Ricordo e memoria dei partigiani cremonesi
Alessandro Moroni e Graziano Azzini caduti
da quelle parti. Cronaca di un giorno.
Il 6 gennaio 1945, giorno della Epifania, scattava la seconda fase del grande rastrellamento invernale dalle nostre parti ricordato come quello dei mongoli ed in Liguria dei calmucchi. Approfittando della stasi dei combattimenti sulla linea Gotica, i tedeschi avevano deciso di fare piazza pulita dai partigiani che tenevano le valli parmensi e le contigue piacentine.
Quel giorno:
“Il Terribile era appostato al Beneficio Parrocchiale quando decise di raggiungere il casolare per scaldarsi.” Era una cosa che i partigiani, quelli più a lungo esposti al freddo, facevano a turno senza sguarnire il posto di difesa. La mitraglia partigiana, dai pressi dell'oratorio, faceva egregiamente il suo lavoro di sbarramento all'avanzare del nemico. Per qualche minuto avrebbe fatto a meno, senza risentirne, del suo contributo di fuoco. La casa, che il Terribile cercava di raggiungere, era quella del mezzadro del padre di Carbonaro, distava dalla postazione che il partigiano aveva lasciato non più di venti o trenta metri, ma erano tutti allo scoperto, esposti al tiro del nemico. Nonostante il Terribile si trascinasse carponi e avanzasse mettendo in atto ogni precauzione venne visto dal nemico, fatto oggetto di una scarica di mitraglia che gli asportò il tacco di una scarpa. Gli andò sicuramente bene. Fino a quel momento, per Carbonaro e gli altri che erano nella casa la giornata di combattimento era stata buona (ancora non sapevano dei sette morti al Santa Donna). Il ferimento dei due tedeschi che erano con loro nella Brigata non destava preoccupazioni. Dai pressi della chiesa avevano trafficato con la mitraglia impedendo al nemico di avanzare, individuati vennero fatti obbiettivo di colpi mortaio che danneggiarono la pieve e li ferirono leggermente, ma nessuno rimase ucciso. La mitraglia continuava ad essere efficace anche se manovrata da altri.
Il Terribile entrando nella stanza chiese:
"chi c'è dietro casa?"
"nessuno" risposero dall'interno.
"eppure ho visto uno che stava uscendo dall'angolo e che si è ritirato" continuò.
Incuriositi ci affacciammo: erano i tedeschi vestiti con tute bianche sotto le finestre.
Non persero altro tempo. Sceriffo e Terribile, due ex alpini con esperienza di guerra in Russia, presero in mano la situazione che si era fatta un po' confusa: “tu Carbonaro proteggici mentre noi tutti usciamo, continua a sparare con raffiche corte ma continue allo spigolo della casa, è da quello che i tedeschi devono sporgersi per colpirci”. “Gli diedero alcuni caricatori per lo Sten. In quel momento a Carbonaro la pressione gli andò molto alta, ma quello era l'ordine e non poteva dire di no.” Era anche l'unico ad avere un'arma automatica idonea alla incombenza. Disse loro ingenuamente, (aveva diciassette anni e solo l'esperienza di qualche combattimento): “E io come faccio poi a sganciarmi?”. Lo tranquillizzarono dicendogli che se si fossero salvati avrebbero tenuto a bada il nemico in modo che lui potesse seguirli. E così fu, “riuscì a passare fra le raffiche e i tiri di chi voleva proteggerlo e chi invece colpirlo” ed il sudore gli si gelava sulla pelle. Protetti da una casa si avviarono, con difficoltà per la neve, su per la salita di una strada. IL capo squadra era rimasto indietro per contrastare il nemico, sparava raffiche con il mitra che Carbonaro gli avevo ceduto. Nel gruppetto in fuga c'era anche Farinacci, molto più anziano di tutti loro. Arrivati all'altezza della fontana dei Pianelli, una strada a sinistra portava a case Grilli mentre quella che va a destra conduceva a Verbona. Con alcuni abitanti sfollati dal paese e sempre seguiti dalle raffiche, si diressero a sinistra. Il Maggiore, come alcuni chiamavano Farinacci per il suo presunto grado rivestito nell'esercito, prese a destra.
“Quando Dio volle da Caffaraccia i tedeschi se ne andarono”. Carbonaro e gli altri seppero così dei “sette morti del santa Donna, che il prigioniero con la testa tra le mani, circondato dai tedeschi, era Befana, che finì i suoi giorni in un campo di concentramento, e della morte di Farinacci”. A lui i partigiani avevamo sempre riservato un fraterno rispetto, non tanto perché, come alcuni di loro supponevano, fosse stato un Maggiore dell'esercito (con l'esercito la maggioranza dei partigiani dopo la fuga del RE e dei generali aveva chiuso), ma per i “suoi cinquantadue anni e una prima guerra mondiale sulle spalle”. Quella volta che avevano “trovato un letto nella posta dei vitelli [e] la posta dei vitelli di fronte alle terga delle bovine era più corta” per riguardo lo misero a “dormire nella mangiatoia dei vitelli: un lusso!”.
Lodovico Stefanini, il futuro “Carbonaro”, con Cremona aveva un vecchio e direi affettuoso rapporto cominciato quando, non ancora partigiano, da adolescente era stato ospite del collegio vescovile “Gregorio IV” (quello da noi cremonesi conosciuto come Sfondrati) diretto da monsignor Giglio Bonfatti. In anni successivi era stato proprio il monsignore a stimolare “Carbonaro” perché mettesse per iscritto i suoi ricordi partigiani. Finita la guerra, dopo avere partecipato ad un corso di recupero scolastico, tornò nello stesso istituto frequentandovi le scuole superiori fino al conseguimento del diploma di perito agrario. Il corso di recupero scolastico, primo atto di quel che sarà in seguito il “Convitto per la Rinascita”, era stato organizzato dall'ANPI e dal FDG di Cremona in collaborazione con il Ministero del Lavoro. IL corso era indirizzato, come lo fu poi il “Convitto per la Rinascita”, a quanti, partigiani e reduci, avevano interrotto il normale ciclo di studio offrendo loro una possibilità di recupero rapido delle perse frequenze scolastiche.
Il giovane Lodovico, non ancora diventato Carbonaro, incontrò per la prima volta i partigiani a Cerreto dove si erano acquartierati dopo la battaglia di Osacca del Natale 1943. Questi erano prevalentemente ragazzi della provincia cremonese. A loro si erano aggiunti alcuni soldati slavi fuggiti dal campo di Cortemaggiore e qualche giovane locale: Lodovico ricorda ancora il casalasco Domenico Zazzera Garibaldi. Nell'ottobre del 1943, dietro indicazione della maestra Ramponi socialista da sempre, i cremonesi, attraversato il Po a Casalmaggiore, avevano risalito le colline parmensi ponendo la prima base partigiana ad Osacca, località in comune di Bardi confinante con Borgotaro. In quella postazione sostennero il primo scontro armato con reparti della repubblica sociale, in seguito al quale si spostarono a Cerreto. Saputo della loro presenza “tutte le famiglie si adoperarono per fornire viveri. “Per la mia famiglia fui incaricato io con mia cugina Emma”, ricorda Carbonaro. “Partimmo con due fazzolettoni da spesa (non c'erano borse di plastica allora) pieni di quel poco di cui si disponeva. Dopo circa tre quarti d'ora arrivammo. Eravamo già stati preceduti da altri. Al nostro arrivo si presentò un giovane alto, magro e malconcio come tutti gli altri. Non ci fu bisogno di spiegare il motivo della visita. Abbiamo allungato i fazzolettoni, lui li ha ritirati ringraziandoci”. Anni dopo, la guerra era finita, l'ANPI di Casalmaggiore invitò i partigiani di Borgotaro per la festa della Liberazione. Carbonaro andò con la speranza di rivedere quel partigiano. Rivide altri già incontrati a Cerreto ma non il giovane alto. Gli mostrarono una fotografia e lo riconobbe: quel giovane malconcio incontrato a Cerreto era Giovanni Favagrossa nato a Casalmaggiore (CR) il 6-1-1926 caduto in combattimento a Casalbellotto (CR) il 24-4-1945.
Lodovico Stefanini ci mandò da Borgotaro l'invito a partecipare ad una rievocazione partigiana. Ancora non aveva reciso il suo rapporto con Cremona ed erano gli anni appena passati. Dell'ANPI, con la bandiera, andammo: io, Palmiro, Cecilia e suo fratello. Da queste parti Graziano Azzini, un loro lontano cugino partigiano nella “seconda Divisione Julia,” forse indirizzato a quelle colline dai Saveriani cremonesi, era stato ucciso dai fascisti ed il suo nome è inciso sulla grande lapide sotto il portico del comune di Cremona. Con Stefanini ci incontrammo al luogo concordato: oltre il sovra passo ferroviario, sulla piazzetta della stazione all'ingresso del paese. Andammo sui luoghi partigiani e fu una mattina intensa, di una ufficialità discreta: Osacca; poi il sentiero al termine del quale i partigiani caddero nell'imboscata ed il luogo della esecuzione al passo Santa Donna sferzato da un grande vento; la funzione religiosa.
Finito il pranzo, cessati i canti partigiani intonati da alcuni dei convitati Stefanini, fedele alla promessa, volle portarci a Caffaraccia. Già ce l'aveva detto al mattino quando ci spiegò il programma della giornata “se ce la facciamo voglio portarvi su in montagna” ci aveva detto. Così, nello stesso giorno del rastrellamento di sessantacinque anni prima, l'antico partigiano Carbonaro tornava a Caffaraccia per rivedere il luogo e fare a noi il racconto di quella sua indelebile esperienza. Andammo con lui sulla sua auto, guidava disinvolto fra le curve della strada che saliva l'erta. I boschi erano ancora spogli di foglie e sui prati l'erba inaridita dal gelo invernale tingeva tutto di giallo. Per sottrarla alla distruzione e farne un luogo di memoria, aveva comperato ed aggiustata quella casa nella quale si ritrovò giovane partigiano tanti anni prima. Due piccole stanzette, la finestra che dava sul retro, quella dalla quale i partigiani guardarono all'esterno e videro la neve, che copriva il pendio, incisa da un solco calpestato. La traccia del calpestio, raccontava Stefanini, proveniva, aggirandolo, dal rilevato dosso che costituiva l'ultima naturale protezione del sentiero che saliva da valle. Poi, per chi avesse voluto raggiungere ed accerchiare l'abitato di Caffaraccia da quel lato, non ci sarebbe stata altra via se non quella di affrontare e superare il pendio innevato totalmente allo scoperto. In quella mattina di spari e di gelo nessuno degli abitanti di Caffaraccia avrebbe abbandonato il caldo delle stalle: le tracce sulla neve non potevano che essere quelle del nemico! Sporgendosi un poco oltre l'infisso della finestra il partigiano Padùla lo vide dall'alto, due tedeschi rivestiti da tute bianche con la schiena verticalmente appiccicata al muro, perpendicolari alle finestre, forse timorosi ed indecisi sul da farsi nella certezza di essere stati ormai individuati. Padùla ne vide due ma quanti potevano esserci nei pressi? Bisognava togliersi da quella situazione. Dalle finestre lasciarono cadere al di sotto due bombe a mano che sprofondando nella neve soffice non esplosero. Poi il pianerottolo dal quale Carbonaro, trafficando con lo Stern, protesse i compagni nell'attraversamento della strada. Stefanini, raccontando, volle accompagnarci per le stradine del paese, rifare con noi quei viottoli montani già percorsi dopo avere abbandonato la casa del mezzadro, fra le case grigie che anche in quel giorno ci apparvero disabitate e silenziose. Passammo da casa Getti dove una lapide ricorda Angiolina Ruggeri. Un cecchino tedesco vestito di bianco, in agguato sul campanile, con un colpo di fucile la centrò alla testa mentre portava da mangiare ad un partigiano appostato nei pressi. Arrivammo alla fontana dei Pianelli dove le strade si dividono. Carbonaro volle che prendessimo quella di destra che porta a Verbona, la stessa che imboccò da solo Farinacci in quel giorno tragico. “Non avrà fatto più di cinquanta metri che una mitragliata lo prese in pieno. Ci dissero che i tedeschi sparavano dalla fontana della Costa”.
“Il corpo di quest'ultimo l'abbiamo raccolto io e Bistecca, con fatica perché era congelato e scomposto; lo abbiamo messo nella cassa approntata da Perdica, per farlo entrare fummo costretti a rompergli il braccio destro con una mazza di legno e poi fu portato nel cimitero di Caffaraccia. Ora riposa con, gli altri partigiani caduti, nel Sacrario dei combattenti nel cimitero di Borgotaro. Purtroppo non siamo riusciti ad avere la fotografia”. Nessuno, dopo la guerra, ha reclamato la sua salma.
Durante il ritorno a Borgotaro, Stefanini ci parlò delle poche cose che sapeva di Farinacci: era comparso, improvviso, ed era agosto o settembre, vestito con una divisa militare con dei gradi. Uno dei tanti che in quei mesi si aggiravano spaesati su quelle colline da quando, finito l'addestramento in Germania, reparti della divisione Monte Rosa erano stati dislocati in Liguria. “Per contrastare un eventuale sbarco degli inglesi” era stato detto loro, ma poi vennero impiegati nella repressione anti partigiana e le diserzioni da quei reparti furono molte. Farinacci raccontò poco della sua storia, dichiarò il nome e cognome, parlò della prima guerra mondiale e poco della seconda, né mai accennò alla famiglia, i partigiani si convinsero che non ne avesse. Disse che veniva da Cremona e, per questo accogliendolo, gli affibbiarono quel nome di battaglia che lui accettò.
Tornati a Cremona, impressionati ed anche un po' commossi da quella storia, cercammo di saperne di più. Iniziammo una ricerca dalla grande lapide sotto il portico del comune dove, fra gli altri, figura anche il nome del partigiano caduto che appartenne alla 1a Divisione “Julia”. Nel fondo dell'ANPI cremonese depositato all'Archivio di Stato trovammo, datata nell'estate 1945 e presentata dalla moglie, la domanda di iscrizione ad “Honorem” di quel caduto. Quindi una famiglia c'era o c'era stata! Dal cognome della moglie, abbastanza noto in città, rintracciammo una sua nipote. Sapeva vagamente della storia, ci promise di frugare fra le carte di famiglia alla ricerca di qualche documento che ricordasse quella vicenda partigiana, cosa che non fece. Non ci restituì neanche la fotografia che le avevamo dato perché la confrontasse con altre eventualmente trovate.
Mi scrisse invece Cecilia: “Di quella giornata al passo Santa Donna-Caffaraccia, serbo anch'io un bellissimo ricordo ed una amicizia infinita per Carbonaro e Sparviero. Lodovico gentile e mite, lo penso nel corso di sessanta anni recarsi al Famedio dove forse nessun familiare, conoscente o istituzione cremonese andò mai a far visita ad Alessandro Moroni, un pensiero costante lo accompagna per tutta la vita: porre quella foto mancante”.
La fotografia, la mandammo noi e Stefanini provvide a farla apporre sulla lastra che chiude il loculo di Farinacci nel Mausoleo dei Partigiani a Borgotaro.
Ennio Serventi
* ll compendio e le frasi autografe virgolettate sono liberamente tratte da “CARBONARO” di Lodovico Stefanini, Garamond, aprile 2014
Le immagine fotografiche pubblicate nella gallery sono tratte dall'Archivio dell'ANPI di Cremona