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Dopo 4 marzo Noblesse oblige

La nobiltà donde deriviamo il profilo comportamentale non è assolutamente allusiva ai doveri imposti dai protocolli aristocratici. Ad una campagna elettorale surreale sta facendo seguito uno scenario ancor più sgangherato e decisamente fuori dal campo culturale e civile cui abbiamo ispirato per oltre mezzo secolo i cardini dell’agire politico.

  16/03/2018 21:14:00

A cura della Redazione

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L’ECOPOLITICA Dopo 4 marzo Noblesse oblige

La nobiltà donde deriviamo il profilo comportamentale non è assolutamente allusiva ai doveri imposti dai protocolli aristocratici. Ad una campagna elettorale surreale sta facendo seguito uno scenario ancor più sgangherato e decisamente fuori dal campo culturale e civile cui abbiamo ispirato per oltre mezzo secolo i cardini dell’agire politico.

Capiamo profondamente lo smarrimento derivato dalle conseguenze di una profonda discontinuità rispetto ad un retroterra che per oltre mezzo secolo aveva funzionato in automatico.

Noi stessi, registrando la sensazione dell’affluenza ai seggi, avevamo preso un abbaglio sulle conseguenze di una tendenza anomala rispetto ai recenti pregressi e, soprattutto, alle previsioni.

L’aumento non era, come avevamo supposto, relazionabile, secondo una vulgata della vigilia, all’inversione del sentiment dei settori dell’elettorato moderato convinti a partecipare al recupero delle declinanti fortune dell’area governativa, bensì all’impulso opposto di accentuarne la sconfitta.

Quel che è certo è che, nonostante le consapevolezze di un retroterra motivazionale fattualmente negativo, ci si era illusi, diciamo così, nell’interesse della sopravvivenza di margini di razionalità.

Così non è andata. Ce ne doliamo in rapporto agli scenari non esattamente fecondi per il Paese. Prendiamo atto del fatto che i risultati corrispondono non già ad una semplice sconfitta della sinistra moderata cui apparteniamo, ma ad uno smottamento di incalcolabili conseguenze sugli assetti di stabilità e governabilità che hanno presieduto, pur nella variazione dei cicli, a settant’anni di vita politica.

Certo che la cosa (più della delusione sul piano di una sconfitta senza se e senza ma) ci allarma.

E ci induce, proprio per questo, a non far sconti ad un’interpretazione spietata delle condizioni che hanno decretato la delegittimazione del ruolo che la sinistra ha mantenuto per una lunga stagione.

Non ci hanno capito!? Allora cosa dovremmo fare? Come suggerisce Bertolt Brecht, poiché il “il popolo non è d'accordo, bisogna nominare un nuovo popolo”?

Forse funzionava così nelle “democrazie progressive”. Non certamente così può funzionare nei sistemi liberaldemocratici.

Avere consapevolezza dei limiti di comunicazione ed, in certi margini, dell’esistenza di pregiudizi incoercibili, non attenua la portata della sconfitta e non esime da un’onesta ed inesorabile analisi delle condizioni che l’hanno prodotta e, soprattutto, da una profonda riflessione su come riposizionare idee e progetti.

Lo richiede, come esposto nel titolo, l’obbligo derivante dalla nobiltà da cui deriviamo le ragioni della buona politica.

Siamo ben consapevoli del fatto che una così impegnativa disamina non potrà in alcun modo esaurirsi sbrigativamente; ma richiederà tempi ed energie di vasta lena.

Importante è incominciare da un approccio, come abbiamo detto, sincero e fecondo.

Le sconfitte fanno bene solo se sono occasione di rigenerazione.

La crisi della sinistra non riguarda solo l’adeguatezza delle leadership. Siamo in presenza di una crisi epocale, che riguarda la struttura del pensiero e della forma movimento.

La si accusa di essere stata sorda al disagio sociale. Non ci pare sia questa ipoacusia all’ascolto il perno principale della crisi del rapporto tra sinistra e bacino di riferimento. Fino a prima della crisi di dieci anni fa il campo della sinistra si era mantenuto aderente ad una sorta di scambio. Consenso contro welfare incardinato nello spending deficit. Su questo terreno si posizionano ancora gli establishments dei paesi che, per effetto dei conti in regola, se lo potevano permettere.

L’Italia è, invece come ben si sa, un paese che i conti in regola non li ha e non li ha mai avuti da un quarto di secolo. Facendo parte di un aggregato monetario, finanziario, economico, gli è preclusa la reiterazione delle manovre classiche del passato: inflazione, svalutazione, indebitamento pubblico.

L’unica alternativa è rappresentata dalla sortita (come, infatti, hanno postulato i populismi nostrani e continentali) dalle regole comunitarie; con l’abbandono dell’euro e della sottostante disciplina contabile e con un indirizzo di fluttuazione libera (appesantimento della spesa pubblica e crescita esponenziale del debito, così disossando gia fragili equilibri e caricando sulle spalle del futuro un fardello che per la sua sostenibilità verrà sanzionato dai mercati mondiali).

Scrive Fubini sul Corsera: dipendiamo e dipenderemo (dentro o fuori dall’euro) sempre dalla cortesia dei creditori, che saranno sempre più esigenti (come avvenne in Grecia) tanto più si allenterà il rigore del riequilibrio.

La sortita fu già tentata da Tsipras col risultato bene conosciuto.

Il bacino sociale e culturale di riferimento della vecchia sinistra o si è fortemente destrutturato (con il drammatico assottigliamento del ceto medio) od è entrato nell’orbita della rappresentanza affidata ai movimenti di ispirazione populistica.

Un partito, come il PD, che avesse ambizioni maggioritarie, non avrebbe dovuto permettersi amnesie od improvvisazioni in una materia, come questa, fondamentale a definirne il baricentro di rappresentanza e ad un tempo a stabilire un rapporto permanente.

Altro gravissimo errore commesso nella gestione delle riforme del lavoro è stata l’impressione che il governo non solo fosse impegnato a fornire risposte realistiche all’esigenza di attrezzare il sistema Italia a sostenere la competitività attraverso un lucido percorso (che non poteva non intervenire sulle rigidità), ma stesse ribaltando le alleanze sociali della sinistra tradizionale.

I ceti interessati ne hanno tratto una conclusione che definire arbitraria sarebbe sbagliato; ma che in qualche misura traeva motivi sia da una narrazione sbagliata sia da circostanze equivocabili.

In politica, come si sa, la narrazione conta. Se, infatti, nel momento in cui poni l’accento se non proprio su una radicale disintermediazione sicuramente sulla necessità avvertita di assicurare efficienza alle relazioni industriali facendo intendere che la fonte di ispirazione principale è Marchionne, non devi poi essere sorpreso se i tuoi ceti di riferimento equivocano.

Per non dire poi dal disastro di impressioni derivanti dall’infornata di leopoldini immessi nella compagine governativa tratti dal coté confindustriale.

Una forza ad ampia base popolare capace di tenere insieme pezzi diversi di società per rinsaldare le fondamenta di condivisione comunitaria e perseguire stabilmente quell’indirizzo di economia sociale che costituisce elemento primo di giustizia sociale e di sviluppo.

Le modalità di archiviazione della crisi di dieci anni fa hanno incorporato, oltre all’accentuazione della prevalenza dei poteri economico-finanziari su quelli politico-istituzionali, anche l’accentuazione del divario (preesistente) nella distribuzione della ricchezza prodotta. Ne è uscito un tendenziale ed inarrestabile impoverimento dei ceti da reddito da lavoro, messi peraltro ulteriormente nell’angolo da un mercato dell’occupazione, che la globalizzazione (deregulation, delocalizzazione, dumping salariale e normativo) ha squilibrato.

A questo tracciato di impoverimento da reddito da lavoro si è affiancato, come si diceva, un impoverimento da welfare. I cui terminali hanno finito per disassare un equilibrio sociale, ritenuto migliorabile dalle socialdemocrazie tradizionali, ma che fino all’inizio del terzo millennio aveva consentito una certa coesione comunitaria.

I nuovi rapporti configurati dall’uscita dalla crisi e dal riposizionamento generale dei sistemi economici, sempre più orientati alla massimizzazione delle economie di scala imperniate sulle tecnologie, che hanno come portato il totale scardinamento dei perni dell’economia sociale, producono oltre che disuguaglianza economica una disuguaglianza ancor più intollerabile: la perdita del requisiti elementari di appartenenza civile. Che significa emarginazione dalla vita culturale e politica.

Sotto tale punto di vista, è assolutamente condivisibile la recente riflessione di Marco Bentivogli, segretario generale della FIM CISL, secondo cui è indispensabile aprire subito un cantiere di analisi e di elaborazione attorno alla ricostruzione politica e civile del Paese. Che parta dal ripensamento del rapporto tra Stato e mercato, dalla riformulazione di una nuova cultura del lavoro, da una profonda rimodulazione delle linee-guida della partecipazione, della rappresentanza, della funzione dei corpi intermedi.

Per concludere la riflessione su un segmento che, secondo chi scrive, è stato determinante, oltre che nello spostamento di voti per ragioni “di merito”, anche nell’eradicazione delle fisiologiche relazioni di bacino di riferimento, sosteniamo che è assolutamente ineludibile uno forzo di riscrittura di ciò che diviene un nuovo contratto sociale e civile. Alla cui testa non può non esserci la sinistra del laburismo, del liberalismo, dei diritti civili.

L’incipit di tale profonda revisione dell’offerta politica non può prescindere né da una forte discontinuità dalla testimonianza esaurita dall’esito delle urne né da un rinnovamento, avvertibile già dalle premesse, del ceto politico.

In questo caso non conveniamo con la conclusione, recentemente espressa, secondo cui la sconfitta referendaria del 2016 rappresenta la principale causa della débacle del 4 marzo. Il massiccio NO alla riforma istituzionale Renzi-Boschi rappresentò il detonatore del sentiment che si era, magari più sotterraneamente, andato consolidando fin dall’inizio dei tre anni governo. Una tendenza, magari mimetizzata da segnali in controtendenza e menzogneri (i risultati delle Europee e il successo nella prova del referendum delle trivelle), ma, col senno di poi, compatibile con l’atavica tendenza degli italiani ad osteggiare qualsiasi progetto, specie se manifestamente introdotto, che punti ad innescare profondi cambiamenti.

Il caso delle trivelle doveva essere rivelatore, nonostante il set favorevole, dei rumors in itinere, capaci di coagulare un eccezionale fronte avversario, che avrebbero catalizzato un ampio repertorio di doglianze (secondo noi prevalentemente capziosi).

Il No alle trivelle, argomentato sul terreno del mantenimento del potere di veto della prerogativa delle Regioni nei confronti delle opere e degli interventi strategici incompatibili con la salvaguardia ambientale, in realtà portava in superficie l’irriducibile opposizione alle correzioni alle materie concorrenti sciaguratamente stabilite dalla riforma del Titolo V che implicitamente la riforma costituzionale integrava.

Del tendenziale aggregato dei motivi di scontento e di aperta contestazione ai provvedimenti (anche positivi) assunti dal Governo Renzi il centro-sinistra ed il PD, se fossero stati meno autoreferenziali (ed arroganti) si sarebbe dovuto prendere consapevolezza, se non altro di fronte all’ingrossamento del bacino degli oppositori.

Non sarebbe stato realisticamente possibile apportare in corso d’opera correttivi dettati da compiacimento verso il fronte critico. Ma quanto meno il centro-sinistra avrebbe potuto evitare una lettura irresponsabilmente ottimistica (e quindi suscettibile di produrre una comunicazione imputata di arroganza) ed, ancor di più, (come nel caso dei provvedimenti della “buona scuola” e dei vouchers) quella sorta di ravvedimenti operosi, che hanno convinto il composito fronte dell’opposizione a tutto che fosse possibile mettere in scacco Renzi.

A tale imperdonabile errore di lettura e di sottovalutazione delle tendenze sociali e politiche in atto si andava assommando in progressione degli avvenimenti la sicumera di essere ancora in grado di influenzare l’opinione pubblica (o quanto meno il bacino di riferimento) in una più obiettiva e veritiera valutazione sia dei risultati dell’azione governativa che della natura del progetto di cambiamento del PD attrazione renziana.

 Ciò che in qualsiasi protocollo liberaldemocratico costituirebbe profilo accettato e scontato (la determinazione dell’establishment di condurre avanti il programma omologato nella sede parlamentare), veniva demonizzato come ostentazione di presunta superiorità, di arrogante e sprezzante sicurezza di sé. Con l’ausilio delle conseguenze di un profilo caratteriale del diretto interessato, che, coi risultati acquisiti sul campo, non ha motivo di adontarsi della definizione di una sorta di Re Mida al contrario.

Una seria e tempestiva riflessione, suscettibile di un approdo alla consapevolezza realistica quanto meno di limitare i danni, avrebbe dovuto essere innescata immediatamente dopo il 4 dicembre.

Si sarebbe evitato di infilarsi nella spirale incontrollabile; che avrebbe potuto avere come unico deterrente la determinazione di imboccare la fine anticipata della Legislatura.

Né la giustificazione di aver dovuto assecondare l’esortazione al senso di responsabilità (costante dell’ erronea visione di Mattarella) costituisce accettabile controdeduzione.

Resta un ultimo capitolo di analisi politica sui presupposti teorici che possono indirizzare ad un fecondo rilancio della sinistra italiana

In Italia si sono adottate in ritardo e, diciamolo pure, disinvoltamente le ricette della “nuova via” (clintonismo in USA, blairismo in GB).

Anche di ciò bisognerà tener conto, per evitare che l’ineludibile rimando allo sforzo di recupero in atto in tutta la sinistra mondiale non si presti ancora una volta, in Italia, ad un acritico copia-incolla.

In Italia, per la straordinarietà di una sinistra egemonizzata per oltre mezzo secolo da un PCI riluttante a qualsiasi contaminazione col riformismo di stampo liberale e tenuta in apnea per un altro quarto di secolo da quell’artificio da laboratorio confluito nel PD, non è mai stata seriamente affrontata una rielaborazione attorno all’analisi della società quale è andata evolvendosi a cavallo tra i due secoli ed alle basi teoriche per una testimonianza politica congrua all’ambizione di tornare ad interpretare una cultura di governo.

Insomma, il PCI, prima, ed in seguito il post-comunismo, vero locomotore del tentativo di approdo a sponde coerenti (anche se approssimativamente) con la “famiglia socialista” di cui si dichiarava far parte, hanno impedito quella profonda revisione delle basi teorico-pratiche cui, invece, si erano sottoposti, nella seconda metà del XX secolo, i partners socialdemocratici europei.

Nel 1959 la SPD col Congresso di Bad Godesberg del 1959 ed il PSF col Congresso di Épinay del 1974. Si cita ciò non certamente per prenderne a riferimento i contenuti (parte dei quali, a cominciare dal profilo costitutivo costituito dal perno riformismo-laburismo tuttora validi e parti dei quali da sottoporre a revisione dettata dall’aderenza alle consapevolezze dei profondi cambiamenti intervenuti). Bensì per indicarne il metodo.

A Bad Godesberg e ad Épinay socialdemocratici tedeschi e francesi (mentre i laburisti inglesi, che ridefinirono il loro progetto nel New Labour del 1994, lo fanno imperturbabilmente ogni autunno a Brighton) orientarono le loro riflessioni ed elaborazioni verso un aggregato suscettibile di archiviare definitivamente i depositi dottrinari in chiave marxista e di tracciare un programma capace di aggiornare le basi teoriche di quel ciclo che avrebbe legittimato i socialisti europei ad interpretare sul campo la mediazione frutto dell’incontro tra economia sociale e rappresentanza del lavoro.

I decenni successivi, ne avrebbero certificato il valore ma tendenzialmente anche l’esaurimento dichiarato dalle conseguenze dei profondi mutamenti intervenuti a livello mondiale.

Ora anche quei partners della famiglia socialista europea e mondiale sono alle prese con l’esigenza di rapportare l’analisi sociologica e politica al portato dei mutati contesti e quindi ad aggiornare il loro progetto di rappresentanza dei ceti di riferimento.

Come si diceva, le basi teoriche del PD, formulate dieci anni fa all’interno di un’analisi “leggera” (rispetto alla complessità del quadro sociale e politico) e di una prospettiva di rappresentanza orientata prevalentemente dallo stesso profilo “pragmatico” del modello nord-americano di riferimento (non a caso ne assunse acriticamente la denominazione), erano apparse già inadeguate in corso d’opera.

Il PD, da Veltroni in poi, ha manifestato, da un lato, questo vistoso limite dottrinario, che, affidando la costituency ad un esclusivo profilo pragmatico (fatto salvo un debolissimo e vago rimando alle radici), e, dall’altro, la sicumera che non fosse necessario, essendo tutto affidato all’azione di governo, il monitoraggio delle trasformazioni.

Questa inspiegabile (in un movimento a vasta base popolare) idiosincrasia dimostrerà (soprattutto, coi repentini e costanti tracolli nella rappresentanza istituzionale) che il profilo “liquido” delle dottrine politiche e la struttura “leggera” del movimento non costituiscono più garanzia per un moderno partito insidiato in un bacino socialmente plurale, ma abbastanza imperniato sui valori e sugli interessi del lavoro, sull’estensione dei diritti civili, su una prospettiva di compartecipazione e di corresponsabilità nelle strategie e nelle gestioni economiche anche dei ceti popolari.

Per riappropriarsi meritatamente della loro rappresentanza, elettorale e non, e per ristabilire a pieno titolo la prerogativa dei movimenti idealisti di essere entità di ascolto e di raccordo coi sentiments, che non hanno altro modo di esprimersi.

Ecco, perché sia il PD che gli altri segmenti (minoritari ma non per questo privi di apporti progettuali) non possono trarre dall’esito disastroso del voto conclusioni che siano limitate al sola ridislocazione tattica.

Si sente parlare di lunga marcia, di attraversamento del deserto. Ma, se non se ne fissano i presupposti nella determinazione della prospettiva strategica che abbiamo lumeggiato, la sinistra italiana appare sin d’ora destinata all’isolamento dai teorici suoi bacini di riferimento sociale e culturale ed inesorabilmente all’irrilevanza.

Come si sarà potuto notare abbiamo espunto da questa prima analisi due delle maggiori incongruenze di linea del PD e del governo dell’ultimo quinquennio.

Si tratta di temi assolutamente nodali che riprenderemo in analisi specifiche. Per ragioni di equilibrio di una disamina così vasta, qui ne facciamo solo un cenno.

Si tratta dell’assoluta sottovalutazione nell’approccio e nella gestione dei temi dei flussi migratori e del cieco rifiuto dei ridimensionamento delle prerogative della casta politica.

Nella loro narrazione, come avremo modo di considerare nel prosieguo, il centro sinistra non solo ha compiuto un esiziale errore di interpretazione dei fatti, ma, soprattutto, ha dato l’impressione di un ancoraggio arrogante a visioni dogmatiche manifestamente respinte dalla gran parte dell’opinione pubblica e del corpo elettorale.

Come si sarà potuto notare l’esame del trend elettorale e delle condizioni che l’hanno indotto è stato svolto nell’ottica più vasta di un convinto insediamento nella sinistra riformista.

Non già come molti avrebbero anche potuto attendersi in un’ottica di frazione (quella socialista) della sinistra italiana.

Ieri sul Corsera il pregiato opinionista Franchi ammoniva a preliminarmente “stabilire da dove, in nome di chi e di che cosa, provare a ripartire”.

Nei giorni prossimi si incontrerà la “Comunità Socialista” per una riflessione che lo scenario post-elettorale impone.

Spero che si incominci, ancor prima di sedersi attorno al tavolo, dall’ineluttabilità di una constatazione. Vale a dire che anche da questo punto di vista (la permanenza di ridotte identificative) nulla potrà restare come prima.

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Pubblichiamo a parte l’intelaiatura della discussione e delle conclusioni previste per le due riunioni di Crema e di Cremona della Comunità Socialista convocata per sabato 17 marzo

La Comunità Socialista cremasco – cremonese

preso atto della maggioranza dei consensi ottenuta dalle forze antisistema (o percepite come tali), del ridimensionamento di Forza Italia a vantaggio della Lega, del vistoso calo di voti al PD, dell’elevata percentuale elettorale raggiunta M5S, 

vista la disfatta del Pd ed il fallimento di Liberi e Uguali ma anche di Potere al Popolo, che complessivamente scendono al minino storico dei suffragi (25 % ) ottenuti dallo schieramento di centro sinistra,

ritiene obbligatoria una rifondazione profonda di tutte le componenti in campo, ma altresì urgente il ritorno di un nuovo, forte e dichiarato, partito socialista, assente da anni nel panorama politico italiano,

considera al capolinea sia il progetto del PD, a causa delle innate e irrisolte contraddizioni, che i vari soggetti genericamente di sinistra, risultati del tutto incapaci di attrarre gli elettori delusi dalle formule del centrosinistra, (senza il trattino) della terza via, che ha portato, anche l’Italia, al cedimento verso il capitalismo finanziario, a favorire la precarizzazione della forza-lavoro, nonché il consumo di beni superflui e non durevoli.

ravvisa, senza ulteriori ritardi, la necessità di ridefinire un nuovo manifesto politico culturale che attualizzi gli ideali ed i valori del socialismo democratico, rispetto alle problematiche della società moderna, alle disuguaglianze oggi esistenti, ai problemi conseguenti la globalizzazione, alle trasformazioni economiche e produttive in corso, nonché alle migrazioni, in più parti del mondo, costantemente in crescita,

auspica in questa prospettiva, un onesto e definitivo revisionismo delle politiche interpretate sia dal PCI di Berlinguer che dal PSI di Craxi, per andare unitariamente oltre, magari riscoprendo semplicemente Riccardo Lombardi sostenitore di una società più ricca perché diversamente ricca, capace di far fronte sia ai bisogni materiali (un lavoro e un salario dignitosi, una casa decente, un sistema sanitario universale e trasporti pubblici efficienti) che immateriali (l’istruzione gratuita, il tempo libero per sè e gli altri, la qualità della vita, l’accesso alla conoscenza e ai saperi, insomma quel che è indispensabile alla formazione della propria identità). sollecita tale dibattito anche a livello locale, affinchè si concretizzi un condiviso quadro di riferimento politico, entro cui sostenere anche le scelte territoriali, utili alle nostre comunità, in vista dei rinnovi amministrativi del 2019 

 

 

 

 

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