L'occasione (ci riferiamo alla ricorrenza del 100° anniversario della scissione del PDI al 17° Congresso del PSI di Livorno e della contestuale fondazione del PCdI) sarebbe stata propizia anche una scesa in campo di autori della cultura socialista.
In realtà all'implicita chiamata in campo per una testimonianza che fornisse un approfondimento/attualizzazione delle ragioni storiche della parte “lesa” (della scissione) ha risposto (a quanto ci risulta) solo Mauro Del Bue con l'ancora caldo caldo saggio intitolato “La scissione comunista e le ragioni di Turati” e pochi altri volonterosi (tra cui la nostra testata che ha dedicato un forum, tuttora aperto).
Nel segnalare questo interessante lavoro, che indichiamo all'attenzione dei nostri lettori ed a cui dedichiamo questa recensione, aggiungiamo che al saggio si accompagna l'importante prefazione di Ugo Intini. La pubblichiamo per esteso. Ricordiamo che Del Bue ed Intini hanno in comune, oltre che un significativo excursus socialista e parlamentare, anche una non breve esperienza di Direttore dell'Avanti!. Intini, dell'Avanti! cartaceo fino alla conclusione del ciclo storico, Del Bue dell'avantionline, da cui si è dimesso per insanabile dissenso con la conduzione del PSI di Nencini.
L'AUTORE
Mauro Del Bue
Laureato in lettere e filosofia, di professione giornalista. Ha alle spalle un lungo curriculum di dirigente del PSI e di Parlamentare eletto in Emilia.
Dopo la morte di Craxi, è tra i fondatori della Lega socialista che confluisce nel 2001 nel Partito Socialista - Nuovo PSI di Gianni De Michelis, all'interno del quale nel 2002 è membro della Segreteria nazionale e nel 2003 viene nominato Vicesegretario nazionale dalla Direzione Nazionale del partito.
Nel 2007, allestito un doppio congresso del Nuovo PSI, la maggioranza aderisce alla Costituente socialista e pone Del Bue alla segreteria, la minoranza sceglie l'adesione al PdL.
Dopo la costituzione del PS, nelle elezioni politiche del 2008, a causa del mancato apparentamento con il PD deciso da Walter Veltroni, il gruppo dirigente socialista rifiuta i posti offerti nella lista del PD e si presenta autonomamente, non riuscendo ad eleggere alcun parlamentare.
Nel 2009, a seguito delle elezioni amministrative del 6 e 7 giugno, viene nominato Assessore allo Sport del Comune di Reggio Emilia dal sindaco PD Graziano Delrio. Nel maggio 2013 gli vengono affidate anche le deleghe per l'Ambiente[2]. Dal 2013 è direttore dell'Avanti!, quotidiano online del Partito Socialista Italiano.
Scrive nel frattempo ben 18 libri di storia politica, di sport e di filosofia. Progetta e realizza cicli di trasmissioni televisive sull'opera lirica, sui teatri, sui musei, sui palazzi storici, sull'ambiente. Ha frequentato il Conservatorio musicale, ha scritto decine di recensioni di opere liriche e due cd di canzoni. Dirige anche un giornale sportivo locale.
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Il Partito socialista a Reggio Emilia. Problemi e avvenimenti dalla ricostruzione alla scissione, Venezia 1981.
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Alberto Simonini, storia socialista di un italiano, Reggio Emilia 1985.
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Dal frontismo al riformismo. Il Psi tra Roma e Reggio Emilia, Bologna 1987.
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Storia di delitti e passioni, dal triangolo rosso alle bierre, Reggio E. 1995.
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Novecento, il libro del secolo, Montecchio 2001 e ried. 2004.
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L'apostolo e il ferroviere. Vite parallele di Camillo Prampolini e Giuseppe Menada, Montecchio 2006.
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Una storia Reggiana, vol 1, Montecchio 2004.
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Una storia Reggiana, vol 2, Montecchio 2007.
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Una storia Reggiana, vol 3, Montecchio 2008.
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Il poker del pugile, la vera storia di Gino Bondavalli, Montecchio 2006.
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La storia del socialismo reggiano, vol 1, Montecchio 2010.
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La storia del socialismo reggiano, vol 2, Montecchio 2011.
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La storia del socialismo reggiano, vol 3, Montecchio 2012.
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Filosomia, la storia della filosofia secondo me, Sassoscritto, Firenze, 2012.
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Il primo cooperatore. Contardo Vinsani, il socialista utopistico, Casalgrande 2016.
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Idee in Avanti. Tre anni di direzione del quotidiano socialista, Roma 2016.
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L'unità... storia di divisioni, scissioni, espulsioni e sconfitte della sinistra italiana, Reggio Calabria 2018.
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Una storia Reggiana, vol. 4, Reggio Emilia 2019.
LA PREFAZIONE
di Ugo Intini
Le ricostruzioni storiche di Mauro Del Bue hanno ormai una loro “identità” molto originale. Entrano in particolari minuti, così da rendere non solo la verità storica, ma anche l'atmosfera e le passioni dei protagonisti. Hanno lo stile del cronista e trasformano perciò la narrazione in un vivido reportage giornalistico. Seguono il ritmo di una rappresentazione teatrale, incalzante e drammatica. Il risultato è che eventi di un secolo fa sembrano a tratti svolgersi sotto i nostri occhi, acquistando la caratteristica non di un pallido ricordo lontano, ma della vivida realtà.
Tutto è stato detto su Livorno (e lo sarà nei prossimi mesi per la ricorrenza del Centenario). Posso soltanto aggiungere qualche elemento di contorno, marginale ma forse utile. Come diceva Turati, è stato il “culto della violenza” ciò ha diviso i socialisti dai comunisti. Così come il loro estremismo, l'intolleranza, la criminalizzazione dell'avversario politico. Ma tutto ciò non ha diviso i comunisti dai fascisti. Anzi, è stato comune a entrambi. E infatti a volte li ha avvicinati, perché gli estremi possono anche toccarsi e persino fondersi tra loro. Il metodo (in questo caso la violenza antidemocratica) può persino diventare più importante della sostanza, ovvero dell'obiettivo politico.
Un protagonista della scissione di Livorno può essere considerato il simbolo della commistione tra gli opposti estremismi del comunismo e del fascismo: si tratta di Nicola Bombacci (non per caso sottovalutato o dimenticato). Deputato, leader massimalista come Mussolini (e suo amico), fu per breve tempo addirittura segretario del partito socialista. Fu lui a proporre l'adozione della falce e martello come simbolo: per “fare come in Russia”. Lui fu nel gruppo ristretto di dirigenti (si contano sulle dita di una mano) che, come si legge nelle pagine seguenti, guidò a Livorno la scissione. Lui estrasse la pistola al culmine dello scontro con i “Turatiani”. Poi diventò fascista, ma fu un personaggio tragico, non privo di dignità, idealismo e coerenza. Durante il Ventennio, si mise in disparte, perché era pur sempre un “rivoluzionario” e non apprezzava “l'imborghesimento” del regime. Nel 1943, tornò dal suo amico Mussolini a Salò, sperando di poter finalmente compiere “la rivoluzione”. Ispirò la carta sociale del nuovo regime (definito non a caso “Repubblica sociale”), fu tra i suoi capi più autorevoli e finì tragicamente appeso con Mussolini in piazzale Loreto.
Il discrimine della violenza ha segnato tra i socialisti e i comunisti una differenza quasi antropologica. Un episodio apparentemente piccolo può spiegarlo meglio di un trattato filosofico. Nel 1919, i leader socialisti del momento (Maffi, Riboldi e Lazzari) andarono per incontrare Lenin a Mosca. Affascinati e intimiditi tra i saloni del Cremlino, arrivarono al suo cospetto. “Bravi-disse Lenin-avete occupato le fabbriche. E adesso dei padroni cosa farete?”. Sguardo interrogativo dei tre compagni socialisti. “Uccideteli!” -tagliò corto Lenin. Allora Lazzari, a nome di tutti, si fece coraggio e rispose. “Noi a Milano siamo brava gente, queste cose non le facciamo”. Da quel momento, i comunisti italiani appiccicarono a ciascuno dei tre un nuovo nome: “Mafioso, Ribaldo e Lazzarone”. Perché, come si sa, caratteristica della “casa” comunista è sempre stata l'aggressione (se non fisica, morale) contro gli oppositori.
Nella prefazione al libro di un direttore dell'Avanti! è giusto ricordare il ruolo che nella drammatica scissione ha svolto il quotidiano socialista. Nella storia infatti è rimasto impresso il nome di Livorno, ma tutto si preparò e si decise all'Avanti! così che il congresso e la scissione furono soltanto l'ultimo e scontatissimo atto.
Nel 1920, l'Avanti! era il più diffuso e importante quotidiano: l'unico veramente nazionale, con tre redazioni e tipografie (a Milano, Roma e Torino). Gramsci era di fatto il direttore dell'edizione di Torino, la spinse su posizioni sempre più estremiste e bolsceviche, fino a che il direttore centrale Serrati, da Milano, esasperato, la chiuse. Era il 31 dicembre 2020. Il giorno dopo, Gramsci, con i suoi redattori Terracini e Togliatti, trasformò l'"Avanti!" di Torino in "Ordine Nuovo" quotidiano (la culla del partito comunista): con gli stessi telefoni, la stessa tipografia e le stesse scrivanie. Il dibattito preparatorio del congresso si svolse sull'Avanti! Lenin, che leggeva il giornale perché parlava perfettamente francese e capiva quindi l'italiano, scrisse un articolo di 10 cartelle per sostenere la necessità di espellere dal partito Turati. E Serrati gli rispose di no, contestando le sue tesi con altre 10 cartelle. Il direttore dell'Avanti! a Livorno, resistette e il congresso rifiutò di concedere ai comunisti la testa di Turati. Ma alla fine del 1922 la situazione era cambiata. Perché il trionfo ormai consolidato dei bolscevichi aveva trasformato Mosca in un faro mondiale e perché la rottura con i riformisti di Turati e Matteotti era comunque ormai avvenuta (attraverso il congresso dell'ottobre 1922, incredibilmente finito con una nuova scissione a poche settimane dalla marcia su Roma dei fascisti). Serrati nel dicembre 1922 andò dunque al Cremlino e alla fine capitolò, accettando che Gramsci diventasse condirettore dell'Avanti! e che il partito, da “socialista”, si chiamasse “comunista”. Nenni era in quel momento il suo “numero due”: il capo redattore del quotidiano a Milano. Quando da Mosca giunse la notizia della resa, si ribellò e, con un articolo famoso, invitò i compagni alla resistenza. Si indisse un congresso straordinario e l'autonomia vinse: Serrati fu sconfessato e se ne andò. Lo slogan decisivo, lanciato da Nenni con il suo articolo, fu: “una bandiera non si getta in canto come cosa inutile”. Tutto il dramma dunque si consumò sulle pagine dell'Avanti! e nelle sue redazioni.
Leggendo questa cronaca di Livorno, nasce spontaneamente una domanda: cosa mai sarebbe accaduto se gli scissionisti avessero dato ragione a Turati in tempo utile, come d'altronde egli stesso aveva previsto e auspicato nel suo discorso? Togliatti certamente non lo avrebbe mai fatto. Perché così scrisse del leader socialista. “Nella persona di Turati si sommano tutte le tare, tutti i difetti che sin dalle origini viziarono e corruppero il movimento socialista italiano, che lo condannarono al disastro, al fallimento, alla rovina. Per questo la sua vita può bene essere presa come simbolo. L'insegna sotto cui questa vita può essere posta è l'insegna del tradimento e del fallimento. Nella teoria Turati fu uno zero. Dei vecchi capi riformisti, egli fu il più lontano dal marxismo, fu un retore sentimentale, tinto di scetticismo. Le famose frasi lapidarie di Turati sono dei motti, delle banalità, delle cose senza senso alcuno. Organicamente egli era un nemico aperto della rivoluzione. Turati fu tra i più disonesti dei capi riformisti, perché fu tra i più corrotti dal parlamentarismo e dall'opportunismo. La borghesia per conto della quale egli aveva fatto il poliziotto, il crumiro e predicato viltà, non aveva più altro da dargli che il calcio dell'asino”. Sono parole che pesano ancora di più per il loro contesto. Furono scritte infatti subito dopo la morte del vecchio leader riformista, in qualità di “necrologio”.
Terracini, come ci ricorda Del Bue, riconobbe nella sua ultima intervista, del 1983, che Turati aveva ragione. Gli altri comunisti arrivarono ancora più tardi: dopo la caduta del muro di Berlino, quando perciò era inevitabile (per il semplice motivo che “fare come in Russia”, anche volendo, non si poteva più, dal momento che la Russia comunista si era dissolta). Avrebbe mai potuto Gramsci (a differenza di Togliatti) fare lo stesso mezzo secolo prima, salvando così la sinistra italiana? Chissà, forse (almeno in parte) sì, perché qualche indizio ci dice che dal carcere aveva cominciato a capire cosa fosse il comunismo sovietico. E soprattutto perché Gramsci era certamente un idealista, onesto intellettualmente. Ce lo suggerisce anche il suo rapporto con l'Avanti! che (stranamente) è quasi ignorato dagli storici. Ma che lui stesso ricorda. “Sono entrato nell'Avanti! quando il partito socialista era ridotto agli estremi e tutti i capaci di scrivere ripudiavano il partito. Sono entrato all'Avanti! liberamente, per convinzione. Nei primi giorni del dicembre 1915 ero stato nominato direttore del ginnasio di Oulx, con 2.500 lire di stipendio e tre mesi di vacanza. Il 10 dicembre 1915 mi sono invece impegnato per l'Avanti! per 90 lire al mese di stipendio, cioè 1.080 lire all'anno. Potevo scegliere: se ho scelto l'Avanti! ho certo diritto di affermare che sono mosso da una fede e da una convinzione profonda”. Il povero Gramsci, che era un giornalista (e orgogliosamente un giornalista dell'Avanti!) aggiunge. “Sono stato ininterrottamente redattore dell'Avanti! dal 10 dicembre 1915 al 31 dicembre 1920: cinque anni e venti giorni. Delle centinaia e migliaia di articoli di fondo, note in corsivo, note di cronaca, recensioni teatrali che ho scritto nella redazione dell'Avanti! non è stato cestinato nulla. Ho scritto tante righe da poter costituire 15 o 20 volumi di 400 pagine, ma essi erano scritti alla giornata e dovevano, secondo me, morire dopo la giornata“.
Mi piace ricordare Gramsci in questo modo, perché il suo idealismo e la sua umanità mi fanno pensare che non avrebbe trattato Turati come Togliatti. Ma anche perché alcune delle sue parole ricordano il lavoro di Del Bue e colpiscono per la modernità. Mauro dirige un quotidiano diffuso on line, come sempre più avverrà nel futuro dei media; gli scritti on line, in quanto tali, tendono a essere “scritti alla giornata” e a “morire dopo la giornata”. Anche se i suoi, per la coerenza politica e il rigore, rimangono spesso attuali negli anni. Gli auguro di poter ancora scrivere per l'Avanti! quanto basta per raggiungere virtualmente i “15 o 20 volumi di 400 pagine”. E l'intensità del suo lavoro fa sospettare che vi si stia avvicinando. Del che, come tanti compagni e amici, lo ringrazio.