo ed individuale della memoria (storia e memoria sono, infatti, entità non certo contrapposte, ma nient’affatto sovrapponibili)
Una delle ragioni per cui chi conosce la Resistenza pensa che essa sia stata fondamentale per la nostra democrazia è che essa non fu concessa a malincuore da un sovrano. Ma guadagnata con fatica e sangue da una generazione di italiani.
Cosa sarebbe stato dell’Italia, dell’Europa, del mondo, se le forze (che giudico) del bene fossero state sopraffatte, militarmente e moralmente dal RoBerTo (come cinematograficamente avrebbe ridicolizzato il concittadino Tognazzi)?
Dalla conclusione di una fase terribile, fortunatamente, sarebbe scaturito un contesto di pace, di stabilità, di progresso, di giustizia, di democrazia, durato settant’anni.
Solo splendori od anche ombre? Se, con Churchill, affermiamo che la democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle altre forme che si sono sperimentate finora, allora dobbiamo essere consapevoli anche dei suoi limiti.
Siamo una società prigioniera del passato. Manteniamo lo sguardo rivolto all’indietro, siamo ostaggio delle stesse contrapposizioni.
Interrogarsi sulle maggiori ferite della nostra storia contemporanea è indispensabile per il percorso che ha come traguardo la condivisione delle basi fondanti del presente e del futuro della comunità nazionale.
L’Italia (azzardo, il mondo), che guarda al futuro, ha bisogno di una storia condivisa (prerogativa caratteristica di altri paesi europei, la cui storia, come e più della nostra, ha diviso).
Siamo immersi in una temperie complessa e critica, in cui si saldano passaggi epocali alle inconsapevolezze di una politica inadeguata. Nel pensiero e nell’azione.
Le nostre società sembrano vuote, sfibrate, incapaci, nella presunzione che non ne valga la pena, di accettare la sfida posta dai cambiamenti.
Il combinato tra la rarefazione della consistenza dell’etica civile e l’assuefazione ai traumi, alle “discontinuità”, al ripiegamento nel proprio particolare, svuota la democrazia e la libertà e rende, alla distanza, sempre più vulnerabile il sistema per il quale, settant’anni fa, un’Italia, umiliata da una guerra assurda e da vent’anni di dittatura, si batté e vinse.
Di ciò, non solo la testimonianza dell’antifascismo e della Resistenza (se non altro nel settantesimo della Liberazione e nel 72° di quell’8 settembre che ne costituì lo snodo) deve essere consapevole e preoccupata.
Non certo delle intemerate nostalgiche degli avanguardisti giunti al crepuscolo!
Ed, ancora indulgendo ad una certa rivisitazione intimistica non mi è difficile ricordare i primi approcci all’insegnamento di Primo Levi “Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario”.
Cinquant’anni fa, proprio in occasione del ventennale della Liberazione, celebrato con grande impegno delle organizzazioni partigiane, dei movimenti politici, delle istituzioni locali, mi misurai con il confronto aperto, tra le opposte sensibilità e testimonianze, da educatori lungimiranti e coraggiosi, come il preside Bosco e quelli che sarebbero diventati i suoi successori, il prof. Giuseppe Casella (che era stato Provveditore agli Studi nei giorni immediatamente successivi all’insurrezione) ed il prof. Enrico Maffezzoni.
Questi educatori, propugnatori ante litteram di una scuola palestra di democrazia, fornirono a quelle giovani generazioni l’opportunità e gli strumenti teorici per un confronto e per un percorso di condivisione dei valori fondanti dell’Italia Repubblicana.
L’irriducibilità del contrasto coi novantenni balilla di oggi era allora propugnata dai giovani virgulti del neofascismo, trasmesso dai cattivi maestri di un impossibile ritorno al passato.
Nelle meno inquietante delle ipotesi si trattava di una testimonianza ispirata da ragioni di "difesa elogiativa". Che risultava difficile discernere dall’apologia e, salendo, dal più grave proposito di ricostruzione del partito fascista.
La destra neofascista cremonese era, a quei tempi, massicciamente insediata, oltre che nei depositi post-farinacciani, nelle nuove generazioni studentesche. Disponeva di efficaci strumenti e mezzi di mobilitazione e di organizzazione (la Giovane Italia, il Fronte della Gioventù, del Circolo e del giornale Il Mappamondo). Era in grado di professare un progetto politico generalista, come di mobilitazione tematiche.
Si era distinta in occasione della vasta protesta per i fatti di Budapest. Avrebbe replicato, più massicciamente cinque anni dopo in occasione degli attentati dinamitardi in Alto Adige; allo scopo di concorrere ad una pressione per una mano pesante repressiva da parte del governo, ma anche per intercettare occasionali adesioni di scopo, suscettibili di sfociare nella militanza fidelizzata.
Molte di quelle testimonianze giovanili sarebbero, nel prosieguo, dileguate come neve al sole. Altre si sarebbero consolidate; fino a circoli propugnanti l’eversione.
Si può affermare che quel neofascismo militante e bombarolo è finito da tempo su un binario morto.
Il neofascismo di ultima generazione è rappresentato a Cremona da Casa Pound e da Forza Nuova. Due aggregati di recente formazione, che interpretano il revisionismo neo-fascista, alla luce del suggestivo superamento della dicotomia destra-sinistra. Si richiamano, in questo senso, al profilo socializzante della R.S.I. e si avvalgono di un’efficace tecnica di proselitismo capace di miscelare cultura pop e l’estremismo di ultima generazione applicato ai temi del razzismo e della xenofobia.
Dal punto di vista delle modalità di testimonianza, se si eccettuano le sporadiche partecipazioni alle tornate elettorali e la partnership a tema con la Lega in materia di contrasto all’immigrazione, non v’è dubbio alcuno circa il fatto che prediligano la manifestazione violenta.
La nostra città ne sa qualcosa per conseguenza di quel duello tra questo neofascismo estremo ed il sedicente antifascismo dei circoli sociali.
Alla luce di questa escalation teorico-pratica, si può affermare che la testimonianza della difesa elogiativa, interpretata dai vecchi arnesi dell’epoca di Michelini e di Almirante, ne sia stata l’incubatrice?
Sicuramente, in parte.
Difficile dire se c’era un nesso di causalità tra quel “non restaurare, non rinnegare” degli esegeti del neofascismo d’antan e la deriva eversiva che, per passaggi cruciali, ha condizionato la Repubblica.
Se devo trarre spunto dal contatto diretto, avuto negli organismi elettivi, con i vari Fedeli, Vargas Macciucca, Azzolini, Protti, propenderei, con beneficio d’inventario, più per la versione di una testarda testimonianza derivata (e veniamo al titolo) da false memory, falsi ricordi della memoria, o dalla sindrome indotta dal pensiero di James Russell Lowell “solo i morti e gli stupidi (e, aggiungiamo noi per alleggerire, i paracarri) non cambiano idea”.
Insomma, un piccolo giacimento di tanti Hiroo Onoda.
Che, diversamente dal (forse) effettivamente ignaro soldato giapponese isolato in una dispersa isola dell’arcipelago delle Filippine, tramanda, da allora, la certezza che la guerra (civile) non è, almeno idealmente, finita.
Sarebbe stato (per la saldezza delle basi dello scenario repubblicano) preferibile il contrario.
Ma, a parte il rigore con cui andrebbero sanzionate le violazioni della legge Scelba, le conseguenze di quell’aforisma di James Russell Lowell possono ancora impensierire la democrazia? O può impensierirla il fascismo di ultima generazione, che si andato plasmando e saldando all’onda populistica,?
Mi sono posto, senza ovviamente alcuna disponibilità a fare sconti, quel dubbio, il 26 aprile, in occasione della cosiddetta messa; appuntamento imperdibile per i “paracarri”. Uno dei quali, il meno attempato, ha espresso la certezza di vedere sventolare, un giorno, di nuovo sui profili più alti della città i valorosi vessilli…
Mah…
Indubbiamente, fanno fatica a prendere forza, se non in una limitata minoranza, le consapevolezze della non ancora decollata transizione al terzo millennio.
Nell’attuale contesto, infatti, tutto resta ancorato al secondo-dopoguerra: percezioni, suggestioni, modi di pensare, antitesi. Paradossalmente, il morto (cioè, il complesso dei fallimenti ideologici del ventesimo secolo, quali i comunismo ed il nazifascismo) arrischia di trascinare il vivo; per esso intendendosi la prospettiva di revocare irreversibilmente il prolungarsi all’infinito di contrapposizioni, cardine di nefaste dittature. Come osserva Domenico Cacopardo, su L’Opinione del 19 agosto, esse sono ancora ben piantate nello scorso secolo, dominato dalle dittature, fasciste e comuniste, ispirate dai principi, solo apparentemente contrapposti, dell’autoritarismo e dell’eguaglianza.
A ciò concorre la fattispecie di “contributo”, oggetto di questa analisi in via di conclusione; ma un certo alimento viene offerto anche dal continuismo insediato sul fronte opposto.
Manca un sentimento collettivo di appartenenza e di destino, indispensabili per l’esistenza della democrazia, per la sua capacità di affrontare i compiti difficili, per riconoscersi in un’impresa comune. Che non può non discendere “dalla coraggiosa decisione di smettere di essere prigionieri della storia” (John Kerry).
Ernest Renan si chiede: che cos’è una nazione? Una nazione è tenuta insieme solo da una lingua comune, da tradizioni e costumi condivisi, oppure è fatta da una comunità di ideali più ampi? Quella comunità che chiamiamo nazione è tenuta in vita solo da una comunione di interessi o anche da una comunanza di principi?
Nella nostra vita pubblica manca un centro di riflessione, previsione, programmazione di scelte per i tempi medio-lunghi.
Manca un sentimento collettivo di appartenenza e di destino, indispensabili per l’esistenza della democrazia, per la sua capacità di affrontare i compiti difficili, per riconoscersi in un’impresa comune.
È fuori dubbio che, se fosse declinata l’irriducibile contrapposizione tra vincitori e vinti, attraverso l’accettazione della Repubblica e della sua Costituzione anziché, come è avvenuto per settant’anni, una guerra civile continuata in altre forme e con il solo intento di affievolire l’asse portante della Repubblica), sarebbe da tempo alle spalle la irrisolta questione dell’identificazione nelle stesse basi di condivisione. Che riverbera, aggiornata da nuovi filoni di inconciliabilità, sinistre ombre nei contesti attuali.
Siamo approdati alla seconda metà dell’anno del 70° della Liberazione. Ed è giunto il momento, a corollario di un intenso calendario celebrativo e rievocativo, di interrogarci, con una forte dose di irritualità e senza l’assistenza di reti di salvataggio, sull’opportunità di uno step successivo nella nostra testimonianza.
Ci è suggerito dall’incongrua sopravvivenza, come abbiamo visto, di sacche di impermeabilità ad una totale “contaminazione” democratica.
Ma ci è anche sollecitato dalla constatazione di incoercibili rigurgiti di reinterpretazione della Resistenza
Quel profilo dell’antifascismo che si discostasse dalla vera mission resistenziale, che era inequivocabilmente di ripristinare la prassi liberaldemocratica e la sua evoluzione in senso repubblicano sarebbe quanto meno una eterogenesi dei fini.
La Liberazione ha liberato il Paese da vent’anni di autoritarismo/totalitarismo; ma non come presupposto per scenari che, narrati in modo diverso, avrebbero parimenti negato le prerogative liberali e democratiche.
I suoi valori sono universali e non possono essere piegati al perseguimento di altre finalità che non siano quelle di un sistema fortemente democratico. A nessun antifascista è riconosciuta la prerogativa di riconoscere o negare il titolo di testimonianza o di appartenenza all’antifascismo.
Sotto tale profilo, la nostra collocazione non può che essere all’opposto del messaggio, denso di retaggi di odio e di violenza acuiti dallo scontro ideologico; come è avvenuto di recente nella nostra città, ad opera degli “antifascisti” dei Centri Sociali.
Nella cui testimonianza non è difficile intravedere una certa continuità con quell’antifascismo “non arrendevole” (per autodefinizione).
Il prosieguo della testimonianza antifascista, pena l’applicazione dell’aforisma del titolo anche a se stessa, non può non far luce e regolare reticenze e contradizioni.
Antonio Carioti “In fondo il PCI cercò di frenare gli estremismi, ma si portava dietro troppe ambiguità: basti pensare all’ex partigiano comunista che regalò la sua vecchia pistola al brigatista rosso Alberto Franceschini perché ne facesse buon uso.”
Ma, oltre alle tracce militariste, persiste in quell’antifascismo erede, magari inconsapevole, delle pulsioni della spallata finale, un sottile filo rosso con le suggestioni giustizialistiche.
Di cui si è avuto prova in occasione dell’affaire Protti. Affrontato da un certo coté antifascista non certamente in coerenza coi principi e i valori della certezza del diritto.
Nessuno, veramente antifascista, può piegare tali valori a finalità inappropriate. Che attengano sia all’esercizio della dialettica politica e parlamentare sia alla libertà di testimonianza su progetti, che non possono in alcun modo giustificare deduzioni di appartenenza o di non appartenenza all’antifascismo.
Donde scaturiscono interpretazioni dell’antifascismo che inopinatamente ostracizzano ed inquadrano nella categoria fascista tutti quei democratici che non si allineano coi fondamentalismi ambientalista, pacifista, laico (teorie gender), no tav, flussi migratori.
Quando ci si mette sulla china delle facili deduzioni, non ci si può sorprendere di certe inedite interpretazioni.
Il Sindaco di Firenze Nardella ha, di recente, paragonato “chi rischia la vita in mare ai nostri partigiani che hanno portato avanti la ricerca della libertà con la guerra di Resistenza e di Liberazione”.
Trattasi presumibilmente di una performance di pensiero liquido in un’inaspettata versione sinergica all’antifascismo dogmatico, conformista, funzionale alla lotta politica. O forse più semplicemente di una delle tante prove quotidiane del declino della vita politica.
Negli allegati dell’approfondimento pubblichiamo:
1)L’Estratto della Rubrica Spazio Aperto
2)L’Estratto del capitolo 2 IL CONTRIBUTO DEL SOCIALISMO CREMONESE ALLA RESISTENZA da Il Socialismo di Patecchio
3)Intramontabili profili di antifascismo: Emanuele Artom - Guglielmo Jervis – Eugenio Curiel