Da un campo profughi ad Altamura al vertice del basket italiano: è stata fuori dagli schemi la vita di Meo Sacchetti, attuale ct della nazionale azzurra e coach della Vanoli di Cremona, squadra quest'anno ripescata in A1 che ha portato nelle 'magnifiche ottò che si contenderanno la Coppa Italia. Un personaggio al quale, per usare parole sue, «la vita molto presto mi ha detto arrangiati». E lui, come si vede dalla sua lunga e brillante carriera nel mondo dello sport, si è arrangiato molto bene. Ha vinto molto, ma, come spiega, "non ci sono trofei appesi nel salotto di casa mia. Non mi è mai piaciuto esibirli, né ostentarli. Li custodisco altrove, nella memoria. Lo faccio anche perché non sono soltanto miei: appartengono a tutti i compagni con sui ho giocato, ma soprattutto ai tifosi. A tutta l'Italia se si tratta di vittorie ottenute con la Nazionale. Mi piace essere solo Meo Sacchetti, nuola di più: la persona che sono, al di là di quello che sono stato come giocatore e come allenatore".
Sacchetti è uno dei giocatori di basket più celebri in Italia. "Sono stato un ragazzo senza talento che ha lavorato molto", dice di sè. Pilastro della Nazionale che nel 1980 ha vinto la medaglia d'argento alle Olimpiadi di Mosca e nel 1983 l'oro agli europei, Meo ha segnato la pallacanestro italiana giocando a Bologna, Torino e Varese. Poi, dopo un grave infortunio, la svolta e l'inizio di una straordinaria carriera da allenatore che lo ha portato a vincere Coppa Italia, Supercoppa e Scudetto con la Dinamo Sassari. Un triplete forse irripetibile per una squadra provinciale e il primo grande trionfo del basket sardo. Con il valore aggiunto della gioia di condividere lo scudetto con il figlio giocatore. Ma Sacchetti è molto di più che uno sportivo: personaggio spumeggiante, diretto nei modi e capace di sorprendere tifosi e addetti ai lavori con la sua schiettezza e simpatia. Il suo è un basket frizzante, fatto di corsa, tiro, fantasia, in cui i giocatori sono chiamati a esprimere liberamente le loro qualità.
Nato ad Altamura in un campo profughi, la vita di Meo non è stata sempre facile; orfano di padre, Sacchetti ha dovuto farsi largo per trovare il proprio posto nello sport come nella vita. Per un caso della sorte, ha esordito come ct della Nazionale nella 'suà Romania. Disse in un'intervista e scrive nel libro: "Io sono l'unico della famiglia a essere nato in Italia". La sua è una storia di immigrazione al contrario. La sua famiglia a metà 800 lasciò l'Italia: "I miei bisnonni partirono per cercare lavoro e lo trovarono nelle cave della Romania. Si chiamavano Sachet, non Sacchetti; i nonni di mio padre Pietro arrivarono dal Bellunese, quelli di mia madre Caterina, che di cognome facevano Stefani, erano del Trentino". Le radici patriarcali affondano a Castellavazzo, che sarebbe diventata tristemente nota negli anni 60 per la tragedia del Vajont: "Erano tutti esperti nel lavorare il porfido, bravissimi nel fare i sampietrini; e in Romania di lavoro ce n'era molto". Ed è lì che papà Pietro s'innamora di mamma Caterina e dove nascono Francesco, Gilda e Virginia, i fratelli maggiori di Meo. Oggi Virginia non c'è più, proprio come Romeo: "Sì, perché prima di me c'era stato un altro Romeo: nacque negli anni 40 in Romania, in una casa sui monti, ma si ammalò e se ne andò in paradiso. Poi, finita la Seconda guerra mondiale, la mia famiglia fu costretta a decidere di tornare in Italia, e quando mia mamma rimase di nuovo incinta era ineluttabile che mi chiamassi Romeo. Se non fosse morto Romeo, oggi non ci sarei io; mi ha sempre fatto riflettere".
Meo nasce nel campo profughi di Altamura il 20 agosto 1953 e farà appena in tempo a conoscere papà, che muore sei mesi dopo la sua nascita. A quel punto, mamma decide di spostarsi al nord, a Novara: "Ricordo che da piccolo, quando facevo qualche marachella, mamma mi insultava in romeno". Da lì è iniziata la sua avventura.