Dagli scritti di Andrini spunti per una riflessione sui tornanti della storia (comunista)
Nonostante le angustie temporali di un sabato mattina, di per sé non esattamente incline a favorire partecipazione ed ampi dibattiti e per di più spintonato dall’ accerchiamento dell’ incipiente festa torronara, la Conferenza di presentazione delle memorie di Adriano Andrini si è rivelata, per il peso delle relazioni e degli approfondimenti del breve ma significativo dibattito, sicuramente degna di essere annoverata tra gli eventi più interessanti della memorialistica cittadina.
Di ciò va dato atto e merito all’inesauribile verve culturale ed alla generosità di Mario Coppetti, al fervido impegno di ricerca di Giuseppe Azzoni, all’apprezzabile dedizione della Società Filodrammatica e del suo presidente Mantovani, all’ANPI ed all’Associazione Zanoni, nel favorire costantemente occasioni di conoscenza e di approfondimento.
Con la brochure intitolata “TRE VIAGGI NEL PASSATO” e con la Conferenza il patrimonio della memoria storica è stato arricchito dalla riproposizione di una figura significativa dell’antifascismo, della storia partigiana e della vita politica cremonese, diversamente destinata all’oblio,.
La figura di Adriano Andrini, sacrificata dal lento ma inesorabile risucchio della memoria azionato dal cambiamento delle mode e, soprattutto, dalle distrazioni di un contesto poco proclive a fissare e valorizzare le testimonianze civili virtuose, sarebbe stata destinata ad uscire definitivamente dal radar della conoscenza.
Nei due soli interventi, brevi, ma si ripete, di spessore, dell’avv. Ermete Aiello e di Ilde Bottoli, c’è la chiave per capire quanto farebbe bene, invece, ricordare e preservare le fonti (documentali o, come nella fattispecie, semplicemente memorialistiche); cui saldare una corretta ed istruttiva analisi storica.
C’è nell’impulso alla trascuratezza ed alla facile smemoratezza anche la componente di un cinismo che dimentica in omaggio al conformistico impulso al delisting delle figure, diciamo così, “scomode”.
L’ha annotato Aiello, che di Andrini fu (e resterà) compagno ed amico. E che, differentemente dai distratti e forse anche da coloro che, a distanza di un trentennio, non seppero sottrarsi alla consegna della peggior forma isolamento, rappresentata dalla amnesia decretata nei confronti di un apostata, non ha girato le spalle all’imperativo morale di non dimenticare.
Sia chiaro che nessuno ha inteso prendere le difese o rivalutare il pensiero ed il gesto che portarono Andrini fuori della “linea” comunista. Per tutto ciò che già rappresentavano quasi sessant’anni fa ed, a maggior ragione, per ciò che quella scelta e quelle motivazioni rappresenterebbero oggi.
Non c’è solo il valore degli scritti di “Primo” (alias “Rino”), che sono una sorta di reportage ante litteram, suscettibile, come ha convenientemente sottolineato la coordinatrice dei “viaggi della memoria”, di costituire una prova, immateriale ma non meno possente, dell’atrocità nazista e del tentativo di sminuirla. Anche attraverso un negazionismo che si avvaleva (già allora, all’esordio dei pellegrinaggi) della distruzione delle fonti fisiche e, quando impossibile, del depistaggio dei portatori dell’impulso a conoscere.
Bottoli, in stretta connessione con le memorie di Andrini e Coppetti, protagonisti di quei primi viaggi, ha ricordato che, mentre la generazione coeva e quella immediatamente successiva all’ignominia si applicarono alla cancellazione delle prove materiali delle atrocità, adesso, invece, le nuove leve della Germania e dell’Europa intera vogliono sapere.
In questo senso le constatazioni, le annotazioni, le riflessioni di Andrini costituiscono, attraverso la preservazione delle fonti, un’occasione per potenziare il contrasto al negazionismo od alla montante tendenza alla neghittosità culturale ed alla derubricazione del valore civile del non dimenticare mai.
I protagonisti di questa operazione di preservazione della memoria hanno ricordato che una parte dell’edizione resterà disponibile dai prossimi giorni nella sede dell’ANPI ed in alcune librerie cittadine.
Per amplificarne la libera e gratuita accessibilità L’Eco del Popolo, con l’autorizzazione degli eredi Andrini, ne ha postato on line l’intero testo.
Detto del valore culturale e morale della pubblicazione, non possiamo certamente sfuggire all’interrogativo, posto dal prof. Giancarlo Corada in occasione del simposio con cui Cremona ha voluto, festeggiando i 103 anni di Coppetti, anche rivisitarne il ricco profilo biografico.
Corada si è chiesto ed ha chiesto le ragioni per cui un contributo, ribadito anche recentemente con accenti non equivoci, possa rendersi compatibile con lo sforzo che fa riemergere alcuni profili di per sé scabrosi e divaricanti, come quello di Andrini.
Ma, quando si imposta una comune testimonianza civile nel pieno della gioventù, quando si impiega la parte più feconda dell’esistenza in una ricostruzione morale e materiale all’insegna della libertà e dell’uguaglianza sociale, quando si condivide, pur nella diversità (spesso marcata, come nel caso di Coppetti e di Andrini) delle opinioni politiche, un edificante impegno nell’amministrazione cittadina, allora la riflessione di Corada piega verso una facile risposta. Che non può non tener conto della saldezza, nel tempo e a dispetto delle diversità, di un rapporto radicato nella solidarietà di fronte ai pericoli e, soprattutto, nell’amicizia.
Già, l’amicizia! Che il socialista rosselliano, poi (passando per l’accusa di social traditori rivolta dai comunisti a tutti i socialisti) saragattiano, Coppetti ha dimostrato di possedere in dosi massicce nei confronti del compagno comunista Andrini. Caduto in disgrazia per non aver voluto piegare il capo al conformismo imperante in un’organizzazione partitica, in cui l’adesione anche acritica al leader era condizione di appartenenza.
Aggiungiamo che non condividiamo neanche uno dei capisaldi del pensiero politico che, al netto della testimonianza antifascista e partigiana, avrebbero portato nel 1962 Andrini ad escludersi (per coerente testimonianza del suo dissenso) da una comunità di cui era stato fin lì parte. Il PCI e l’apparato rappresentavano, con un saldo ancoraggio al pensiero dogmatico ed a una solidarietà desueta per qualsiasi libera associazione, qualcosa di imparagonabile ad altro aggregato politico-organizzativo.
Costituiva qualcosa di ben diverso come comunità preposta al conseguimento di un progetto di trasformazione della società e qualcosa di molto diverso come struttura dirigente sottoposta ad un codice comportamentale sconosciuto nella teoria e nella prassi del restante associazionismo politico (se non per una parte del socialismo italiano, che fino alla fine degli anni 50 ne mutuò e replicò l’impostazione).
Esserne membro significava far parte dell’ossatura organizzativa del più forte partito comunista d’Occidente; ma anche condividere un prestigio ed un complesso di regole, ispirate dalla cifra, in quel tempo, marcatamente leninista/stalinista.
Tra cui l’aderenza all’imperativo di sentirsi parte di un aggregato (il partito e gli organismi collegati), vocato a tradurre concretamente nei fatti quel progetto di trasformazione (non gradualista) della società.
Che presupponeva (l’abbiamo già scritto in qualche precedente profilo biografico), non solo la dedizione assoluta alla testimonianza politica, ma anche una scelta esistenziale; che, ad eccezione della famiglia, prevedeva l’abnegazione esclusiva alla causa cui avevi deciso di dedicarti.
Il mondo comunista fu posto, a metà degli anni 50 del ventesimo secolo, di fronte ad uno dei più significativi sconvolgimenti mondiali e ad una delle più marcate criticità interne determinate sia dalla morte del satrapo per eccellenza e sia dai primi sinistri scricchiolii dell’intelaiatura sovietica.
Il xx Congresso del PCUS, pur in un’evidente prospettiva di continuità del sistema rivoluzionario, avrebbe sfoltito i picchi dell’ortodossia staliniana; ma anche aperto delle falle nella dialettica tra aperturisti e continuisti.
Era questa una delle non rare congiunture, in cui i comunisti, sempre beneficiari della narrazione dell’epopea rivoluzionaria ed anti-hitleriana, si trovavano nella morsa di avvenimenti soverchianti, che imponevano un’accelerazione nei tempi delle risposte ineludibili.
La tematica, su cui impostare l’analisi, la risposta politica, la mobilitazione, forse per la prima volta, costituiva un passaggio molto angusto. Per i militanti, posti di fronte ad un combinato di incredulità e di sconcerto, e per il quadro attivo, chiamato a destreggiarsi nella tenaglia del centralisimo democratico (uno dei più importanti perni della prassi comunista)
I fatti polacchi e tedesco-orientali erano stati una prima avvisaglia. Di lì a poco sarebbero arrivati quelli di Budapest. Che, per dimensioni e clamore, avrebbero costituito qualcosa di più di un vulnus alla coesione del mondo comunista.
Un vulnus che avrebbe dovuto misurarsi con l’interrogativo sulla capacità del comunismo mondiale di prevenire l’insurrezione motivata dall’insopportabilità della miseria, ma, soprattutto, sull’evidente inconciliabilità tra dittatura del proletariato ed esercizio della democrazia e della libertà.
Fare spallucce e controbattere che quelle libertà e quella democrazia erano prerogative “borghesi” non sarebbe bastato per eludere una questione che stava avvantaggiando, almeno sul piano dell’indotto propagandistico, il pensiero liberal-democratico occidentale (e zavorrando quello rivoluzionario).
A Cremona, in quella metà degli anni 50, il dibattito si sarebbe attestato, in vista dell’VIII Congresso Nazionale, immaginato dal “Migliore” come occasione per rimodulare la linea alle conseguenze dell’autocritica Kruscioviana, su tematiche in parte tradizionali ed in parte nuove: la coesistenza internazionale, gli sforzi per evitare le guerre, la pace, le vie nuove per la conquista del Socialismo.
Ma era di tutta evidenza la difficoltà a metabolizzare in toto il senso e la portata delle criticità emerse nel primo congresso post-staliniano.
Mentre a Roma, il dibattito era destinato a rivelarsi ricco di divergenze importanti e clasmorose, la risposta ai fatti di Poznan e di Budapest, a Cremona, pur mettendo a nudo falle di modesta entità, aveva registrato una sostanziale tenuta del tessuto unanimisitico.
La cartina di tornasole della potenziale divaricazione interna sarebbe stata azionata dalla discussione, prodotta dagli imprevedibili sviluppi della rivoluzione magiara e tenuta segreta nonostante la sua ineludibilità.
Un confronto che avrebbe posto le coscienze, toccate dall’enormità della risposta repressiva, di fronte ed in contrasto con le granitiche fedeltà al continuismo sovietico.
Poi, come nella gran parte del percorso della teoria e della prassi comunista, tutti i salmi sarebbero, ma con qualche contraccolpo anche significativo, finiti nella gloria dell’abilità della nomenklatura di assorbire ogni dissenso.
Ma l’esito del dibattito (lo avremmo saputo a posteriori, molto a posteriori) si presentò fin dalle prime battute tutt’altro che scontato.
Le prese di distanza sarebbero state non proprio un’inezia. Ma di sicuro la granitica nomenklatura, fatta di dedizione e di conformismo, non ne sarebbe risultata scalfita più di tanto (sol se si pensa che neanche dieci anni dopo il PCI avrebbe iniziato una marcia elettorale trionfale destinata a consolidarsi fino all’ammaina-bandiera dalla torretta del Cremlino).
Solo molto più tardi, nella coesione salda e nella capacità di raccolta e di mobilitazione del PCI, si sarebbero manifestate delle fessure.
Ma in quell’autunno/inverno 1956/57 pochi furono i dirigenti potenzialmente orientati a trarre dai clamorosi fatti e dalla loro lezione sintesi suscettibili di incidere nelle coscienze e nelle scelte.
Mentre alcuni avrebbero lasciato il PCI, sulla stregua di una risoluta condanna per i fatti d’Ungheria, altri si apprestavano, come Adriano Andrini a trarre conclusioni, uguali ma di opposta direzione.
Il percorso non sarebbe stato breve. Perché coloro che stavano elaborando e metabolizzando la repulsione della destalinizzazione appartenevano ad un’esperienza politico-esistenziale poco incline ai colpi di testa.
La discussione sui fatti di Budapest sarebbe servita da detonatore. La continuazione del dibattito avrebbe provocato l’innesco dell’opzione tra i due contrapposti modelli di comunismo: quello sovietico, alle prese con le denunce antistaliniane, e quello cinese, che delineava chiaramente la volontà di sostituirvisi nel ruolo di guida dell’ideologismo dogmatico.
In quegli anni si stava ingaggiando una rincorsa alla versione estrema dell’ideologismo.
Correva il detto: “Il y a toujours un pur, plus pur, qui t'épure”.
Tali sviluppi, si ripete, erano già insiti nel dibattito, protetto dall’omertoso centralismo democratico. Ed il senso delle scelte future sarebbe stato facilmente deducibile dagli interventi di quel tardo autunno del ’56.
La riunione del 29.10.1956 (programmata quasi sicuramente prima dell’acuirsi delle tensioni ungheresi) prevedeva un ordine del giorno del tutto privo di riferimenti ai fatti di Budapest (1° Il progetto delle tesi per l’8° Congresso de PCI – Per una via italiana al socialismo – 2° Varie).
La progressione del confronto non sarebbe stata, almeno all’inizio, condizionata dal freno a mano esercitato dall’occhiuto ed ossessivo controllo centrale. In qualche misura, senza poter affermare che si era in presenza di una discussione libera, le posizioni in campo apparivano sufficientemente delineate lungo due opposte linee-guida: lo sconcerto determinato dalla constatazione di un volto ferocemente anti-democratico della patria del socialismo e, dall’altro lato, la continuistica difesa d’ufficio della “ditta”.
Tra i primi e tra i meno equivoci a testimoniare questo seconda linea fu Adriano Andrini. Che era stato, fin dalla Liberazione, ai vertici della federazione comunista, del sindacato e della cooperazione. L’anno successivo sarebbe diventato assessore comunale (bravo a detta di chi lo conobbe all’opera) del capoluogo nella giunta di sinistra presieduta dal socialista Feraboli (che aveva come vice il prof. Coppetti e come altro assessore il già Sindaco della Liberazione avv. Calatroni).
Dopo essersi posto il quesito se gli avvenimenti di Polonia e Ungheria mantenessero ancora valido l’esame fatto al XX Congresso sui contrapposti sistemi socialista e capitalista, sostenne: “All’atto del XX Congresso sembra che non si conoscevano a fondo le situazioni dei vari paesi. Infatti gli avvenimenti di questi giorni pongono in dubbio la solidità del sistema socialista e non si sa come andranno a finire gli altri Paesi. I compagni sovietici non si rendevano conto di quello che avveniva negli altri paesi; avrebbero dovuto, non solo dire certe cose, ma agire di conseguenza. Oggi si rivendicano delle libertà, eguaglianza, indipendenza dall’URSS…
Bisogna concludere perciò che il XX Congresso ha posto male, con leggerezza, le questioni della destalinizzazione. …La via italiana al socialismo, che prospetta di far arrivare la classe operaia alla direzione dello Stato, può avvenire su un terreno di lotta parlamentare, costituzionale? Ne dubito”.
Nella successiva seduta del 25.11. 1956, tra gli altri, interverrà di nuovo.
Avrebbe continuato a sostenere coerentemente “Si è detto che si dove fare subito il congresso per togliere il Partito da una situazione di incertezza. Ciò che è avvenuto in questi giorni non contribuisce certamente ad accelerare la preparazione del Congresso…
Il Partito non avverte, non discute il problema della via italiana al Socialismo e nemmeno si occupa dei fatti di Ungheria, ecc perciò ora il congresso sarebbe di quella minoranza di compagni che seguono queste questioni…”
Reitera una già posta domanda: se gli avvenimenti di Polonia e Ungheria mantenessero ancora valido l’esame fatto al XX Congresso del PCUS sul sistema socialista e capitalista. “Gli avvenimenti di questi giorni pongono in dubbio la solidità del sistema socialista…”
Parole che, come si ha fondato motivo di convenire, difficilmente avrebbero posto i testimoni di un sofferto ma deciso dissenso di fronte a conformistici ripiegamenti.
Togliatti si sarebbe limitato a mettere in riga i non molti dissidenti (almeno quelli che si erano manifestati pubblicamente).
Poche ma significative dimissioni spontanee (alcune coperte da contestuali espulsioni) e poche radiazioni od espulsioni.
Et voila, il PCI che scaturisce dai “fatti” ungheresi è un partito più forte e coeso di prima; mentre nei “partiti fratelli” d’oltre-cortina si sarebbe imposto uno stalinismo soft senza Stalin.
L’assorbimento dei dissensi avrebbe comportato un non trascurabile lavoro di ricucitura. Anche se sarebbe rimasto maggiormente dislocato sul versante della condanna dell’intervento di stroncatura della sollevazione magiara.
Più facile sarebbe stata l’operazione di assorbimento del dissenso inverso; vale a dire di critica all’indirizzo kruscioviano.
Il Congresso del gennaio 1957 avrebbe asciugato il dissenso interno nei confronti dell’intervento repressivo dell’Armata Rossa. Un’operazione questa favorita dalla saldatura tra la cinica conduzione togliattiana, ben determinata a perseguire la linea “centrista”, e l’ovvio aiutino dei circoli di stretta obbedienza sovietica.
Che seppero cogliere nella problematica congiuntura l’opportunità per mettere a carico della destalinizzazione le conseguenze ribellistiche avvenute in molti dei paesi fratelli d’oltre-cortina.
Nella gestione dell’affaire Budapest, vale a dire del perseguimento dell’obiettivo di piegare qualsiasi concessione alle tesi critiche nei confronti dell’URSS e di assorbire nella linea centrista e sostanzialmente continuistica (per quanto impregnata dalle venature di doppismo di Togliatti) tutte le posizioni interne, si dispiegò una significativa concentrazione dei sostenitori della linea “militarista” del PCI.
Il termine “militarista” si presta (per il cultori della rivisitazione della storia interna del PCI) ad una vasta gamma interpretativa. Che, partendo da sofistiche distinzioni di valenza semantica, vorrebbe restringere il campo di quella testimonianza con l’obiettivo di rarefarla se non addirittura di denegarla.
Qui noi andiamo per approssimazione, attingendo dalla descrizione del politologo e storico Sergio Romano: “Esisteva nel PCI un’ala radicale che non aveva rinunciato alla speranza di trasformare la guerra di liberazione in una guerra rivoluzionaria e che cercava di conservare intatto l’apparato militare della Resistenza. Può darsi che Togliatti abbia giocato su due tavoli, senza mai abbandonare la prospettiva più radicale. Ma era fondamentalmente convinto che i ruolo del PCI nella società italiana sarebbe stato tanto più efficace e credibile quanto più il partito avesse contribuito alla normalizzazione della vita pubblica ed alla ricostruzione del sistema politico ed istituzionale. “
Vero è che nelle congiunture topiche tale “sensibilità” scendeva in campo; come nel caso del contrasto alla dilagante delegittimazione di un vasto fronte esterno ed ai dubbi e critiche interni attivati dai fatti del ’56. Per farsi sentire e per condizionare la barra delle opzioni, con tutto il peso politico ed il potere di condizionamento derivante dai collegamenti internazionali e dall’occupazione di posti chiave nell’organizzazione del PCI.
Ancor più difficile diventava l’impresa di trovare una versione condivisa dell’identificazione precisa dei testimoni di tale tendenza che fossero anche di cieca obbedienza a Mosca.
Alcuni di loro avevano bazzicato la capitale mondiale del comunismo durante l’esilio antifascista ed avevano, come il “Comandante” Vaia, operato in quasi tutto lo scacchiere mondiale per conto della nomenklatura staliniana.
È il caso, appunto, del generale gussolese, che, formatosi alla scuola militare sovietica, avrebbe partecipato alla guerra civile spagnola e fornito un contributo importante alla Liberazione.
Come già abbiamo sostenuto in occasione della rivisitazione dei fatti ungheresi dieci anni fa, Vaia ebbe, con la sua partecipazione alla discussione negli organi federali cremonesi del PCI, un ruolo importante nella saldatura dei supporters di Mosca.
Nella capitale del Po operava da tempo un autorevole triangolo dei sostenitori dell’eventuale ricorso alla “spallata” agli equilibri post-bellici in chiave sovversiva, che l’epilogo della Resistenza e gli sviluppi elettorali del 1948 avevano marginalizzato nelle quadro delle opzioni strategiche.
Qui da noi, però, operava un autorevole coté incline a mantenerla, si sa mai, a portata di mano, in un immarcescibile quadro di fedeltà ai canoni leninisti e stalinisti.
A Vaia si riferivano Stella Vecchio, deputata eletta nella circoscrizione (e sua consorte), Bera, autorevolissimo dirigente. Tutti coordinati dal segretario milanese lombardo Giuseppe Alberganti; a sua volta strettamente collegato al potentissimo (prima del disgraziato affaire Seniga) vicesegretario Pietro Secchia, noto plenipotenziario di Mosca nei piani alti delle Botteghe Oscure e quotidiano frequentatore dell’ambasciata sovietica in Italia.
Che Cremona fosse stata e fosse ancora in quegli anni una sorta di epicentro delle suggestioni militariste, prerogativa di certi ambienti del PCI, è dimostrato, oltre che dal peso da essi esercitato nell’epilogo della discussione interna sulla questione ungherese, anche dall’emersione di alcuni particolari nel clamoroso caso Secchia/Seniga.
Per dipanare l’intricata matassa del quale, il vice di Togliatti, prossimo a cadere in disgrazia, si apprestò alla spasmodica ricerca di contatti con l’infedele stretto collaboratore. Con cui, alla fine riuscì ad incontrarsi almeno due volte presso la sede della Federazione di Cremona. A tali incontri avrebbe partecipato anche Arnaldo Bera, un dirigente di partito che conosceva Seniga da quando era operaio all'Alfa. La cui partecipazione era influenzata dall’ansia di trovare un accomodamento ad una criticità dagli effetti mediatici devastanti.
Secondo una ricostruzione, il cui fondamento fattuale è tutto da verificare, pare che Seniga, accompagnato da famigliari e sodali, fosse armato e non disponibile ad accogliere l’invito “distensivo” di Bera, che, aprendo la giacca, gli avrebbe detto: "Non ho nemmeno un temperino. Butta le armi ".
La verifica di siffatta circostanza non cambia molto nella corretta interpretazione di quelle suggestioni interne al PCI.
L’archiviazione dei postumi della crisi ungherese, avvenuta all’insegna della continuità della soggezione del PCI all’oligarchia moscovita, non disinnesca completamente i germi della contrapposizione attivata dal corso della destalinizzazione.
Dagli esiti, come si vedrà nel prosieguo, non scontati a Mosca, ma neanche nel PCI. Al cui interno, per quanto minoritarie, continueranno ad esprimersi sensibilità contrarie alla revoca di un ciclo che aveva permeato per oltre trent’anni la storia dell’URSS e della nutrita schiera dei partiti fratelli raccolti nel Cominform (la più parte dei quali restavano rineserrati nella “cortina di ferro”).
Insomma, le questioni aperte e non completamente risolte dal XX Congresso sovietico, sembrano subire un’accelerazione per effetto delle conseguenze degli scenari mondiali e dell’approfondimento delle spaccature nei rapporti del fino al 1953 compatto comunismo internazionale.
Si approfondisce la ferita, come ricorda bene la relazione di Azzoni, tra il comunismo cinese e quello sovietico; con una tendenza alla proiezione nella realtà nazionale di molti partiti fratelli.
Per quanto assolutamente minoritaria la tendenza fa capolino al X Congresso Nazionale e viene clamorosamente interpretata dalla testimonianza di Adriano Andrini.
A questo punto sia consentita una digressione di alleggerimento attorno alla decima assise nazionale di un partito il PCI, che, pur stretto nelle acuzie della propria situazione interna e dagli avvenimenti mondiali, restava pur sempre una forza di prima fila negli scenari politico-istituzionali interni e, per quanto non ci potrà mai essere la prova provata (in quanto nei paesi comunisti affratellati le elezioni con il loro consenso “bulgaro” rappresentavano poco meno di una sinecura propagandistica), il più votato partito comunista d’oriente e d’occidente.
I Congressi nazionali del PCI avevano un loro format particolare. Dovevano fissare pubblicamente una linea già ampiamente delibata e definita nei minimi particolari. Dovevano fungere da cassa di risonanza propagandistica (in uno scenario privo delle opportunità mediatiche di oggi). Dovevano, infine, rinsaldare con una impegnativa scenografia l’immagine di una forza dotata di appealing nei confronti dei partiti fratelli e dei movimenti dei terzo e quarto mondo.
Per averne un’idea, anche sommaria, riguardate “La terrazza”, un film di costume (spaccato di una borghesia comunista au caviar) e di politica (l’avvitamento e lo smottamento dell’intelaiatura dogmatica: “il mondo ci è crollato addosso e non ce ne siamo accorti”). In cui il regista-sceneggiatore Ettore Scola (grande cineasta ed intellettuale orgonicissimo) dedica alcuni didascalici spezzoni ad uno dei congressi di fine anni 70 (presumibilmente il XV, svoltosi a Roma tra il 30 marzo ed il 3 aprile 1979 ed avente come tema portante la definizione ed il lancio della solidarietà nazionale). Da incalliti cinefili non possiamo non segnalare che in un casting stellare di attori di grido (Marcello Mastroianni, Ugo Tognazzi, Vittorio Gassman, Jean-Louis Trintignant,Serge Reggiani, Stefano Satta Flores, Stefania Sandrelli, Carla Gravina, Ombretta Colli, Milena Vukotic) comparvero, in ruoli minori, intellettuali “organici” tra cui Lucio Lombardo Radice, Lucio Villari e, sia pure solo, nel parlato, “il compagno Evelino Abeni delegato della Federazione di Cremona”, chiamato dalla Presidenza Congressuale a svolgere il proprio intervento.
Il rimando di evasione, relativo al X Congresso (in cui l’intervento di Adriano Andrini avrebbe suscitato un certo clamore), riguarda, invece, l’esordio di un altro talento (che continua a calcare la scena contemporanea). Quel Massimo D’Alema (figlio del deputato Giuseppe) nei cui confronti la madre, tanto orgogliosa quanto presumibilmente non imparziale, ebbe a vaticinare in un libro autobiografico per quel bambino dall’intelligenza fuori dal comune destini altrettanto fuori dal comune.
Il rappresentante dell’Associazione Pionieri (gli scouts comunisti), all’epoca adolescente ma già smagato dei riti, intervenne nei saluti al Congresso; facendosi notare dal “Migliore”, che (secondo la leggenda) spazientito dalla precoce eloquenza del giovane D’Alema, avrebbe esclamato: “ma questo non è un bambino, è un nano!“.
Ma, uscendo dalle facezie e riprendendo il filo delle cose serie, non è difficile immaginare nelle sensazioni e nelle riflessioni del giovane delegato cremonese un file rouge di continuità di analisi e di elaborazione. Che, partendo dal vissuto della Resistenza e dall’interpretazione dei fatti ungheresi, approda al contributo critico al dibattito delle imponenti assisi all’EUR a Roma nel dicembre 1962.
Un segno di clamoroso distinguo dalla linea congressuale, dall’autorità che l’aveva ispirata, dalla circostanza rappresentata dal carattere pubblico della discussione.
In aggiunta a ciò, la natura del dissenso non si prestava alla ricomposizione. Se non, data l’imparagonabilità dei campi opposti in termini di potere politico, attraverso l’unica via consentita dalla tradizione e dalle regole consolidate: l’autocritica.
In un qualsiasi normale partito di sinistra, permeato dal pensiero critico e dalla tolleranza democratica, maggioranza (o quasi unanimità) e minoranza (in realtà l’isolatissimo “Davide” Andrini) avrebbero proseguito nel confronto dialettico.
Ma cinquanta e passa anni fa ciò non poteva succedere. E non succedette.
Come ricorda Azzoni, il portamento di Andrini rimase sempre aderente alla schiettezza, alla coerenza, alla consapevolezza delle conseguenze.
Di lì a poco avrebbe consumato su se stesso e sulla sua testimonianza civile una sorta di sacrificio rituale.
Non avrebbe rinnegato; comprendendo che con quelle idee in testa e con la determinazione a manifestarle non ci sarebbe stato spazio né nel PCI né nella condizione di appartenente al quadro dirigente.
Andrebbe anche ricordato (come hanno fatto nei loro interventi Azzoni e Coppetti) che Andrini, ancorché spinto (durante la clandestinità) dall’ardore antifascista a gesti estremi, non li aveva mai confusi con le condotte avventuristiche praticate da altri resistenti comunisti.
Analogamente, pur posizionato su un versante di discontinuità con la linea di Mosca, non avrebbe mai condiviso le rotture consumate da altri compagni.
Il partito italiano di obbedienza allo scisma cinese non avrebbe influenzato che piccolissime frazioni minoritarie.
A Cremona sarebbe stato testimoniato da Gastone Dordoni, che per alcuni anni tenterà, anche attraverso la leva della penetrazione dell’ANPI (un habitat in quegli anni significativamente frequentato dalle suggestioni rivoluzionarie), di dare sostanza organizzativa.
Se è concessa una digressione del tutto personale. lo scrivente, anche di fronte all’accertamento di una certa complicità tra quelle fasce estreme e la testimonianza “carrista” consistente nel PSIUP, ne avrebbe preso le distanze a metà degli anni 60.
Chi scrive ricorda, anche con un certo senso di stupore, la dedizione che portava, in quell’epoca, quei testimoni a rivolgersi ad ambienti ritenuti ricettivi per un’azione di auto-finanziamento attraverso la vendita di prodotti made in Cina.
Solo il fine corsa esistenziale ne avrebbe arrestato la testimonianza.
Che, se si tien conto del non trascurabile particolare costituito dall’intitolazione di uno dei due CSA (protagonisti un anno fa dei disordini “antifascisti”) al suo nome, continua ben oltre l’esistenza terrena.
Tutt’affatto diverso sarebbe stato il percorso di Adriano Andrini.
Senza volerla mettere sul burlesco (perché la cosa, per quelle fallaci interpretazioni ideologiche ispirate in moltissimi casi da forte idealismo, era tremendamente seria e quindi meritevole di grande rispetto), si sarebbe indotti ad un rimando cinematografico.
Ricordate il Peppone de “Il compagno Don Camillo”, che, messo di fronte alle prime crepe del “paradiso sovietico”, redarguì i pur farlocchi clandestini sovietici Sasha e Sonia con un perentorio: “Ma vergognatevi, la Russia non è un inferno, ma dico, la Russia è la vostra grande patria, ma come, dovete sentirvi orgogliosi di appartenere a questo faro di civiltà che illumina, che guida, che... eh? Soprattutto non vi azzardate a raccontarmi un'altra delle vostre stramaledette calunnie sulla vostra Russia, io voglio continuare a credere alla mia!”?
Molti tra quelli che già dal ’17 avevano sognato di fare “come la Russia”, che nel ’39 avevano passato sopra al patto Patto Molotov-Ribbentrop, che avevano mitizzato il valore morale e militare traendone il salvacondotto per far inclinare il piano post-bellico a favore del tentativo di sovietizzazione almeno dell’Europa sottratta all’incubo hitleriano, si sarebbero, come abbiamo appena considerato, trovati spiazzati dalle rivelazioni del XX Congresso del PCUS sulle aberrazioni staliniane.
Alcuni avrebbero smaltito la sbornia e avrebbero abbandonato le suggestioni della “patria del socialismo” sovietica rivalutando il metodo democratico; altri avrebbero rinvenuto la loro Russia più ad Oriente, in Cina.
Andrini fu uno di quelli. Avrebbe lasciato il PCI da posizioni “continuiste” rispetto alla tradizione leninista, ma nella lettura cinese; uscendo definitivamente dall’ “apparato” ed accettando per vivere umili mansioni di lavoro (a dimostrazione di quale tempra fossero fatti alcuni uomini, ancorché comunisti stalinisti, della prima repubblica).
Non sapremo mai se e come sarebbe restato coerente, nelle sue intime convinzioni e nella sua testimonianza, con quel suo percorso politico, impattato clamorosamente contro le prime insorgenze contro il socialismo “realizzato”
Probabilmente, siccome in alcuni casi lo stile non è acqua, restò fedele ai suoi intimi convincimenti, tratti dalle maturazioni all’epoca della testimonianza antifascista; però, rifiutando di ingaggiare un contrasto con quella che era stata la casa-madre in cui aveva datoil meglio di sé.
Sono trascorsi molti anni e molti sono stati i rivolgimenti, nel mondo e nello scacchiere in cui quell’idealismo aveva fissato i propri perni.
Forse, al traguardo del percorso esistenziale, poté aver contezza del valore dell’ammaina-bandiera al Cremlino. Sicuramente non poté prendere contatto con le evoluzioni del pensiero e della prassi del filone iper-rivoluzionario cinese.
Che già di suo non si sarebbe fatto mancar niente, sul terreno dei tornanti delle proprie progressioni.
Dalla “lunga marcia” alla "campagna dei cento fiori", dalla riforma agraria al “grande balzo in avanti”, dalla rivoluzione culturale alla denuncia della “banda dei quattro”.
Che sarebbe coincisa con la fase terminale della lunga impronta del “grande timoniere”. Mao avrebbe lasciato un’eredità fatta di disastri economici e politici, di un’ecatombe stimata tra 13 e i 46 milioni di cinesi soppressi, di prove provate che il socialismo cosiddetto reale è assolutamente incompatibile con la democrazia.
L’opzione cinese della sparuta pattuglia di apostati del X Congresso del PCI aveva incrociato il punto di svolta nei rapporti di criticità tra il PCUS ed il PCC.
Ma come si è potuto facilmente constatare i successivi percors, sarebbero stati, per alcuni versi, divaricanti e per altri paralleli.
Il modello URSS sarebbe deflagrato sul terreno dell’insostenibilità di un sistema economico dirigistico e burocratico. Quello cinese avrebbe invece salvato le terga inforcando la messa in pratica del nuovo corso tracciato da Deng Xiaoping, all’insegna del “andate ed arricchitevi”.
L’URSS sarebbe tracollata come modello socio-economico e ad un tempo politico. Il comunismo cinese sarebbe sopravvissuto, restando se stesso dal punto di vista politico e metabolizzando, però, un’opzione di ipercapitalismo.
In entrambi i casi il “socialismo realizzato” aveva dimostrato, da un lato, che nessun sistema collettivo è sostenibile in economia e, dall’altro, che anche la sua versione dogmatica è incapace di adottare almeno la variante temperata del capitalismo.
In ogni caso, entrambi sul terreno dei diritti e delle libertà individuali e collettivi si rivelarono, con il loro portato di dogmatismo assoluto interpretato da despoti e satrapi, quanto più lontano da qualsiasi minimo sindacale dei principi democratici.
Sia che lascino sul campo disastri economici e sociali sia che vincano la sfida dell’andate ed arricchitevi (adottando le ricette del più bieco capitalismo, realizzato con supersfruttamento ed assenza di libertà civili e sindacali) la loro prassi è assolutamente incompatibile coi canoni della civiltà impressa dalla versione illuministica e dall’umanesimo positivistico.
La Cina non è più un regime totalitario, come ai tempi di Mao. È un regime autoritario, che tollera un grado di libertà personale, fino a quando le libertà personali non diventano opposizione politica. Per quanto tempo libertà personale e mancanza di libertà politica riusciranno a coesistere?
L’area dell’influenza del comunismo dogmatico si è andata restringendo rispetto alla grande espansione del secolo breve.
Restano in campo il comunismo farlocco della grande Cina nelle sue variegate declinazioni e qualche modello fantoccio, come la Corea del Nord.
La sinistra farebbe bene a non dimenticare mai che la predicazione comunista, in materia di uguaglianza non si è rivelata fallace, solo perché ha reso eguali, ma nella miseria. E che, come quando in Cina inforca il capitalismo, rende ancor più diseguali delle sue versioni estreme.
E, proprio non volendo dimenticare, resti ben impressa la stima dei 100 milioni di uomini lasciati sul terreno dal totalitarismo/autoritarismo.
Ma tutto ciò non poteva essere negli auspici dell’idealismo di Adrano Andrini.
e.v.