Prima di porre questioni ermeneutiche rapportate a percezioni e consapevolezze in materia, dovremmo dichiarare il focus di questa riflessione: 160° anniversario dell'Unità d'Italia scaturente dalla proclamazione del Regno d'Italia del 17 marzo 1861. Sul cui valore, di festa nazionale, non dovrebbero sussistere molti dubbi circa il carattere fondante.
Gli è che, come osserva su Corsera, il sempre acuto Cazzullo, rispondendo ad un lettore che si chiede il motivo di una ricorrenza passata in sordina, “il Risorgimento non lo rivendica quasi nessuno. Non gli eredi del movimento liberale, che ne fu il maggior protagonista. Non gli epigoni di quella lunga stagione di testimonianze ideali, di moti e di gesti individuali e collettivi. di partecipazione concreta”.
Così è se vi pare. A deprimerne il tasso di appartenenza al Pantheon identificativo, hanno concorso, nel volgere di più di mezzo secolo, molte concause. Tra cui il forsennato tentativo (largamente riuscito) di confondere, ad usum delphini, termini fondamentali della questione. Ad esempio: per quanto in qualche misura attinente, Patria è una cosa e nazione è altro concetto.
Una distinzione, questa, non di poco conto. Quando i due termini sono stati fatti coincidere, la conseguenza non è stato solo una manomissione lessicale. Come ben si sa. Soggiunge l'opinionista che, nonostante la plastica indifferenza, “noi italiani siamo legati all'Italia ed al senso della patria”.
A prescindere dalla nostra irrevocabile stima nei suoi confronti, non ne siamo così convinti. E lo spiegheremo, analizzando i comportamenti sul campo cremonese, in materia celebrativa.
Ci sarebbe preliminarmente da aggiungere che molto ha fatto a deprimere il senso di identificazione popolare nel carattere fondante dell'evento di 160 anni, anche e soprattutto, il curriculum incrementato dalla dinastia, a partire dalla proclamazione.
Motivo per cui la gran parte della gente identifica più nel 2 giugno la scaturigine, convenzionale e simbolica, dell'Italia unita.
Anche se non giureremmo totalmente neanche su questo. D'altro lato, sotto il sole permane una buona dose di confusione quando si armeggia attorno a termini come: ricorrenze, commemorazioni, celebrazioni. Ecco ad esempio, noi il 17 marzo 1861, pur non deprezzando il valore dell'epilogo del processo unitario, lo riteniamo un evento da rievocare, più che da celebrare.
Evviva la sincerità! Arriveremo sempre tardi (come peraltro si incaricano di dimostrare le malferme risposte di coesione civile reclamate dall'immane tragedia pandemica) a fissare solidi paletti in materia di identificazione delle linee guida dell'essere comunità accettata, condivisa, impegnativa.
Non fu sempre così, nel passato. Se si pone mente, al centenario (rievocato e celebrato) nel 1961. Che seguiva da vicino al centenario delle guerre di indipendenza e che, probabilmente, beneficiava del traino operato da una temperie nazionale, forse mai più eguagliata nel prosieguo.
Una stagione non esattamente “aurea”, ma indubbiamente rivelatrice di un certo orgoglio/consapevolezza ad osare di più. Che, archiviando le vergognose performances della dinastia e del Ventennio e scommettendo sul un operoso sistema-paese, facilitava l'accesso a comuni radici patrie.
Già passata, molta acqua sotto i ponti! Il 160° è stato officiato a minimo sindacale. E, osiamo, a beneficio soprattutto dell'indotto di immagine della compagnia di giro (senza offeso, sia chiaro) che non perde un colpo a presenziare a cerimonie e a profondersi in omaggi floreali.
A tal proposito, non lasceremo intentata l'occasione per rimarcare l'impulso ad omaggiare chi gli pare; in materia di monumenti e personaggi, più o meno ritenuti padri della Patria.
Qualcuno ha deposto di fronte a Garibaldi, altri, sia pure non investiti di mandato istituzionale, di fronte a Vittorio Emanuele II.
Forse una rievocazione univoca avrebbe contribuito ad alzare il rango della ricorrenza, come evento condiviso. Ma lasciamo andare…
Quel che ci ha molto sorpreso (e lo documentiamo fotograficamente) è la totale trascuratezza nei confronti del valore della testimonianza di Giuseppe Mazzini (nella nostra galleria fotografica), fin qui, almeno da noi ritenuto, protagonista ex aequo dell'esule di Caprera.
Nel dubbio siamo passati in Piazza Roma, dove, per iniziativa dei mazziniani cremonesi, fu collocata alcuni anni fa l'opera dello scultore Mario Coppetti. Opera, più volte vandalizzata, che attualmente fa bella mostra di sé nel contesto di squallore che contraddistingue gli spazi pubblici cittadini.
Al nipote che giorni fa ci trasmise immagine dell'“invitta bandiera con cui attraversammo le tumultuose acque del Piave, mettendo in rotta il nemico”, rispondemmo sollecitamente che l'impresa fu resa possibile grazie all'eroismo ed all'abnegazione dell'esercito di popolo e nonostante i Savoia e i Cadorna.
A motivo di ciò abbiamo ritoccato la parte centrale del tricolore inserendovi l'immagine di Mazzini e Garibaldi.
A proposito dei quali e a beneficio di nostro nipote abbiamo ricordato e ricordiamo anche qui che sin dal 1848 il campo risorgimentale era sostanzialmente diviso tra monarchici e repubblicani. Su questo secondo raggruppamento confluivano sensibilità e culture meglio specificate. Sostanzialmente furono di ispirazione socialista sia Mazzini che Garibaldi. Mazzini fu competitor delle esordienti teorie marxiane. In realtà, fu precursore del socialismo riformista (di Bissolati e Turati) e del socialismo liberale di Giustizia e Libertà di Rosselli. Nella cui casa sarebbe stato accolto come clandestino e dove morì. Il successivo PRI avrebbe rivendicato la sua eredità. La storia avrebbe dato ragione a Lui, a Rosselli, a Turati, a (ce se ne dimentica colpevolmente!) ad Adriano Olivetti (ebreo come i Rosselli). Garibaldi testimoniò, nonostante i ripiegamenti compromissori coi Savoia, sostanzialmente il profilo massimalista e rivoluzionario del repubblicanesimo socialista. Non a caso nel 1948 il fronte delle sinistre lo adottò come griffe.