RICEVIAMO E DI BUON GRADO PUBBLICHIAMO: Caro Eco, avrei voluto partecipare (ieri) alla Festa de l’Unità; fortemente attratto dal protagonista della serata: il Ministro del Lavoro, Giuliano Poletti.
Ma, confesso, hanno pesato sulla rinuncia la insopportabile canicola, sconsigliata per quelli della mia età, e, soprattutto, la prospettiva di incrociare, ancora una volta, l’ennesima “testimonianza” degli antagonisti (che continuano a sviluppare le loro strategie nella benevola ospitalità del patrimonio comunale).
Seguo con molto interesse le politiche del lavoro del governo in carica, perché rappresentano, a mio parere, il profilo più rivelatore dello sforzo complessivo di combinare le ineludibili riforme con l’imperativo di tutelare i ceti più svantaggiati.
“ ‘na cosa da niente”, osserverebbe l’Albertone. Già, infatti, nei permanentemente critici scenari, la “volatilità”, finanziaria e, soprattutto, sociale, sembra essere tarata da un perfido meccanismo per il quale gli indicatori economici crescono solo se collegate a dinamiche socialmente dannose. D’altro lato, sembra anche che l’organizzazione sovrannazionale, che ci siamo dati, non preveda collaborazione e non promuova solidarietà e stabilità. Questo grande moloch appare alimentato solo da precarietà, da competitività, da incontenibile declassamento nella scala sociale del lavoro e dei ceti che se ne sostengono.
Non c’è dubbio alcuno, almeno a mio avviso, che i nuovi contesti, improntati dalle tecnologie, dalla globalizzazione dei mercati, dall’efficientamento della produzione, abbiano definitivamente archiviato quegli equilibri preesistenti nel quadrante occidentale per incardinare logiche congruenti a modelli, in cui il contrappeso sociale ai poteri economici risulta fortemente attenuato.
Diciamo anche, per restare correttamente aderenti ad un’analisi obiettiva, che il pensiero dei corpi sociali intermedi di rappresentanza del lavoro è stato, per decenni, fortemente condizionato da ancoraggi, politici e sociologici, di tipo dogmatico/conservatore.
I sistemi, permeati maggiormente e prima di noi dai valori della corresponsabilità sociale e della compartecipazione, hanno avuto minori problemi a tarare i meccanismi della competitività.
Il combinato tra una sinistra sociale, prevalentemente anchilosata da visioni massimalistiche ed immobilistiche ed una sinistra politica, collaterale a questo aggregato teorico-pratico di evidente ispirazione anti-riformista, non è stato certamente una mano santa per i tentativi di riformare profondamente un sistema nazionale ingessato, dalla neghittosità per i cambiamenti e dalla difesa dei “diritti acquisiti”.
Non lo affermo per una ritorsione polemica suggerita dall’eterno duello tra socialisti e comunisti (che siamo stati); bensì lo dichiara, apertis verbis, l’ospite d’onore dell’evento.
Quel Giuliano Poletti, il cui cursus honorum, prima di raggiungere l’azimut con la titolarità del Ministro del lavoro e delle politiche sociali nel governo Renzi, aveva scalato step di crescente responsabilità in campo amministrativo e sociale; tutti orientati dalla militanza comunista e, per un breve tratto, anche post-comunista.
Orbene, il già presidente della Legacoop Nazionale ha esordito, dimostrando di non temere né imbarazzanti domande né la contestazione degli autonomi (restata oltre i cancelli del Parco) con una difficilmente equivocabile denuncia: “Siamo in ritardo di vent’anni. Ma questo è sempre stato il Paese del, delle decisioni annunciate e poi rinviate sine die sperando di scansare i problemi. Noi abbiamo deciso di cambiare marcia. Decidiamo e facciamo. Poi gli elettori giudicheranno”.
Bene, bravo, bis! È pur vero che, in forza della damnatio memoriae, nessuno (a cominciare da Veltroni, che è stato solo nella segreteria del PCI e direttore del suo organo ufficiale, l’Unità), nessuno è mai stato comunista.
Ma, Tu dov’eri nel 1985, quando il solo PCI di Enrico Berlinguer propose un referendum abrogativo contro il decreto del governo Craxi, che, nell’intento di bloccare la spirale di inflazione a due cifre e convertendo un accordo delle associazioni imprenditoriali con Cisl e Uil, aveva tagliato quattro punti della scala mobile.
E dove sei stato nel ventennio della seconda repubblica, in cui il “centro-sinistra” ha avuto un lungo periodo di responsabilità di governo ed il PDS/DS ha condiviso una sia pur ondivaga politica del lavoro? E, nel corso del quale, lo ricordiamo non certamente per amore di polemica, il segretario della Cgil Cofferati (un tempo frequentatore delle kermesse post-comuniste) non si fece mancare la definizione di «limaccioso» all’indirizzo del Libro Bianco sul lavoro e l’accusa di «collateralismo tra governo e Confindustria». Per quel Marco Biagi, giuslavorista di cultura socialista, ucciso dalle Brigate Rosse la sera del 19 marzo 2002.
L’Hannibal ante portas, rappresentato dal pericolo di perdita di competitività del sistema Italia, che resta pur sempre il secondo paese manifatturiero d’Europa, induce, specie dopo le cattive performances di politica finanziaria, il governo ad affrontare il nodo della sostenibilità economica di un modello produttivo, chiaramente in sofferenza.
L’Eco del Popolo ha analizzato ampiamente (e continuerà, mi si dice, a farlo) i passaggi delle politiche del lavoro del Governo Renzi, di cui il cosiddetto jobs act ha finito per costituire il nocciolo.
Se venisse emendato da quello sfregio simbolico (dagli intenti più dimostrativi che sostanziali) che è la cosiddetta riforma dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, il senso di marcia che muove il governo sembra restare nell’alveo del volonteroso realismo e dell’ineludibilità del percorso per agganciare il plotone di testa della ripresa.
Dal già militante comunista ed attuale ministro del lavoro, Poletti, ci si attenderebbe, però, qualcosa di più di un sia pur ineluttabile impulso razionalizzatore nelle impostazioni del lavoro.
I Sindacati non sono solo Landini; i lavoratori non sono solo, ove ancora ve ne fossero, dei neo-luddisti che si oppongono ad un fecondo indirizzo di riqualificazioni delle relazioni industriali. Ma è inconfutabile l’assunto per cui come (e forse più) la sinistra politica anche quella sindacale deve intraprendere una lunga marcia di rigenerazione (vedi lo sciopero bianco dei trasporti urbani della Capitale di oggi).
Così come che alcune delle realistiche (anche se dolorose) linee-guida della politica riformatrice dell’attuale governo troverebbero maggiore condivisione se fosse palese la volontà di compensazioni.
Il lavoro italiano continua ad essere il peggio remunerato in Europa. Le tutele della sicurezza antinfortunistica restano da paese arretrato. Il cosiddetto welfare aziendale non è entrato (per maggiore responsabilità non si sa se della controparte imprenditoriale ovvero di una cultura sindacale arretrata) né nel ventaglio delle relazioni contrattuali né in quello delle politiche governative di armonizzazione al contesto europeo.
Se, ammesso ed assolutamente non concesso, che avessi incrociato Giuliano Poletti nel corso della Festa dell’Unità (alla quale, pur non avendo partecipato, auguro di cuore un mondo di successo), gli avrei manifestato queste riflessioni.
Ma dodici ore dopo, come in Via col vento, siamo in un altro giorno.
Ore 10, Via Massarotti, cantiere di ristrutturazione del già deposito di formaggi.
Quattro operai, che indossano tute e mascherina, sono sul tetto dei capannoni e procedono a quella che sembra essere un’operazione di inertizzazione, di packaging e stoccaggio di qualche centinaio di metri quadri di copertura in eternit dei capannoni.
La temperatura (sul balcone di casa) è a 38°. Immaginatevi quale può essere quella percepita nelle condizioni descritte.
In strada, simultaneamente, un cantiere di opere stradali sta procedendo alla scarifica del tappeto d’usura, preliminare alla successiva stesa del manto bituminoso (la cui temperatura, per essere efficace, non dovrà scendere dai 50°).
Ecco, voglio dire, questi lavori, specializzati quanto estremamente rischiosi (nonostante nella situazione descritta appaiono applicati rigorosi protocolli di sicurezza) e pesanti, danno ancora occupazione e, spero, un salario corrispondente.
Ma quanto corrispondente? Certamente, senza voler minimamente sfiorare derive troppo populiste ed azzardi troppo irresponsabili, non al potenziale usurante, al pericolo intrinseco, all’utilità economica e sociale! Certamente non allo stridente divario, che, sulla base dei medesimi parametri, c’è con gli insensati trattamenti appannaggio delle caste pubbliche e delle oligarchie che vivono della filiera che fa soldi attraverso i soldi.
I casi segnalati, invece, appartengono al pianeta di chi si deve tener stretto questo tipo di lavori (che nel ventunesimo secolo replicano i mestieri della gleba dei terrazzieri e selciatori), si deve accontentare di un salario di 1000-1200 euro, azzerare le prospettive di mobilità sociale.
Ecco, compagno Poletti (ovviamente, se l’appellativo non Ti offende), pur restando aderente ai margini stretti di un riformismo che non può affidarsi a svolazzi idealistici, ogni tanto, (come Don Camillo suggeriva all’onorevole Peppone in procinto di occupare il seggio a Roma) pensa in termini non astratti e virtuali al lavoro. Soprattutto, pensa che in Italia ci sono ancora molti (come pretende la snobistica vulgata) “fortunati” che sono destinati a svolgere i lavori descritti fino al raggiungimento della quiescenza (spinto ormai a prospettive temporali sovrapponibili con la linea di fine ciclo vitale).