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L'EcoDossier - Sanità

Una situazione che non ammette (ulteriori) tergiversazioni 

  02/11/2021

Di E.V.

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Se non proprio a noia (semplicemente perché la gravità della situazione ci impone l'aggancio ad altre categorie percettive) la vicenda del tracollo del sistema sanitario territoriale (e, volendo essere adeguati, regionale) è venuta, da tempo, a situarsi fuori da ogni limite della decenza. 

Ne abbiamo scritto ripetutamente (e non affidandoci alle perifrasi) da due anni. Ed ancora ne scriveremo. 

In splendida (se l'aggettivo fosse adeguato) solitudine; salvo qualche virtuoso incrocio con testimonianze che il mainstream colloca nella riserva degli “sfigati”. Categoria di appartenenza di tutti coloro che, nella fattispecie, sono dotati di accettabili livelli cognitivi e di capacità di elaborazione, ma che vengono tenuti in non cale da una governance che non ammette di poter essere oggetto di critiche e di denunce e da un sistema comunicativo organicamente embedded ai poteri. 

Siamo di fronte, oltre che al manifesto, inequivocabile collassamento della sanità lombarda, ad un affievolimento delle prerogative civili. Che, da una parte, dovrebbero denunciare il testa-coda di un servizio primario per una Regione definita la locomotiva del Paese e, dall'altra, costituire la scaturigine di un percorso resiliente. 

Le consapevolezze di tale inaccettabile stato di cose si manifestano da quasi due anni a questa parte con modalità carsiche. 

Ci si appella ad un effettivo contesto, che dire straordinario è poca cosa e che serve (anche) a giustificare i disastri preesistenti. Ci si esorta vicendevolmente a stringerci a coorte e a preservare il superiore interesse comunitario. Soprattutto, in assenza di impulsi ad approdare a gesti che qualsiasi ancoraggio alla decenza imporrebbe accuratamente ci si tiene lontani dall'ammissione onesta delle responsabilità e dell'inadeguatezza. Da parte degli investiti di ruolo (portatori di braccia sottratte all'Accademia della Crusca). E, nel caso di reticenza e di esitazione nei confronti dell'unico gesto da hombre vertical, da parte dei “mandanti” istituzionali. 

Tutto ciò non solo non è mai succeduto; ma, soprattutto, non è mai stato ritenuto minimamente ascrivibile all'ordine delle probabilità che gli eventi (delle dimissioni volontarie o della revoca dell'incarico) potessero accadere. 

Perinde ac cadaver. Verrebbe da dire! 

Ok, il declino delle capacità di percezione dei fatti e di formazione delle consapevolezze ha avuto, nell'era dei social, una accelerazione che spiega parecchio delle contraddizioni di massa: ci si impicca alla disobbedienza “civile” (quando non entrano in scena versioni policrome) contro i presidî passati dal convento scientifico e si mostra una totale disaffezione all'esercizio civile delle consapevolezze attorno ai perni che hanno determinato ed accelerato il disastro della sanità pubblica. 

Quel che, invece, non è mancato è stato il ricorso ad una narrazione bulimica; inveritiera, reticente, fuorviante. La cui unica mission è stata e continua ad essere a servizio, non già di uno scatto per invertire un trend pernicioso, di un modulo di esternazioni da cui, nel migliore dei casi, non si caverà un ragno dal buco. 

Presumiamo che succedesse così nei passati scenari privi dell'esercizio del sacrosanto diritto di critica e di controllo dell'operato della funzione istituzionale. 

Come anticipavamo, gli ingredienti di questa notte delle prerogative liberaldemocratiche sono rappresentati da una soglia di attenzione fluida nelle percezioni e nell'immaginario dell'opinione pubblica e nel bacino dell'utenza, cui manca il significativo ruolo di indirizzo e di rappresentanza della rete istituzionale territoriale e dai corpi sociali intermedi. 

Solo ad una minoranza, non omologata ad un sistema di sviamento dei fatti, viene in mente di associare lo stato dell'arte della sanità lombarda alle conseguenze della Norma n 31 del 1997 imposta da Formigoni per affermare la libertà di opzione tra sanità pubblica e sanità privata, o capitalistica che dir si voglia. 

Era stata artatamente giustificata allo scopo di ridurre drasticamente i tempi di attesa per le prestazioni ospedaliere e diagnostiche. 

Che, in realtà, per quanto si riferisce all'offerta della spedalità pubblica si sono esponenzialmente dilatati. La spedalità privata ha opzionato le branche terapeutiche ad alto rendimento ed ha completamente schivato le discipline costose e rischiose, gentilmente lasciate agli ospedali pubblici. Col risultato di un trasferimento biblico di risorse pubbliche all'iniziativa privata (che macina annualmente utili cospicui: 27 mln gruppo S. Donato; 67 mln gruppo Humanitas; 6,7 gruppo Multimedica) e di ripianamento delle perdite della medicina regionale (circa 300 mln). 

Non avremo mai la prova provata che, in assenza degli splendori delle opzioni di Formigoni e del suo successore Maroni, modello lombardo, incardinato negli anni 80 lungo la direttrice della sanità pubblica e territoriale, avrebbe mantenuto caratteristiche etiche e standards di efficienza in grado di non prostrare stabilmente l'utenza (specie più fragile) e di affrontare più efficacemente i morsi della pandemia. 

Vero è che dove tale modello si è mantenuto più vicino a quei cardini originari (ci riferiamo a Veneto, Emilia, Lazio) le cose sono andate meglio e lo scenario postpandemico della resilienza non caricherà di ulteriori gravami i cittadini. 

Va anche aggiunto che, nel disastroso scenario regionale, spicca la specificità della condizione del nostro territorio, interessato da un processo di ospedalizzazione, paradossalmente approdato ad uno svuotamento e ad una dequalificazione della struttura. 

Grazie alle “mani libere” della “aziendalizzazione”, che ha fornito alimento ad una governance sottratta, come abbiamo ripetutamente anticipato, al redde rationem del vaglio e della compartecipazione attiva delle istituzioni del territorio. 

I “gauleiter” nominati dal Pirellone da vent'anni hanno avuto come principale regola di ingaggio lo svuotamento della medicina del territorio sul terreno dell'autosufficienza gestionale e della sostenibilità. 

E non ci riferiamo solamente o prevalentemente alla caduta degli originali livelli prestazionali e dell'entità dei presidî; dai 1400 posti letto del 1970 agli attuali poco più che 300 (utili a giustificare lo smantellamento dell'ospedale cremonese per la costruzione di uno nuovo, tarato appunto su un fabbisogno enormemente ridimensionato. 

Ci riferiamo anche alla dequalificazione quasi generalizzata di reparti, che per anni ebbero un generalizzato apprezzamento anche a livello nazionale. 

Dove siano finite quelle équipes di valenti primari, medici, paramedici, costretti a migrare verso altre soluzioni di appagamento professionale, è ormai noto. 

“E dalle parole ora passi ai fatti”, “più prevenzione: i grandi obiettivi”, fa spavaldamente titolare la Direzione Generale, come mossa diversiva tendente a parare i colpi di un'evidenza inequivocabilmente destinata a dimostrare che a Cremona si può morire di Covid, ma anche di conseguenze da blocco dei percorsi di follow up e di prevenzione. 

Non si caverà un ragno dal buco per questo disperato tentativo di resilienza (resilienza etica, innanzitutto) se la buona politica non tornerà a fare squadra. 

Disarmante appare il fatto che, diversamente da quanto si dovrebbe, il Consiglio del Capoluogo da tempo non riesca a pervenire ad un convincimento condiviso e coeso di denuncia e di proposta. 

Sorprendente l'assenza di un minimale impulso a dismettere le pratiche consociative tra i due principali campi che animano la vita politico istituzionale della Lombardia. 

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