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IL “COMPAGNUCCIO”

Abbiamo ricevuto da Ennio Serventi e molto volontieri pubblichiamo

  17/10/2020

Di Redazione

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Con un che di sbarazzino portava il berretto della divisa aziendale sulle “ventitré” forse l'unico vezzo residuo di una antica eleganza. Non alto camminava lentamente con il busto eretto; quell'incedere, il modo ammiccante di portare il berretto e la serietà del volto gli conferivano un tratto di aristocratica distinzione. Nei brevi intervalli fra un impegno e l'altro, nelle porosità del lavoro, specialmente verso sera quando il tempo lavorativo volgeva al termine e gli operai si riunivano nello spogliatoio a raccontarsi di come era andata la giornata, molto spesso veniva a sedersi nella mia postazione alla CRC. MI chiedevo come mai venisse li da me invece di stare con gli altri operai nello spogliatoio. Mi convinsi che volutamente fuggisse da una loquace comunanza, non per misantropia ma per evitare di sentire cose che anche se non direttamente rivolte a lui potessero ferirlo. Con il suo passo lento e lieve arrivava silenzioso, non uno scricchiolio dal calpestio che facesse intendere il suo arrivo, inatteso lo trovavo al mio fianco e pareva sortito dal nulla. Si sedeva sullo sgabello, mi guardava da sotto la visiera del berretto sghembo che pareva aver perso il tratto furbescamente canzonatorio delle prime ore del giorno, mentre la smorfia della faccia sempre tramandava un sentimento di rassegnata antica tristezza, di pesante stanchezza. Non riuscivo a trovare motivazione per il riprodursi di questo suo aspetto: fra le diverse ipotesi che man mano andavo formulando mi convinsi che la fine della giornata lavorativa, il tornare a casa, il riedere a comune cena con i famigliari non portassero a lui la lieta serenità che comunemente, ai più, porta. Se ne stava li assorto in pensieri solo suoi finché, con una mossa della testa, pareva riuscire a distoglierli. A quel punto scambiavamo qualche parola. A volte accennava ai colleghi di lavoro, alludeva a questo od a quello senza spettegolare, lasciava intendere e senza farlo pareva volermi dare qualche consiglio. Lui mi chiedeva e io rispondevo. Di se raccontava poco, a volte accennava alla certezza di una sua predestinazione alle avversità della vita senza entrare nel merito di queste, molto spesso ricordava la ritirata dalla Russia legandola non a fatti d'armi ma al ricordo di un capitano, del quale forse fu attendente, che interloquendo con lui sempre lo apostrofava con la frase: “vieni avanti scassato”. Una volta al solito ripetuto racconto della ritirata aggiunse: “dalla Russia lo scassato è tornato a casa e lui (il capitano) è rimasto la”; il dubbio che alla occasione propizia nello sconquasso della ritirata, esasperato gli avesse tirato un colpo di fucile facendolo secco mi rimarrà per sempre. “Scassato” diceva a se stesso, ed a me dava l'impressione che con quella ripetizione dell'aggettivo esprimesse sintesi e giudizio (amaro giudizio) di una ripercorsa autoanalisi della sua vita, che si spingeva lontano nel tempo, fino a fatti che non poteva ricordare ne sapere, per arrivare ai giorni nostri; alla guerra di Russia, alle traversie di un matrimonio ed a quelle legate alle allora colpevoli tendenze di un figlio. Aveva un cognome che,solo per assonanza, poteva essere annoverato fra quelli che in tempi andati monache caritatevoli davano a neonati trovati una notte nella “ruota degli esposti”; fra gli operai c'era anche chi qualche cosa in merito sussurrava. Cognomi tristi, quasi un marchio di colpa che avrebbe seguito quei bambini per tutta la vita. 

Era iscritto al Partito Socialista Italiano, non seguì la scissione del 1963 come feci io; vissuta quasi come un tradimento personale di questa mia scelta fu sinceramente amareggiato. Il suo era un socialismo estraneo alla scientificità delle formulazioni sul “plusvalore”, sul valore “d'uso”o“di scambio” o che dir si voglia di qualsiasi altro valore, tutte cose che gli erano estranee. Lui pensava alle sue tribolazioni ed a quelle della gente, sicuro che l'avverarsi del suo socialismo avrebbe fatto cessare i triboli che lo affliggevano e redente le plebi oppresse. In AEM in quegli anni, i lavoratori iscritti al PSI erano numerosi ma per tutti era solo lui “il compagnuccio” e di questo non so dire il perché. Era una “scutumàja” che mi piaceva e poco più avanti nel tempo, quando il nostro rapporto divenne più confidenziale, presi anch'io a chiamarlo con quel soprannome.

Andai a fargli visita alla casa di cura “San Camillo” quella di via Mantova, oltre il colatore Pippia e il cavo Cerca che, a quel tempo, scorreva ancora in superficie sotto passando la grande strada. Passeggiammo lentamente avanti ed indietro per l'ampio corridoio del secondo piano. Le parole scambiate furono poche. Incrociammo lo spettro camminante di un uomo lui, il compagnuccio, mi disse: “vedi...quello era un omone come te....avrà pesato ottanta chili..... farò la sua fine”. Io non trovai cosa rispondergli e quelle furono le ultime parole che di lui ricordo.

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