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Il 50° della L. 300

La grande occasione persa

  22/05/2020

Di Alessandro Gaboardi

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L'EdP nel ricorrenza del 50° anniversario dell'approvazione dello Statuto dei Lavoratori promuove una rivisitazione di quella riforma fondamentale ed invita a partecipare a questo sforzo di divulgazione e di attualizzazione del suo significato negli scenari attuali.

Di seguito pubblichiamo il contributo di Alessandro Gaboardi con un significativo passato di associazionismo sociale e sindacale.

STATUTO DEI LAVORATORI: LA GRANDE OCCASIONE PERSA!

Lo Statuto compie cinquant'anni e molti, giustamente, compreso il Presidente della Repubblica, hanno commemorato l'evento con giudizi agiografici e qualche recriminazione per le involuzioni successive, conseguenti alla interminabile sequela di sentenze dei giudici del lavoro e all'infausto ritocco Renziano.

È quantomeno anacronistico e da rompiscatole titolare un articolo mettendo in evidenza l'occasione che si è persa. Le conquiste vanno ricordate come tali e non sarò certamente io a disconoscere l'indubbio valore, storico e sociale, del provvedimento, al quale si giunse abbastanza rapidamente appena dopo quattro anni dall'ingresso dei socialisti nel Governo. Governo dal quale mancavano dal 1947, quando Nenni si lascio convincere da Togliatti allo scontro frontale con i democristiani.  In quest'altra occasione Nenni tenne la “schiena dritta”. È pur vero che allora De Gasperi aveva rotto su pressione degli americani, i quali anche in questa occasione, erano contrari all'ingresso dei socialisti nel Governo. 

Fu Kennedy che sbloccò la situazione con la sua visita a Roma del 1963, sconfessando le manovre fatte dalla CIA.

Il rapido iter della legge (si fa per dire, tenendo conto dei soliti tempi del nostro Parlamento) fu il tentativo di acquietare la pressione sociale che giungeva dalle fabbriche. I metalmeccanici fecero quasi sei mesi di scioperi, che coinvolsero anche la popolazione a loro sostegno. Si raccoglievano fondi per sostenere il reddito dei più deboli fra gli scioperanti, si facevano collette e lotterie. Alla fine di questa epica battaglia gli operai spuntarono un misero aumento di 6 lire per ogni ora di lavoro, diluito nell'arco di parecchi mesi.  La classica vittoria di Pirro.

Di converso, subito dopo la chiusura degli scioperi, Amintore Fanfani volle gratificare il suo elettorato ed elargì un aumento, a tutto il settore pubblico, che migliorò di molto la condizione delle famiglie degli “statali”.

All'approvazione dello Statuto dei Lavoratori, avrebbe dovuto seguire l'attuazione dell'articolo 39 della Costituzione Italiana: la registrazione dei sindacati affinché assumessero personalità giuridica, e l'art. 46...”la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende".

In quegli anni si apri un dibattito su questo tema e molti facevano riferimento alla Cogestione attuata in Germania dove i rappresentanti dei sindacati entravano a far parte, con diritto di voto, dei consigli di amministrazione delle società.

Purtroppo con  la morte di Brodolini mancò chi poteva dare impulso a quel percorso.

Ricordo un convegno promosso dalle ACLI al quale vi furono interventi anche di sindacalisti della CISL e della CGIL e, fatto singolare, erano più favorevoli i cigiellini che non i cislini. Si studiavano e si analizzavano anche altre soluzioni come quella tentata ed in parte attuata nella Jugoslavia di Tito.  Partecipai, con altri ad un incontro a Lubiana con i rappresentanti sindacali per analizzare questa esperienza.

Anche i giornali riportavano posizioni analoghe che attraversavano pure lo schieramento politico ma che vedevano, in genere, i democristiani contrari. Credo lo stesso Donat Cattin.

Avversari di questa ipotesi erano certamente gli industriali e anche  le aziende di stato, che dopo la morte di Mattei erano guidate da Eugenio Cefis, definito da Scalfari il miglior esponente della “razza padrona”. Ma forse gli avversari più perniciosi furono i "Consigli di Fabbrica". 

Nati sull'onda delle lotte operaie dei metalmeccanici si ponevano come antagonisti nella gestione dell'impresa e consideravano la contrattazione come l'unica forma di dialogo possibile.

Contrapponevano la contrattazione alla cogestione considerando quest'ultima una forma degenerata di capitalismo. Cioè peggio del capitalismo.

Il sindacato, nei primi anni dopo l'approvazione dello Statuto, era riuscito a mantenere il dibattito su temi più ampi e sociali vedi l''istituzione delle “150 ore” per il recupero degli anni scolastici a chi non aveva potuto frequentare la scuola di base,  ed anche il dibattito sul “salario sociale”, cioè valutare l'insieme dei provvedimenti governativi: assegni, famigliari, asili nido, abbonamenti per i trasporti, costo dei treni ecc.. Successivamente l'ottica si spostò sulla fabbrica, sulle condizioni specifiche di lavoro e sulla contrattazione di ogni singola fase di produzione. 

A questo punto l'avversario, poi diventato nemico, non era più solo Agnelli, ma il caposquadra, il capo reparto e via salendo. La stessa politica sindacale dell'appiattimento dei salari  era fatta nell'ottica di “proletarizzare” il ceto medio aziendale per creare un corpo unico e coeso. 

In realtà creando l'esatto opposto.

Nel frattempo erano cambiate anche le figure dei sindacalisti di base. 

Fino ad allora erano i migliori operai, quelli che non temevano di essere licenziati se lo scontro si faceva duro, perché avrebbero trovato facilmente un altro impiego. Molti di questi, profittando della riduzione dell'età pensionabile erano andati in pensione. Altri erano usciti dalle fabbriche in "congedo sindacale", previsto dallo Statuto, e lavoravano a tempo pieno nelle strutture sindacali territoriali. 

Alcuni erano diventati artigiani svolgendo nella cantina di casa lavori parcellari dell'attività aziendale.

Erano emerse nuove figure, come leader dei consigli, in genere dotate di buona loquela ma scarsa professionalità, capaci comunque di muoversi nel nuovo corso. 

Arrivavano in fabbrica con il  giornale sottobraccio, (cosa meritoria in ogni caso) e nelle aziende più grandi, tipo l'Olivetti di Crema, erano di fatto, distaccati dal lavoro, ed attenti, invero, alle richieste e alle lamentele degli operai.  In quel tempo Repubblica, assieme all'Unità, era il vangelo dei sindacalisti. In alcune riunioni specifiche io, avendo già letto i giornali la mattina presto, mi dilettavo ad indovinare cosa avrebbe, sostenuto l'uno o l'altro sindacalista spesso azzeccando la previsione.

Parecchi di questi hanno fatto carriera, qualcuno ha raggiunto anche incarichi prestigiosi nel Parlamento, molti si sono scontrati fino ad autodistruggersi contro il nemico che successivamente prese il sopravento.

Il punto più altro dello scontro fu l'occupazione della FIAT nel 1972. 

Quello più basso la marcia dei quarantamila di Aurisio nel 1980.

Riporto qui un pezzo dell'articolo di OPERAI CONTRO – Giornale per la critica e la lotta contro lo sfruttamento.  Del 17 ottobre 2016 (sulla autenticità dei 200 suicidi dichiarati non mi esprimo) solo per far capire il clima dell'epoca:

...il Consiglio di Fabbrica di Mirafiori approva una mozione per presidiare tutti i cancelli, chiedendo alle confederazioni di proclamare lo sciopero generale. I picchetti, molto partecipati di fatto, precludono a chiunque di entrare in fabbrica, nonostante alcuni tentativi di sfondamento, organizzati dai capetti più beceri e filopadronali. Intanto, oltre i cancelli, operai espulsi si suicidavano in silenzio (ve ne furono circa 200), sopraffatti dallo sconforto e dalla mancanza di una prospettiva seria (da ricordare che i cassintegrati erano sia avanguardie, che operai usurati e malati:nessuno è più rientrato).

Ebbene, in questo clima rovente, il 14 Ottobre 1980, trentacinque (35) anni fa, il “Coordinamento dei capi” convoca un'assemblea dei capi e dei quadri FIAT al Teatro Nuovo di Torino, perché  vogliono rientrare al lavoro: vogliono avere “la libertà di potere entrare e produrre...

Altro inciso dell'articolo dal n. 34 di “Alternativa di Classe”:

Quello che è accaduto alla Fiat tra il Settembre e l'Ottobre del 1980 non ha rappresentato solo una semplice sconfitta sindacale, ma una sconfitta sul piano sociale, politico e culturale, che ha modificato profondamente non soltanto il modo di produrre e le relazioni sindacali, ma ha inciso profondamente sulla vita reale di milioni di lavoratori. 

Riporto questi brani per rendere palese la durezza dello scontro. Le frange più estremiste dei Consigli di fabbrica avevano, quasi sempre, il sopravvento sui moderati con il risultato di radicalizzare il conflitto.

La storia non si fa con i se e con i ma, tuttavia credo che se la politica di allora fosse stata più coraggiosa e lungimirante alcune delle conseguenze negative, forse anche il terrorismo si sarebbero potute evitare. 

Gli ostacoli non erano pochi, Kennedy era morto, e la CIA era libera di intessere le sue trame, Luciano Lama, che ricordo fosse il più possibilista se n'era andato nel '74. Forse anche lui, con l'infelice affermazione “il salario è una variabile indipendente” si era in parte lasciato contagiare da teorie scombiccherate che giravano in quel tempo. 

Gli industriali italiani non brillavano per lungimiranza, ben lontani dalle idee di Adriano Olivetti. Cominciavano ad emergere industriali di rapina, abili a spolpare e svendere storiche aziende.

Nella sostanza bene lo Statuto, ma resta una pietra miliare dalla quale è partita una strada tortuosa che si è persa nei campi.

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