Personalmente titubiamo di fronte all'uso, non sempre appropriato, di tutto ciò che è pubblico e, quindi, prerogativa di tutta la comunità per iniziative che non si pongano nel segno dell'universale condivisione.
Ma proprio perché è difficile non sentire il trentenne Giulio figlio di tutti noi (come continuiamo a sentire, ad esempio, Valeria Solesin finita nel tritacarne del Bataclan) apprezziamo, in essa identificandoci, la campagna di verità sul retroterra e sugli obiettivi di questo delitto (osiamo dire) di stato. Su cui da un anno è applicata una strategia di disinformazione e di depistaggio; in cui è impossibile non intravedere responsabilità, autori e scopi.
Non si sa se il trascorrere del tempo favorirà o meno la tattica di un regime, non certamente annoverabile nelle eccellenze delle libertà democratiche. Ma indubbiamente, una volta ipotizzata la tesi (più soft) di un “incidente” non interamente controllato dall'establishment, siamo pur sempre di fronte alle avvisaglie di una gestione politica, mediatica, giudiziaria che difficilmente potrà continuare a scantonare.
In una realtà in cui i centri di comando istituzionali, sono irrafrontabili, per numerosissimi motivi, alla tradizione delle democrazie occidentali, diventa problematico azzardare se l' “incidente” discenda più dalla tracotanza di un regime totalitario/autoritario (per vocazione o per necessità) ovvero dalla non improbabile circostanza di un errore di manovra della frizione. Sfuggita, paradossalmente, al controllo di un regime che in materia di autoritarismo ossessivo sa qualcosa.
Sia quel che sia la regia di controllo della situazione interna dell'Egitto e di un quadrante geopolitico non irrilevante non deve aver impiegato molto tempo a realizzare l'enormità del fatto e la sproporzione tra le conseguenze nei rapporti internazionali e la finalizzazione di un eccesso repressivo.
Ad un anno dal fatto la risposta dell'establishment del Cairo, incardinata da un misto di imbarazzi, reticenze, depistaggi e proseguita con una linea di resistenza ad ammissioni coerenti con la fattualità, non è cambiata nella sostanza. Ma, con un gradualismo inadeguato alla gravità del fatto, lascia presumere aperture parziali, che potranno anche diluire l'accertamento della verità e delle sanzioni ma che, almeno si spera, presto o tardi approderanno (o dovranno approdare) a conclusioni meno surreali.
D'altro lato, senza tuttavia adottare l'ipotesi della conseguenza di una situazione sfuggita ad un regime totalitario ma infragilito da una situazione simile ad un magma incandescente, appare tutta da valutare l'interpretazione di un delitto di stato. Di uno Stato che continua ad essere alle prese con un difficile ed inconcluso processo di stabilizzazione di un'intera area nevralgica per gli equilibri intercontinentali. Nei confronti di uno Stato, l'Italia, che geo-politicamente ne è interfaccia; in proprio e per conto del retroterra continentale. Che rispetto allo scacchiere è orientato più da ragioni di sicurezza che dagli impulsi di scambio economico.
Col contagocce il regime è passato da ricostruzioni fantasiose (al limite della caduta di rispetto nei confronti dell'Italia) a collaborazioni investigative e, negli ultimissimi giorni, ad ammissioni, parziali ma non irrilevanti, soprattutto affidate, per la prima volta, ai piani bassi dell'ordinamento istituzionale.
Azzarda il ministro degli Esteri: non ci accontenteremo di nient'altro che la verità. Che è sempre stata la linea della famiglia e dell'ampia campagna di opinione e di denuncia avviata in Italia.
In ciò perfettamente raccordato alla linea sin qui tenuta prima da Renzi ed ora da Gentiloni e dalla campagna di verità dei genitori di Giulio. Che scandiscano la loro testimonianza con “Non ci basta sapere da chi, vogliamo capire perché è stato ucciso Giulio”.
Genitori, i quali ne hanno (soprattutto, la mamma) orientato l'impronta educativa e culturale all'insegna del pensiero critico e della massima apertura alla contaminazione con la diversità.
Ormai nessun posto del mondo può essere considerato in franchigia dall'ondata che sta travolgendo ogni certezza di tolleranza e di sicurezza.
Nel suo fervore scientifico e nel suo afflato umanitario Giulio (che l'Università di Cambridge, per cui svolgeva la ricerca a contenuto sociale, avrebbe dovuto mettere in guardia dai pericoli) è stato indotto, per questa premessa, a mantenere comportamenti congrui per contesti a forti radicamenti civili.
Condizione che ovviamente è prerogativa (per giunta, dati i tempi, con qualche precauzione in più del passato) dell'Occidente evoluto. E non certamente di quadranti geo-politici, come l'Egitto, che sono più simili ad una polveriera.
Postulare verità e giustizia è da minimo sindacale per qualsiasi Paese che fosse interessato a mantenere per sé il rispetto internazionale e per i propri cittadini la certezza della protezione.
Ma forse (un forse che si sottolinea ripetutamente), però, sarebbe anche qui il caso di osservare l'incongruenza delle premesse educative dei giovani, che si vogliono proiettare nella dimensione cosmopolita di cittadini del mondo.
Certamente devono mantenersi aderenti ai binari della massima apertura intellettuale, ma restare anche ancorati alla consapevolezza della diversità dei contesti ed ai pericoli latenti in situazioni in cui diritti civili dati per scontati in casa nostra non lo sono né per i residenti né (a maggior ragione) per gli stranieri.
Indubbiamente, la campagna per la verità dovrà proseguire. Ma lungo una testimonianza ispirata da realistiche consapevolezze che evitino di condurre una mobilitazione civile, ispirata più da passione che da realismo, sul binario morto delle illusioni e delle conseguenti frustrazioni.
In questo senso è auspicabile che il Governo e la Farnesina, in particolare, si impegnino a garantire la sicurezza dei giovani italiani all'estero per motivi di studio e di lavoro, a cominciare dal monito permanente a comportamenti dettati dalla prudenza e dal realismo.
Diversamente Giulio morirebbe altre volte.
E.V.