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La testimonianza civile. Nel 170° dell’eccidio di Sclemo e nel 100° della Grande Guerra. La relazione di Corada

Una giornata radiosa di memoria storica e di testimonianza civile

  02/09/2018

A cura della Redazione

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Non ci sottrarremo, almeno nell'incipit della cronaca, all'impulso di riferire intensivamente della radiosità della cornice paesaggistica ed umana in cui si è svolta, nel 170° anniversario, la rievocazione dei fatti di Sclemo dell'aprile del 1848. Fatti che furono, anche senza immediata fortuna, inequivocabilmente anticipatori dell'intero ciclo (destinato a durare un altro quasi ventennio) delle testimonianze e delle lotte per il completamento dell'indipendenza italiana. Che, volendo essere più precisi, sarebbe avvenuto addirittura settant'anni dopo, con la fine della Grande Guerra, donde sarebbe scaturita la confluenza alla patria italiana delle terre “irredente”.

Dedicheremo lo spazio strettamente necessario alla descrizione degli eventi oggetto della rievocazione. Sia perché erano già stati anticipati dal precedente articolo. Sia perché, molto più efficacemente ed autorevolmente di noi, lo farà, con il testo degli interventi pronunciati nel corso delle iniziative che hanno articolato le celebrazioni, il contributo dei protagonisti della cerimonia.

La giornata, preannunciata sotto i peggiori auspici meteorologici (che avevano funestato la vigilia, fino ad imbiancare le circostanti vette), in realtà, sin dalle prime ore, ha virato verso un inaspettato miglioramento, che ha sicuramente concorso al successo delle manifestazioni all'aperto ed esaltato le bellezze paesaggistiche delle Valli Giudicarie. Le sponsorizziamo molto presso i nostri lettori per i loro paesaggi maestosi e la piacevolezza climatica. Oltre che per un'invidiabile dotazione di insediamenti civili a misura d'uomo e di cespiti storico-monumentali (come il Castello/museo ed il Museo Etnografico di Stenico) che giustificano tanto soggiorni prolungati quanto, per chi villeggiasse nei dintorni, toccate e fughe giornaliere.

Nel corso delle quali si avrà la possibilità di percepire quanto premesso unitamente alla sensazione, suscitata dal contatto con la “trentinidad” giudicariese; che, diversamente da altri contesti comprensorali trentini, mette al riparo dal rischio di sentire sul collo il poco accattivante alito del “foresto”, marcato da un imprinting inequivocabilmente non cosmopolita e da culture non esattamente aperte.

Che dire? Fate la prova del budino: andateci. Così banalmente devono aver fatto i tanti cremonesi, la cui domanda vacanziera da anni ha trovato soddisfacente accoglienza da queste parti. Con una fidelizzazione talmente consolidata da stabilire un tratto eccedente la normale ospitalità. Diversamente non si comprenderebbero le ragioni della partnership sotto il profilo umano e culturale, che ha incardinato una così radicata consuetudine di testimonianza storica e civile.

Esortava, infatti, molti anni fa anchel'indimenticato prof. Gianfranco Taglietti, valente educatore e cultore di storia e toponomastica cremonese: “Varrebbe la pena che questo luogo, propaggine, in un certo senso, della nostra città, fosse meta, di tanto in tanto, di un pellegrinaggio ad onorare i primi caduti di quella volontà di riscatto che troverà conclusione a distanza di un secolo nei giorni della Liberazione” (Cfr. Gianfranco Taglietti, Le strade di Cremona. Storia e storie della città lungo le sue strade, 1997). Riportiamo ciò, per assolve ad un doveroso obbligo di introduzione del lettore alla conoscenza, anche del peculiare toponomastico, che rende fino in fondo la ragione del particolare attaccamento sia al piccolo nucleo teatro dell'eccidio sia al capoluogo di cui il medesimo fa parte.

Scrive Taglietti: “Attualmente si denomina “Martiri di Sclemo” una strada di collegamento tra viale Trento e Trieste (di cui è la 6° a sinistra) e via Dante. Si precisa “attualmente” perché fino al 1951 tale nome si estendeva anche al primo tratto di via S. Antonio del fuoco e, prima ancora (dal 1923 al '39) denominava l'attuale via Don Minzoni (1° a sinistra di via Stenico).

La denominazione “Martiri di Sclemo” era stata determinata, per l'appunto, dalla sua derivazione da via Stenico, nome di altro paese del trentino, dove quei “martiri”, alcune ore prima del loro eccidio, avevano combattuto con il maggiore Gaetano Tibaldi, che li comandava.

Pochi, probabilmente, avranno conoscenza di questo episodio della prima guerra d'Indipendenza del nostro Risorgimento. Per avere esatta nozione si potrebbe organizzare una breve spedizione rievocativa nei luoghi nominati, Stenico e Sclemo, distanti tra loro due chilometri. Troveremmo, nel piccolo, verde borgo montano di Sclemo una stele di marmo, opera dello scultore cremonese Piero Ferraroni, collocata su un piedistallo nel luogo più elevato, fuori dal centro abitato. Sul lato anteriore si legge: ”Qui morendo si sottrasse da morte il sacro stuolo” e, più sotto: ”Nel cinquantenario di fondazione dell'Associazione nazionale fra mutilati ed invalidi di guerra, nel cinquantenario di Vittorio Veneto, la sezione provinciale di Cremona ricorda i primi martiri cremonesi per l'indipendenza d'Italia – Aprile 1967/ novembre 1968”. Sul lato sinistro della stele, sotto lo stemma del Comune di Cremona si legge: ”Qui sotto per 75 anni fremettero le ossa dei volontari italiani che il 20 aprile 1848 l'Austria trucidò”.

Su una lapide collocata in paese, sull'edificio dove ha sede la Famiglia cooperativa, si precisa: ” in questa casa il giorno 20 aprile 1848 vennero trucidati dalla soldatesca d'Austria XIII volontari dei Corpi franchi”, seguono i nomi dei giovani caduti.

Compiuto il nostro mesto pellegrinaggio, ci sovviene che il 20 aprile 1848 era trascorso un mese circa dalla insurrezione dei Cremonesi, dal ritiro delle truppe austriache di stanza in città, dalla formazione del Governo provvisorio, dalla costituzione della prima colonna di volontari che, guidati dal maggiore Gaetano Tibaldi, erano partiti da Cremona per unirsi agli altri volontari in appoggio alle truppe piemontesi di Carlo Alberto. Nella località di Sclemo un gruppo di volontari ebbe un primo scontro col nemico che, sopraggiunto in forze, tredici ne trucidò in quella casa in cui si erano rifugiati con un compagno ferito.

Poiché abbiamo aderito allo sprone del rimpianto preside del Liceo Scientifico, abbiamo altresì il dovere di completare per esteso la citazione dell'epigrafe posta sul cippo (compiutasi la nemesi della storia qui ricomposero i sacri resti placati di questi primi martiri eroi – qui sotto per 75 anni fremettero le ossa dei diciotto volontari italiani che il 20 aprile 1848 chiusa la fazione di Sclemo l'Austria trucidò – qui morendo si sottrasse da morte il sacro stuolo).

A parte la controversa attribuzione all'autore della stele (che gli esperti locali attribuiscono fondatamente allo scultore locale Zuech), inaugurata nel 1923 (quindi agli albori del Ventennio) e presumibilmente coeva alla intitolazione della civica via (come abbiamo approfondito con il funzionario comunale della toponomastica Zaffanella e con l'amico Agostino Melega), lo scritto del compianto Preside del civico Liceo poneva, quasi un quinto di secolo addietro, il riflettore su un segmento di storia contemporanea ininterrottamente presente nelle corde dei cremonesi.

Non diversamente si spiegherebbe anche il particolare trasporto, di cui siamo interpreti, sempre manifestato dal prof. Mario Coppetti, valente artista recentemente scomparso, e dallo storico sindaco e senatore Emilio Zanoni, entrambi socialistissimi (magari in contrasto con i dettami teorici della loro militanza), nei confronti dell'epopea risorgimentale ed, in particolare, della pagina scritta, agli albori della lotta per l'indipendenza nazionale, a Sclemo.

Qualche giorno fa, annunciando e presentando l'iniziativa, avevamo lamentato quella sorta (secondo noi) di “minimo sindacale” con cui la comunità nazionale, nel suo complesso, aveva e sta assolvendo ad un dovere di celebrazione, che rimanda (o dovrebbe) ad uno dei pilastri storici dell'Italia fatta nazione unita ed indipendente dal Risorgimento e fatta nuova Italia dalla Liberazione.

Qualche fuoco fatuo, suggerito dalla finalizzazione della produzione mediatica, e poco più.

Nel resto del Paese, il cui ripiegamento agnostico è palpabile sempre più; ancor più nello specifico teatro delle “terre redente”, il cui riscatto dal giogo straniero richiese uno sforzo eccezionale a tutta la nazione italiana. Ci sia consentita, a questo punto una digressione (o licenza poetica che dir si voglia), giustificata dalla grande considerazione e consuetudine che abbiamo nei confronti di queste terre.

In certe aree, come nel Trentino da cui scriviamo e riflettiamo, è difficile, a dire il vero, distinguere tra generalizzato agnosticismo ed impulsi revisionistici. Che, appalesati talvolta con opacità talvolta con espressa assertività, manifestano plasticamente l'allentamento, quando non addirittura la messa in mora postuma, del senso e del valore del Risorgimento. Come processo fondante della nazione italiana e della redenzione dei suoli e delle comunità italiane per secoli soggiogate dallo straniero.

Ciò sarebbe in stridenteo contrasto con la elettiva finalizzazione della celebrazione storica, che è di esortazione permanente a trarre lezione dall'irrazionalità e dall'orrore della guerra e a proseguire, soprattutto nei contesti attuali, contraddistinti da regressioni nazionalistiche, l'eccezionale ciclo di pacificazione e di cooperazione, premessa e garanzia di civiltà e di progresso.

Saremmo a nostra volta opachi e reticenti, se rinunciassimo a segnalare, proprio qui dal Trentino, la crescente tendenza a manifestare forme attenuate del senso della storia e dell'attualità di appartenenza a quella comunità nazionale che costò immani tragedie, lutti ed il generoso sacrificio di giovani vite, come nel caso di Sclemo.

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Martiri di Sclemo Relazione di Gian Carlo Corada al Convegno del 26 agosto 2018 a Stenico

L'eccidio di Sclemo, avvenuto nella nottata del 19 aprile del 1848 e poi proseguito il 20, è un episodio importante della prima guerra per l'indipendenza italiana e va inquadrato nelle vicende, italiane ed europee, del 1848. Il 1848 è rimasto nella memoria storica dei popoli europei come “l'anno delle rivoluzioni”, tant'è vero che ancora oggi l'espressione “un quarantotto” indica confusione, baccano, scombussolamento (una concezione abbastanza negativa della rivoluzione, a riprova che alla fine la rivoluzione venne sconfitta e la conservazione si affermò di nuovo quasi del tutto ed in ogni Paese). Naturalmente le ragioni per cui scoppiò questo movimento, praticamente in tutta Europa, erano diverse da Nazione a Nazione: in Francia, non oppressa da alcuno straniero, le motivazioni furono sociali e politiche, con caratteristiche democratiche ed anche socialiste; in Polonia, Ungheria (il 15 marzo è tutt'oggi festa nazionale, in ricordo di quel giorno del 1848), Italia e penisola balcanica furono essenzialmente indipendentistiche; in Germania tese all'unità del Paese ed a Vienna prevalentemente politiche di stampo liberale. Queste specificità si intrecciarono, però, quasi ovunque, con i principi di libertà ed eguaglianza, declinati in modi diversi, lasciati in eredità dalla Rivoluzione francese. Ovunque vi fu partecipazione popolare, seppure in gradi diversi, anche perché quello fu un periodo di profonda crisi economica e di grande miseria, in conseguenza della prima rivoluzione industriale, ed i governi assolutistici si dimostrarono incapaci di farvi fronte provocando così proteste di ogni genere. Non possiamo comunque, in questa sede, neppure tentare l' analisi di un movimento tanto complesso ed articolato, contraddittorio e dagli esiti diversi. Limitiamoci a dire che tutta l'Italia fu coinvolta e che la Lombardia insorse, in marzo, contro il dominio austriaco. Dominio austriaco che aveva svolto anche un ruolo positivo, in Lombardia almeno, ma che ormai si reggeva, come è stato detto, su “una selva di baionette”. Negli anni dal 1815 al 1848 l'Austria spendeva il 40% dell'intero bilancio statale per l'esercito (più un altro 30% in conto interessi sul debito pubblico)! I ribelli lombardi, come si sa, all'inizio vinsero, cacciarono gli austriaci, si divisero aspramente (triste destino italiano!) fra moderati filo-sabaudi e democratici-repubblicani, fecero la guerra agli austriaci a fianco dei piemontesi, furono sconfitti e pagarono a caro prezzo, spesso con la vita o con l'esilio, l'eroismo e le divisioni.

Il 19 marzo 1848, una domenica, la rivoluzione scoppiò anche a Cremona. Abbiamo una buona documentazione di quegli eventi, grazie a corrispondenze ed atti, e pure alla cronaca dettagliata che ne fece Luigi Clementi, orefice e possidente. Il giorno precedente, dunque, la rivolta contro gli austriaci era scoppiata a Milano (le Cinque Giornate di Milano vanno dal 18 al 22 marzo) e le notizie, giunte a Cremona, infiammano gli animi. Duecento Guardie Civiche, con il cappello piumato “alla calabrese” (detto anche “alla Ernani”, divenuto da quando, nel 1844, era stata rappresentata al teatro La Fenice di Venezia l'omonima opera di Verdi, simbolo di italianità e di ribellione) festeggiano a piazza Castello l'onomastico di Carlo Alberto, re del Regno di Sardegna, in procinto di dichiarare guerra all'Impero asburgico, in chiaro dispregio degli austriaci. Il tricolore sventola sul Palazzo del Comune e cortei percorrono le strade. Tutti temono una ribellione popolare, ma, per poco tempo uniti, liberali e democratici riescono ad incanalare la protesta. Si raduna in piazza Maggiore una folla, alla presenza del nuovo Podestà, il marchese Pietro Araldi Erizzo, appena rientrato in città. Il prof. Bellini ed il sacerdote patriota don Valeriano Pasotti tengono un discorso alla folla. Elisa Barozzi Beltrami, nobildonna di origini veneziane (madre di quell'Eugenio Beltrami, celebre matematico, cui è intitolato l'Istituto per ragionieri di Cremona), bella ed affascinante secondo tutte le testimonianze ed i ritratti, cinge una sciabola e si avvolge nel tricolore. Con lei alla testa, il corteo di patrioti, tutti con la coccarda tricolore, attraversa le vie del centro. In piazza Castello un'altra donna coraggiosa, Elisa Gnerri, parlamenta con il comandante degli ulani polacchi per la resa delle truppe senza spargimento di sangue. Il giorno dopo, il 20 marzo, avviene lo scontro con le truppe austriache, in parte schierate fuori dalle numerose caserme, ove il giorno prima si erano ritirate. Non fu uno scontro aspro, a dir la verità, come invece fu a Milano. Due soli morti, pare; entrambi ulani dell'esercito austriaco. Nella notte fra il 21 ed il 22 le truppe austriache lasciarono Cremona. Il battaglione “Conte Ceccopieri” passò agli insorti e divenne la “Legione Ceccopieri”, che si trasferì a Milano e si fece onore in guerra. Anche il Regggimento “Arciduca Alberto” in buona parte si ammutinò. Alcuni prigionieri austriaci vennero rinchiusi a Palazzo Persichelli, dove oggi è il Tribunale, e trattati con rispetto. Si formò un Governo Provvisorio, in un clima di grande entusiasmo. Presidente venne nominato l'avvocato Maffino Maffi, Segretario Generale il dott. Fulvio Cazzaniga. Componenti: il dott. Antonio Binda, l'avv. Gaetano Tibaldi, i dott. Annibale Grasselli senior e junior, il dott. Giuliano Vacchelli, Ambrogio Cadolini. Nomi noti nella storia del Risorgimento cremonese e protagonisti, dopo il 1848, di altre imprese degne di memoria. Il governo Provvisorio durò poco, fino al 16 aprile, perché l'8 aprile si era formato a Milano il Governo Provvisorio della Lombardia ede erano stati sciolti i Governi Provinciali. A rappresenare Cremona nel Governo regionale fu Annibale Grasselli senior.

Il Governo Provvisorio nominò Comandante Militare della città il non più giovanissimo, avendo quasi settant'anni, ma ancora valido colonnello Giuseppe Sacchini (al quale Cremona non ha dedicato vie, piazze o monumenti, come non l'ha fatto per nessuno dei protagonisti della prima Rivoluzione, quella dal 1796 al 1814): eroe di guerra, compagno d'armi di Napoleone, fu con Murat nell'estremo tentativo di difendere l'indipendenza italiana; gli austriaci quando erano tornati, nel 1814, gli avevano offerto il grado di generale, vista l'esperienza militare acquisita; ma lui aveva rifiutato, rimanendo a vivere poveramente a Cremona. Alla sconfitta della Rivoluzione del '48, si sarebbe poi rifugiato in Piemonte, ove sarebbe morto dopo pochi mesi. L'incarico di Comandante Militare era estremamente impegnativo, visto anche lo stato di tensione continuo e l'allarme in città: sul Torrazzo venne allestito un servizio di vedetta ed una corda venne tesa dalla vetta fino a Palazzo Comunale, per comunicare subito eventuali avvicinamenti di truppe austriache. L'incarico di Comandante Militare era impegnativo anche perché erano numerosi, tra militari, volontari e guardie civiche, gli uomini da organizzare: sappiamo che una settimana dopo l'insurrezione vittoriosa, a Cremona si trovavano oltre cinquemila uomini in armi, con una ventina di cannoni, pronti alla guerra a fianco dei piemontesi. Un numero rilevante, se pensiamo che Cremona aveva nel 1847 ventiseimila abitanti e che i soldati austriaci (di numerose nazionalità, fra cui russi e friulani) alloggiati nelle tante caserme erano all'inizio duemila e quattrocento. L'incarico a Sacchini, eroe dimenticato, dimostra in qualche modo il legame fra la Rivoluzione del 1848 e la precedente “Rivoluzione d'Italia” (celebre definizione del Foscolo) del 1796 (lo dimostra anche il fatto che i rivoluzionari del '48 piantarono spesso degli “alberi della libertà”, come avevano fatto i loro predecessori più di cinquant'anni prima, e che, quando Carlo Alberto entrò in Cremona, le Autorità rivoluzionarie gli consegnarono le aquile napoleoniche, conservate dopo la disfatta del Regno d'italia). Il permanere a Cremona, seppure sottotraccia, di una corrente “rivoluzionaria”, fino all'esplosione del 1848, dimostra anche come sia in parte da rivedere la tesi, sostenuta dagli stessi patrioti cremonesi e, ad esempio, a Novecento avanzato da uno storico illustre come Luigi Ratti, secondo cui Cremona sarebbe stata la più austriacante delle città lombarde o comunque “passiva” e sepolta sotto una “patina di nebbia”; ed anche come sia da ridimensionare pure l'altra tesi, ancora oggi diffusissima, secondo cui il Risorgimento sarebbe stato fenomeno di élite. Di élites certamente si può e si deve parlare, come sempre nelle Rivoluzioni ed in ogni grande evento; ma di élites numericamente assai consistenti e con una notevole partecipazione popolare.

Il 19, il 20 ed il 21 marzo del 1848, dunque, Cremona insorse. Che cosa successe nei giorni e nelle settimane successive al 21 marzo?

Il Governo Provvisorio, affidato come abbiamo visto al colonnello Sacchini l'incarico di Governatore Militare della città, si dedicò all'amministrazione civile ed assunse provvedimenti urgenti per garantire il ripristino di un'ordinata convivenza, nei limiti ovviamente della situazione. Assicurò i rifornimenti alle botteghe, garantì l'ordine pubblico, suddivise fra gli abbienti la partecipazione alle spese della guerra, a fianco del Regno di Sardegna, che dal 23 marzo Carlo Alberto aveva dichiarato all'Austria. Tra gli altri provvedimenti il Governo Provvisorio ne assunse uno, il 30 marzo, che può sembrare assai strano, soprattutto se consideriamo il momento drammatico che si stava vivendo e le tante cose cui si doveva provvedere: venne abolito il gioco del lotto! Oggi, credo, possiamo comprendere meglio le ragioni di quella decisione. Di solito, il passato aiuta a capire il presente; in questo caso forse il presente aiuta a capire meglio il passato. Oggi, con circa 700.000 giocatori d'azzardo calcolati in Lombardia, 1.400 pazienti in cura alle ASL lombarde per dipendenze riconducibili al gioco, sale giochi in ogni rione delle città e macchinette mangiasoldi quasi in ogni bar, cominciamo a renderci conto di quanto possa essere rilevante il problema. Allora, nel 1848 intendo, il lotto non era quel gioco che siamo stati abituati dalle nostre nonne a guardare con occhio benevolo. Certo, si trattava sempre di acquistare “uno scudo di speranza”, come recita una famosa poesia francese; ma spesso ciò avveniva quotidianamente, dilapidando i pochi soldi del salario o togliendo di che vivere alla famiglia. Proprio i più poveri erano i più coinvolti, come oggi, del resto. Ed anche allora lo Stato ci guadagnava, e molto! Il Governo Provvisorio di Cremona ha voluto assumere un provvedimento probabilmente impopolare ma “morale”. Se volete, un po' giacobino (nel senso di calato dall'alto), ma certo utile a molte famiglie. Ovviamente, i provvedimenti come l'abolizione del lotto e quelli annonari, per assicurare i rifornimenti alla città, insieme alla predisposizione di assistenza medica ed ospedaliera per eventuali feriti, non furono i soli assunti dal Governo Provvisorio e dal Podestà. La prima preoccupazione in assoluto era la guerra. La paura del ritorno degli austriaci era dominante, pur nell'entusiasmo per la liberazione conseguita. Sul Torrazzo, già dicevo, venne allestito un servizio permanente di vigilanza, collegato tramite corde e carrucole al Palazzo Comunale, per avvertire subito dell'arrivo di soldati nemici. Ai ricchi venne chiesto uno sforzo economico supplementare per far fronte alle spese della guerra. La divisione fra monarchici e mazziniani, fra seguaci del Cattaneo e sostenitori dei Savoia, parve venir meno, o comunque ridursi, di fronte alla guerra. Carlo Alberto, varcato il Ticino a Pavia il 29 marzo, a tappe forzate si avvicinò alla città. Il 2 aprile entrò trionfalmente in Cremona con 10.000 soldati. Il re dormì a palazzo Pallavicino, suo figlio dal marchese Araldi Erizzo (il palazzo è oggi la sede dell' “Anguissola”, in via Palestro), lo Stato Maggiore del suo esercito venne ospitato a palazzo Ala-Ponzoni, i soldati nelle numerose caserme. Non possiamo assolutamente seguire, in questa sede, le vicende della guerra. Ricordiamo solo che il 9 aprile partì da Cremona per il Trentino la “I Colonna Tibaldi”, 150 (qualcuno dice 180) volontari comandati da Gaetano Tibaldi. Avvocato, mazziniano, Tibaldi aveva partecipato in Italia ai moti del 1831, era poi andato esule in Svizzera ed Inghilterra ed infine, nel 1836, a combattere in Spagna contro i Carlisti. Aveva infine approfittato dell'amnistia offerta dall'Austria per rientrare a Cremona ad assistere il padre gravemente ammalato. Ora, nel marzo del 1848, si mette subito a disposizione del Governo Provvisorio ed organizza una “Colonna cremonese” all'interno dei “Corpi Franchi” lombardi. “Tutti signori” scrive nella sua cronaca il Clementi, scettico sulle prospettive della Rivoluzione. Era vero solo in parte. Pochissimi erano i nobili ed i possidenti, pur presenti nelle Istituzioni rivoluzionarie. Pochi anche i rappresentanti della borghesia commerciale, molto legata agli appalti governativi. Per lo più erano professionisti (medici, avvocati, ingegneri), studenti, artigiani, piccoli commercianti. Pochi impiegati ed operai (a differenza di Milano), meno ancora contadini. Come portabandiera andò con loro e li accompagnò fino in Trentino Elisa Barozzi Beltrami, di cui già abbiamo parlato. La “Colonna Tibaldi” partecipò all'invasione del Trentino condotta, per volontà del Governo Provvisorio milanese dai “Corpi franchi” lombardi, reparti di volontari posti al comando del generale Michele Napoleone Allemandi (un patriota piemontese, in esilio da ventotto anni, colonnello nell'esercito svizzero, messosi subito a disposizione del Governo Provvisorio milanese). L'idea (elaborata, o comunque condivisa, da Teodoro Lechi, Comandante generale, cioè Ministro della Guerra, del Governo Provvisorio) era di forzare le difese austriache nelle Alpi Giudicarie e di aprirsi la strada verso Trento per bloccare i rifornimenti austriaci lungo la valle dell'Adige fino alle fortezze del Quadrilatero (Verona, Mantova, Legnago e Peschiera). L'intento era anche, visto che Trento si era sollevata contro gli Austriaci il 19 marzo e diversi comuni trentini sembravano intenzionati a fare altrettanto, di creare una sollevazione popolare alle spalle dell'armata austriaca. Iniziata il 5 aprile, l'operazione si sarebbe conclusa il 27 con il ritiro dei volontari italiani sulle posizioni di partenza.

Allemandi, nei primi giorni di aprile, giunse a disporre di una forza consistente in 5.000 uomini, divisi in “Colonne” (tra cui, oltre quella di Tibaldi, una comandata da Luciano Manara ed un'altra dal colonnello ticinese Antonio Arcioni), male armati e peggio equipaggiati, contro i 5.760 del comandante austriaco del Trentino, il colonnello Friedrich Zobel, che aveva però a disposizione truppe bene addestrate e conduceva una guerra di contenimento in attesa di rinforzi dall'Austria. Il teatro bellico costringeva, inoltre, l'attaccante italiano a procedere lungo percorsi limitati e prevedibili, negandogli ogni vantaggio tattico. Per di più, il generale Salasco, capo di stato maggiore dell'esercito piemontese, impegnato nell'attacco alle fortezze del Quadrilatero, rifiutò la proposta di Allemandi di dare il via ad un'offensiva del corpo sabaudo, parallela all'avanzata dei volontari. Può essere interessante sapere che i Volontari lombardi erano in prevalenza bergamaschi e bresciani (con una forte presenza dalla Valtrompia e dalla Valle Sabbia). Vi era poi un buon numero di ticinesi e 150 trentini, oltre ai cremonesi. All'inizio l'invasione sembrò funzionare e, seppure in maniera scoordinata, i volontari italiani occuparono alcuni paesi. Il 15 aprile avvenne un grave episodio. Vennero catturati a Santa Massenza dagli austriaci della Brigata di Zobel, 21 volontari lombardi. Portati nel castello del Buonconsiglio di Trento, furono fucilati sommariamente all'alba del giorno successivo. Gli austriaci infatti consideravano i volontari alla stregua di banditi o ribelli e non degli appartenenti ad un esercito regolare come poteva essere quello piemontese; per di più, i volontari erano spesso disertori dell'esercito austriaco. Quindi chi cadeva loro prigioniero subiva la condanna a morte. Tuttavia, il feldmaresciallo Ludwig von Welden, comandante delle forze austriache operanti in Tirolo, giunto a Trento il 17 aprile, resosi conto della gravità della cosa, ordinò ai suoi ufficiali il divieto di fucilazione dei prigionieri anche se disertori, eccetto le spie. Dei 21 giovani, 16 erano bergamaschi e quattro sconosciuti (fra cui fu poi identificato il volontario Luigi Blondel, svizzero d'origine e nipote di Enrichetta, prima amatissima moglie di Alessandro Manzoni).

Il contrattacco austriaco fu deciso, in accordo con le autorità di Vienna, dal Welden, il 17 aprile. Le comunicazioni con le città del Quadrilatero erano troppo importanti; perciò il 19 aprile, disponendo di circa 5.760 uomini e cinque cannoni, ordinò un attacco generale aiCorpi Volontari Lombardi.

La controffensiva riuscì.

A Sclemo il 19- 20 aprile vi fu uno scontro importante. Vista l'avanzata minacciosa degli austriaci verso Stenico, i volontari si posero a difesa dell'abitato schierando sul fianco sinistro, intorno al villaggio di Tavodo, la Colonna Arcioni, a destra si dispose la Colonna Manara a difesa di Villa Banale e Sclemo; tra i due, per collegamento i volontari cremonesi del Tibaldi. Al primo attacco nemico una compagnia di carabinieri svizzeri che si trovava all'interno di Sclemo si ritirò disordinatamente senza avvisare i comandanti; la fanteria austriaca ne approfittò entrando nel villaggio scardinando così il dispositivo italiano. Alcune testimonianze parlano di una trappola tesa agli italiani dai soldati austriaci (in realtà ungheresi), travestitisi con uniformi simili a quelle di un reparto di volontari.

I volontari cremonesi e quelli di Manara contrastarono, sotto un diluvio di pioggia, 2.000 austriaci del maggiore Scharinger von Lamazon. Sconfitti furono costretti a ritirarsi a Stenico e poi a Tione lasciando sul terreno numerosi morti e feriti, tra i quali i volontari cremonesi che avevano trovato rifugio in una stalla di Sclemo. Furono assassinati a baionettate!

Riportiamo la testimonianza di un ufficiale austriaco che partecipò al combattimento:

“...Le porte delle case trovate sbarrate vennero sfondate a colpi d'ascia dagli zappatori. Alcuni insorti che cercarono di fuggire attraverso gli orti vennero in parte uccisi in parte catturati. Appartenevano al corpo franco di Arcioni, ad una compagnia di Cremonesi ed alla legione Manara, le quali a Sclemo si erano messe di presidio. Nella notte che seguì furono catturati 9 insorti ed il mattino del 20 aprile altri 8; tutti vennero passati per le armi sul posto. il nemico aveva perso altri 35 uomini tra morti e feriti...”

17 fucilati, quindi, più 35 fra morti e feriti. Quanti i cremonesi? I numeri variano. Mi atterrei a quanto riportato da Fiorino Soldi (“Risorgimento cremonese”), che faceva riferimento ad uno scritto di Ercole Longhi, contemporaneo ai fatti. Uccisi a colpi di baionetta, dai soldati ungheresi infuriati anche per l'uccisione da parte italiana di un loro sergente, furono i cremonesi Achille Digiuni, Domenico Ferrari, Berengario Gabbioneta (ferito e già morente: per lui i volontari cremonesi si erano trattenuti), il fratello Annibale, Vincenzo Poglia, Anacleto Merli, Ferdinando Pizzola, Luigi Tarenzi, Cesare Verdelli. I corpi spogliati, i vestiti rubati.

Dopo la battaglia di Sclemo si giunse in fretta alla fine. Il 21 aprile Manara ricevette a Tione l'ordine del generale Allemandi di ritirarsi dal Trentino e raggiungere Bergamo e Brescia. Anche le altre Colonne retrocedettero, lasciando sul terreno diversi caduti. Non tutti in battaglia. Vicino a Storo cadde prigioniero il volontario Aristide Degli Antichi, di Monza, che venne sommariamente fucilato a Tiarno di Sopra per ordine del capitano Lainej che pare temesse potesse essere accolta la domanda di grazia inoltrata dal prigioniero al barone von Walden. Il 27 aprile, quasi tutti i volontari erano ormai assestati sulle posizioni di partenza, concludendo così la ritirata. Solo alcuni comuni, della Val Vestino essenzialmente, restano occupati "dagli insorti italiani" (torneranno in mani austriache alla fine della guerra).

Concludendo possiamo dire che furono diversi i motivi per cui la spedizione fallì. Anzitutto, i volontari erano male armati e male equipaggiati, senza denari e senza rifornimenti. Agirono staccati, divisi in piccole unità semiautonome, senza un accordo, un piano militare preciso, con ordini confusi. Il generale Allemandi non si mise a capo delle truppe ma seguì gli avvenimenti da lontano rinchiuso nel suo quartier generale di Salò. Inoltre, non avvenne la sollevazione popolare tanto attesa, anche se la popolazione accolse i volontari, in genere, con collaborazione e compiacimento. Infine, i Corpi vennero abbandonati a se stessi: nessuna collaborazione venne loro fornita dall'esercito piemontese.

La fallita impresa suscitò molta impressione in Lombardia e si levarono forti accuse contro l'inefficienza di Allemandi e del Governo provvisorio della Lombardia. Il Governo fu accusato di non aver pensato ai bisogni dei volontari, lasciandoli privi di denari, viveri e munizioni. Il generale fu incolpato di incapacità e, più ancora, accusato di tradimento. Venne arrestato a Bergamo e fu poi trasferito a Milano per salvarlo dall'esasperazione del popolo. Venne sostituito nel comando dal generale Giacomo Durando (fratello di Giovanni, comandante delle truppe pontificie).

I Corpi Franchi vennero riorganizzati: alcui reparti vennero sciolti e molti volontari se ne tornarono a casa, ma nel complesso svolsero ancora una funzione nel proseguio della guerra.

Il 5 giugno a Cremona vengono riaperti gli arruolamenti e si forma la “II Colonna Tibaldi”, formata da circa 300 volontari (fra cui il giovanissimo Giovanni Cadolini), che si dirige verso Montesuello. Ormai, però, la vittoria per gli austriaci si avvicina. Il 24 luglio Carlo Alberto viene sconfitto a Custoza. Il re ripassa da Cremona il 30 luglio, in un clima ben diverso da quattro mesi prima. Va a Milano, pensa ad un' ultima resistenza, poi cede e torna in Piemonte. Con lui vanno un centinaio di cremonesi, praticamente tutto il gruppo dirigente rivoluzionario. A Cremona l'unica autorità rimasta è il Vicario Capitolare Mons. Dragoni. È lui infatti che tratta la resa agli austriaci. La città, “addobbata a festa” dicono le cronache, li accoglie. Nessun saccheggio vi fu, “serbando un contegno che rare volte il vincitore serba col vinto” fa notare la Gazzetta Provinciale di Cremona del 31 luglio. In effetti, il comportamento dei militari austriaci fu corretto; d'altronde, anche i prigionieri dei cremonesi, rinchiusi a palazzo Persichelli, erano stati trattati bene ed addirittura da tempo liberati. Però, il comportamento delle autorità austriache, nei tempi successivi, fu duramente repressivo. Per otto mesi, dall'agosto del 1848 al marzo del 1849, la situazione restò come sospesa. Gli austriaci erano tornati, ogni attività “sovversiva” era vietata e gli arresti numerosi, ma la tensione in città e nei principali centri della provincia era ancora alta, in attesa dell'evolversi delle cose. Il 20 marzo del '49 Carlo Alberto riprende le ostilità. La seconda fase della prima guerra per l'indipendenza italiana dura poco: dopo soli tre giorni arriva la sconfitta definitiva, la “fatal Novara”. Gli austriaci annunciano subito l'amnistia, a condizione che i fuggiaschi tornino entro 15 giorni nei luoghi di residenza e prendano contatto con le autorità. Molti cremonesi esuli restano però in Piemonte, qualcuno va in Svizzera e poi in Toscana. Dopo qualche mese l'Amministrazione Austriaca procedette alla confisca dei beni dei non rimpatriati. In città ciò avvenne per le famiglie Araldi Erizzo, Bargoni, Cazzaniga, Albertoni, Binda, Barbò, De Lugo, Rigotti, Sommi, Trecchi. Anche l'abate Ferrante Aporti, colui che per primo in Italia aveva aperto scuole per l'infanzia, si trovò i beni sequestrati. Dalle testimonianze pervenute, risulta che alcuni non tornarono per scelta patriottica, altri perché proprio non si fidavano del perdono austriaco. In effetti, tra l'agosto '48 e l'agosto '49, in un solo anno cioè, vi furono 961 esecuzioni capitali nel Lombardo-Veneto; nel quinquennio successivo, di nuovo impiccagioni, processi, prigione, censura, tasse. Insomma, una durissima repressione, che solo nella seconda metà degli anni '50 cominciò ad attenuarsi. Questo va ricordato a chi parla solo dei meriti (pur esistiti), della benevolenza e della tolleranza interetnica dell'Impero asburgico!

Gli eventi del 1848 segnarono profondamente, dunque, la storia di Cremona e del Trentino, oltre che dell'Italia intera e di buona parte dell'Europa. A questi eventi si richiamarono in tanti negli anni successivi (v. il libro di Mike Rapport: “1848. L'anno della Rivoluzione”). I protagonisti democratici della Repubblica di Weimar, ad esempio. E, in tempi a noi più vicini, quelli delle Rivoluzioni del 1989 nei Paesi dell'Est Europa, Havel fra i primi. Gli ideali di libertà, democrazia e giustizia per cui morirono 170 anni fa quei giovani a Sclemo, sono dunque ancora vivi, anzi in gran parte da attuare: dovrebbe essere l'impegno di tutti noi.

Nella foto la banda di rigoli

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