Dodici anni fa, nel 2008, dopo aver scritto per la “Strenna dell'Adafa” un saggio sul bestiario del ‘mosaico del Camposanto dei Canonicì, sono stato qualificato in modo improprio come “esperto”. In realtà, in quegli anni, ero stato solo un lettore appassionato dell'opera musiva posta al di sotto della sagrestia della Cattedrale di Cremona, alla quale si accede dal cortiletto posto a sud del duomo, scoperta nel 1770 dal conte Severino Giambattista Biffi, in occasione di lavori svolti per necessità di ordine sanitario.
Nel contempo, in quel periodo, ero stato molto interessato alle vicende storiche di Matilde di Canossa, nell'esercizio di tutta la sua influenza politica, culturale e religiosa nella costruzione di edifici sacri in molti siti della Valle Padana.
E devo ammettere la sorpresa, sempre in quegli anni, di aver letto la citazione di quella mia ricerca da parte di un vero esperto di fama, ossia Arturo Calzona, nelle note del suo libro “Il cantiere medievale della cattedrale di Cremona”.
Devo pure aggiungere di essere stato allora affascinato dal dibattito culturale sulla datazione del “mosaico del Camposanto”, nel cui ambito sembrava prevalere un riferimento storico fra l'XI e il XII secolo, anteriore quindi alla costruzione della Cattedrale della città, ma al centro nella fase storica matildica che aveva visto i “dottori in pietra” (gli architetti del tempo) ed i loro operai impegnati nella costruzione della Cattedrale di Modena, trasferitisi poi, nel 1106, verso il nuovo cantiere della Cattedrale cremonese.
Per questo allora mi piacque definire “matildica” la prima fase dei lavori della stessa Chiesa Madre della diocesi locale, dopo che Matilde, otto anni prima, per la precisione il primo gennaio del 1098, aveva investito a Piadena il libero comune di Cremona e la curia della città di tutti i loro privilegi, suggellando con un atto ufficiale l'investitura dell'Isola Fulcheria (il circondario cremasco) ai rappresentanti del popolo e della Chiesa cremonese.
Ed essendo stata Matilde “madre” di molte pievi del suo tempo, ecco perché ritengo oggi di poter qualificare come “matildici” pure i mosaici di casa nostra, quelli delle chiese di Pieve San Giacomo e di Pieve Terzagni. Da qui l'orientamento verso una personale visuale critica riferita ad un approccio interpretativo comparato fra quelle stesse opere, segnate sicuramente dall'influenza politica ed artistica della Grande Contessa.
Oggi quindi inizierò a parlare della prima opera musiva, ossia di quel vero tesoro conservato nella parrocchiale di Pieve san Giacomo, per passare poi, nei prossimi interventi, agli altri due mosaici matildici presenti in terra cremonese.
È doveroso precisare allora che l'analisi che andrò a condurre è stata influenzata da diverse letture sul litostroto di Pieve San Giacomo, dovute ad una frequentazione assidua presso il Circolo culturale “Concordia”, presieduta allora dall'amico Vittorio Pellegri, che fu prodigo di segnalazioni e testimonianze al riguardo.
Quelle letture mi portarono in passato a soluzioni interpretative degli enigmi suscitati dalla visione del mosaico della città del Torrazzo, trasferendo inevitabilmente a Cremona le conclusioni degli specialisti di storia dell'arte riferite alla complessa iconografia simbolica dell'opera matildica pievese.
Conservo gelosamente nella biblioteca di casa ancora i libri e le note degli amici Vittorio Pellegri e Dante Fazzi, oltre che un articolo di Sonia Tassini, pubblicato sulla Strenna dell'Adafa del 1979, dal titolo ‘Il mosaico pavimentale di Pieve san Giacomo, così come un servizio giornalistico di Marialuisa D'Attolico, del 1° settembre 2001, sul quotidiano La Provincia, dal titolo ‘Un tesoro sotto la chiesà, con la speranza rimasta negli anni purtroppo vana che potesse essere restaurato.
Mi avvalsi allora pure dei saggi archeologici di Pier Massimo Ghidotti, Il mosaico pavimentale in area padana nei secoli XI e XII, e L'officina romanica: il mosaico pavimentale in area padana nei secoli XI e XII.
Da questo materiale venni a desumere che i sondaggi esplorativi effettuati dall'allora parroco Linneo Ronchi, subito dopo la messa in luce del mosaico scoperto a Pieve San Giacomo, il 16 ottobre del 1963, confermarono che l'opera interessa tutta la navata centrale della chiesa, estendendosi per oltre 18 metri in lunghezza e 6 di larghezza, come riportato dalle pagine della tesi di laurea della studiosa Michelina Conte. Dopo di allora, il mosaico veniva proposto alla curiosità di tutti per la festa patronale di San Giacomo, il 25 di luglio di ogni anno. Ma ne sono ormai trascorsi una decina dall'ultima volta che è stata tolta “la mascherina” a quella preziosa reliquia artistica.
Ma torniamo a quando una sua parte rilevante, di circa 30 mq, fu ritrovata e liberata, ossia circa un terzo dell'opera completa, costituita da due grandi pannelli o riquadri rettangolari incorniciati da una fascia ornata di foglie cuoriformi sovrapposte, con due ampi fregi longitudinali delimitanti i lati del pavimento.
Nel riquadro superiore, verso il presbiterio, vi sono poi quattro losanghe, o grandi rombi, che si intersecano, formando una croce di Sant'Andrea inscritta in un quadrato.
Già questa dimensione strutturale, in cui si compenetrano il rombo, la croce, il quadrato, va a comporre una serialità geometrica progressiva carica di molteplici significati simbolici. Il rombo è una figura che il pensiero medioevale pone ad avvertire quanto la geometria divina sia presente in ogni aspetto della natura. Va precisato che il rombo è formato da due triangoli equilateri, che rappresentano la Trinità divina, una divinità che si specchia e si rifrange in se stessa, in ognuna delle proprie tre figure, il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, ponendo al centro l'incrocio fra i bracci della croce, che vanno ad indicare, a loro volta, l'onnipotenza dello sguardo divino, come fasci di luce della redenzione che si sviluppa su ogni lato.
È una redenzione in cammino, lungo un percorso che si proietta nei secoli e che si compie anche attraverso il sacrificio degli apostoli e dei martiri, come Sant'Andrea, di cui quella croce porta il nome, all'interno del mondo creato, definito, preciso, palpabile che quel quadrato inscrive.
Quindi pure il quadrato, figura del mondo sensibile, è attraversato dalla stessa croce, che ne definisce il centro e ne regge l'ordinamento. È una iconografia che si irradia in potenza, che pone il fedele alla ricerca della via della salvezza su di un cammino iniziatico, che trasferisce la mente ed il cuore in una dimensione altra, al di là del tempo e dello spazio contingente.
Nelle campiture sono evidenti quattro distinte figure di animali: un cinghiale, un grifo, un cane ed un cervo. Ogni animale rappresenta una o più virtù od uno o più vizi, oppure entrambe le facce positive e negative della morale, in chiave ambivalente.
Nel Medio Evo, questa allegoria fu molto cara alla mentalità popolare e nella storia della letteratura è passata col nome di “bestiario”, nel quale gli animali non rappresentano soltanto i vizi umani, ma gli stessi insegnamenti, morali e spirituali della dottrina cristiana, come per l'appunto nella prima losanga di Pieve San Giacomo, dove il cinghiale è inserito in modo eccentrico, in una posa statica con lo spazio eccedente riempito da un alberello.
Siamo qui di fronte al campione della selvaggina nobile, ad una bestia temibile di cui si ammira la forza e il coraggio presso tutti i popoli dell'antichità, comprendendo in essi sia i Romani sia i Franchi, e sia i Longobardi, i quali ultimi si pongono, in Italia, in mezzo ai due popoli, e costituiscono lo stesso ceppo etnico di Matilde di Canossa.
Va aggiunto che la caccia al cinghiale, anche nel medioevo, si praticava il più delle volte a piedi, finendo con un combattimento corpo a corpo, faccia contro faccia, fiato contro fiato. Rari erano coloro che vi riuscivano senza essere feriti dalle zanne e dalle setole erette dell'animale, proprio come quelle così ben evidenziate nel mosaico di Pieve San Giacomo. L'idea e l'iconografia del cinghiale ci viene così presentata, come una furia fulminante, che ben sottende i pericoli di una simile contesa. Ma il superamento di questa prova diventa nello stesso tempo un rito iniziatico per diventare guerrieri liberi e adulti, così come, ad un livello simbolico, per diventare dei veri cristiani, è necessaria una lotta intensa nei confronti del peccato di lussuria e di egoismo, che il cinghiale ed il maiale vengono a rappresentare.
Passiamo, ora, al grifo o grifone, un animale mitico, con la testa, le ali e le zampe anteriori d'aquila e il corpo, la coda e le zampe posteriori di leone. Unendo la potenza terrestre del leone all'energia celeste dell'aquila, il grifone viene allora ad assumere il simbolo della duplice Natura, umana e divina di Cristo.
Evidentemente, il grifone va a significare pure il superamento dell'arianesimo e l'accoglimento del cattolicesimo da parte dei “fara-manni”, i longobardi che abitavano le fare, le corti armate della campagna lombarda con i loro clan familiari, come avveniva nella corte di Sospiro e nella fara di Gazzo. Il termine stesso “gazzo” è un segno della dominazione di quella gente, essendo un toponimo derivante dal longobardo gehagi (fondo cintato, riserva di caccia, proprietà privata).
Nella lettura del mosaico di Pieve San Giacomo va tenuto inoltre conto che nei postulati dell'arianesimo, professato dai longobardi nei secoli precedenti alla loro conversione religiosa influenzata dalla regina Teodolinda, il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo non venivano riconosciuti come tre persone uguali e distinte, ma si individuava in Gesù una persona umana, inferiore al Padre perché suo figlio.
Il grifone presente nel mosaico rende qui evidente la pariteticità fra le figure trinitarie, così come lo stesso concetto viene reiterato, più volte, nei diversi tralci a tre foglie, presenti nell'opera accanto agli intrecci dei tondi o dischi del Bestiario.
Passiamo ora alla figura del cane, l'animale fedele per eccellenza, che viene a rappresentare la fede coniugale dovuta a Dio dai fedeli che costituiscono la Chiesa, nella quale i cristiani stessi sono tutti compartecipi del progetto divino sulla via tracciata da Cristo, affidata alla testimonianza dei suoi discepoli, pastori d'anime.
In chiusura del primo pannello abbiamo il cervo, un animale citato dal Fisiologo, il testo greco da cui ebbero origine, nel XII-XIII secolo, i ‘bestiarì germanici, francesi e italiani. Sul Fisiologo sta scritto: “Come il cervo anela alla fonte d'acqua, così la mia anima anela a te, o Dio (Salmi, 42.2)”. Il cervo rappresenta la preghiera, l'anelito, la lode al Signore, affinché questi aiuti l'umanità a vincere le insidie del demonio attraverso la parola celeste.
Infatti, dice ancora il Fisiologo “Il Signore è venuto a dare la caccia al grande drago: allora il demonio si è nascosto nelle parti più profonde della terra, quasi in una grande crepa, e il Signore ha versato dal proprio petto il sangue e l'acqua, ci ha liberato dal drago mediante il lavacro di rigenerazione, e ha distrutto in noi ogni nascosta influenza diabolica”.
Sono pure presenti nel mosaico, disposti in una dimensione marginale, in spazi triangolari, un cerbiatto, un capriolo e alcune figure di pavoni.
Nell'arte paleocristiana, riferimento precipuo dell'estetica romanica, della quale i mosaici sono parti significative, i cervi, i cerbiatti, i caprioli, rappresentano le anime dei fedeli (precisamente quelle dei catecumeni) desiderose d'incontrare Dio.
Inoltre, è significativo che allorquando questi animali del bosco arrivino in un luogo sporco, essi lo saltino di corsa. Allo stesso modo si devono comportare i cristiani, che devono aiutarsi reciprocamente saltando i luoghi sporcati dal peccato, e correndo invece in fretta da Cristo, la vera sorgente per confessarsi e ringiovanire spiritualmente.
Per quanto riguarda i pavoni, possiamo dire che l'iconografia cristiana, erede di tradizioni precedenti, riconosce in questo stupendo volatile un simbolo solare, quindi divino, per la sua coda che si apre a ruota, con quegli occhi che punteggiano il suo piumaggio e che rimandano allo sguardo divino e alla prospettiva salvifica del faccia a faccia con Dio.
Nel secondo pannello, tre tondi o dischi s'intrecciano tra loro ed inscrivono un toro, una vacca, ed una figura chiamata dai ricercatori “pastore o contadino”, e che invece noi intendiamo definire come un mimo o un danzatore.
Il toro, al pari dell'aquila, del pellicano, dell'ariete, dell'agnello e del gallo, viene definito animale solare e diventa un emblema stesso di Cristo e della vitale presenza del Signore. Anche la mucca, o meglio la vacca, è sempre stata considerata una forza positiva. Essa ha sempre simboleggiato le forze materne e nutritive della Terra e come tale, ritengo, sia stata inserita nel Bestiario di questa pieve rurale, proprio per la sua mansuetudine, per la sua feconda alleanza con la gente dei campi e come esempio di docilità e di donazione della propria primaria energia, il latte, al prossimo, agli altri.
È per me d'estremo interesse la figura umana del cerchio centrale. È una figura che unisce la rigidità della forma al movimento scomposto della sua gamba destra, come la sintesi di un passo improvviso di danza in una dimensione ieratica, similare a certe danze rituali orientali, proprie anche delle arti marziali. Il suo bastone allude anch'esso ad una tipica danza propiziatoria, quella delle spade o dei bastoni, presente nel folklore di tutt'Europa. Stessa interpretazione ho dato alle immagini del camposanto dei Canonici di Cremona, aiutato dalla felice intuizione del sacerdote Angelo Grandi nel 1856, che definì come le figure di duellanti, là presenti, non fossero nient'altro che mimi. Questa interpretazione l'ho tratta da una verifica comparata con gli studi di Paolo Toschi, uno dei più grandi folkloristi d'Italia, della quale tornerò a parlare in seguito.
Diversamente da noi contemporanei, chi non aveva invece alcun bisogno di perdersi in tentativi d'interpretazione, era il fedele cristiano o il pellegrino medioevale, che pur essendo illetterato comprendeva bene i segni dell'ammaestramento della Chiesa e della vulgata catechetica divulgata per immagini che gli veniva proposta attraverso l'arte musiva. Questa allora non era nient'altro che una delle componenti di un'arte compenetrata e congiunta sincreticamente posta in stretta simbiosi con le forme architettoniche, plastiche, musicali, coreutiche, teatrali e liturgiche, proprie dell'impianto creativo ed estetico del messaggio cristiano del tempo.