Con ottenuta licenza dell'autore Domenico Cacopardo, riproduciamo una approfondita valutazione delle conseguenze dell'appena conclusa sessione dei G7. In particolare, l'articolo di Domenico Cacopardo si sofferma sui potenziali effetti di rimodulazione derivante dal cambio dell'inquilino della Casa Bianca. Le rettifiche e i riposizionamenti sono destinati a cambiamenti di valenza globale, ma anche a ritracciare equilibri interni.
Il G7 che si è concluso sabato scorso non è stata la solita riunione rituale, nella quale ognuno ha aderito a una risoluzione generica, priva di indicazioni significative. Un evento periodico completamente slegato dalla realtà politica, economica e sociale, nel quale tutti si confermano amicizia, ma non fedeltà.
Biden, che anche noi, da senatore avevamo definito incolore e gaffeur, dimostra una tempra presidenziale ben più spiccata di tanti suoi predecessori, Clinton e Obama compresi. Quanto a Trump, la sua interpretazione del ruolo di presidente del paese -ancora per quanto? - più potente del mondo era stata riduttiva e autolesionistica, volta a relegare gli interessi politici e strategici degli Usa nei limiti dei suoi confini nazionali con il sostanziale supporto di un arsenale missilistico e atomico senza pari al mondo. Naturalmente, il passaggio di Trump alla Casa Bianca ha comportato una specie di «liberi tutti» per tanti paesi del mondo, Russia e Turchia soprattutti, e ha determinato un sostanziale cambiamento dei rapporti di forza sul terreno, nei vari scacchieri cruciali e sensibili, dai quali può innescarsi in ogni momento qualcosa di più grosso.
Del resto, la linea Trump ripercorreva la linea che nel 1939 aveva condotto il mondo al conflitto mondiale: le incertezze, le paure e il lasciar fare avevano portato l'Europa al limite oltre il quale essa sarebbe stata tutta suddita della Germania nazista.
Ci siamo andati vicini.
Con Biden gli Stati Uniti tornano a essere protagonisti della politica mondiale e non temono il confronto competitivo e pacificamente ostile con Russia e Cina. Una posizione non fondata sulla forza, ma sulla capacità di relazioni che deriva dalla potenza economica di cui il paese di Biden dispone e che non è ancora eguagliata da alcuno.
Per noi, conseguenze immediate e significative. Va fuori gioco Beppe Grillo con la sua idea di amicizia con la Cina. Vanno fuori i 5Stelle con il complesso di relazioni economiche che hanno promosso sempre con la Cina. Vanno fuori Salvini per la sua amicizia a Putin e alla Russia e, in qualche misura, la Meloni col suo sovranismo tardivo.
Se in Italia esistessero forze politiche guidate da leader veri non ci vorrebbe un minuto per aprire un'inchiesta parlamentare sulle relazioni italo-cinesi e sugli interessi che -per esempio i grillini- vi hanno riversato. Compresi gli affari informatici di Davide Casaleggio.
Ma ciò che è più immanente e significativo è che la politica inaugurata da Biden e sostenuta in modo vario, ma tuttavia sostenuta, comporta conseguenze coerenti, delle quali le forze politiche italiane debbono tenere conto.
Esperienze del passato dovrebbero insegnare qualcosa.
Che nel mondo ci siano novità sostanziali è testimoniato anche da Mario Draghi. Lasciando Carbis Bay in Cornovaglia, ha espresso un invito a russi, turchi, siriani e connessi a ritirare i loro militari e i loro mercenari dalla Libia: niente di ultimativo, intendiamoci, ma l'annuncio di un ritorno dell'Italia, forte dell'appoggio americano, nello scacchiere, come potenza garante della costruzione di quel paese e della sua «amicizia» per l'Occidente.
Una prospettiva confortante, anche per gli equilibri nazionali, nei quali alla scelta del Pd di ancorarsi a sinistra può corrispondere un ampliamento del fronte moderato.