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"I cappotti di Mosca" di Vladimiro Bertazzoni

Nel centenario della scissione di Livorno

  31/01/2021

Di Redazione

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A ben considerare, potrebbe apparire una forzatura il combinato tra una molto postuma recensione di un libro dagli esordi molto datati e la rievocazione arrivata agli sgoccioli di un centenario, spremuto più sul piano dell'editorialistica e degli impulsi della nostal'giya (come suggerirebbe l'autore del libro in presentazione) che non su un edificante valore aggiunto derivante dall'attualizzazione degli insegnamenti della storia. 

A confutazione di tale apparente discrasia, diciamo subito, invece, che non ci sarebbe stato altro miglior modo di questa riproposizione per completare la rivisitazione e l'approfondimento del vasto bacino dei riscontri e dei rimandi dei 100 anni (che ricomprendono i 70 reali dell'esistenza del PCI scaturito dalla scissione livornese e quella specie di gestione stralcio di 30 pendente ancora sugli scenari correnti). 

Nell'ampio pannel rievocativo e celebrativo (che logicamente non poteva riproporre ogni aspetto del lungo e complesso excursus) è apparso curiosamente non focalizzata la vicenda dei comunisti italiani approdati, con la qualifica di esuli, alla patria del socialismo. 

Un fenomeno non esattamente irrilevante, per le dimensioni e soprattutto per le implicazioni etico-morali e politiche, se, come osserva Francesco Cappellani in dissensi&discordanze.com

"Il dramma dei comunisti italiani nella Russia di Stalin” (facilmente consultabile on line), trattasi di "Uno degli aspetti più mostruosi, al punto da sembrare inverosimile, è l'odissea delle centinaia di comunisti italiani che approdarono all'URSS sia per sfuggire al fascismo che per ragioni ideali negli anni tra i due conflitti mondiali del secolo scorso, e si trovarono vittime inconsapevoli e dimenticate del sistema di terrore sovietico scatenato da Stalin, con la complicità di quei dirigenti del PCI, il Partito Comunista Italiano, che facevano parte del Comintern, l'organizzazione internazionale dei partiti comunisti, come Palmiro Togliatti. Togliatti era arrivato a Mosca nel 1926 come capo-delegazione del PCI per il IV Plenum dell'internazionale Comunista.

Gli emigrati che avevano un qualche rilievo nel partito venivano alloggiati a Mosca nell'Hotel Lux dove, dal 1921, era stata sistemata la foresteria dell'Internazionale Comunista, mentre gli altri trovavano posto in una casa d'accoglienza della MOPR da dove, dopo qualche mese, venivano spostati in altre città per lavorare nelle fabbriche o per la costruzione di nuovi impianti industriali. 

I nostri emigrati erano affidati alle cure ed al controllo di particolari uffici del Comintern, come la sezione Quadri, supportata a sua volta dalla MOPR (Organizzazione internazionale di soccorso ai combattenti della rivoluzione). Della sezione Quadri dei dirigenti dei partiti comunisti aveva fatto parte anche Gramsci nei primi anni venti."

Tale rimando di ordine generale serve, nella fattispecie, a focalizzare le precondizioni entro cui maturò il deposito di percezioni e di consapevolezze alla base dell'intelaiatura del memoire di “Vladi”, presentato, accolto da grande interesse e simpatia umana, esattamente 40 anni fa.  

In uno scenario, andrebbe sottolineato, di permanenza in vita del sistema sovietica.

Diremo subito che la famiglia Bertazzoni da S. Benedetto Po entrò negli avamposti della vasta schiera di testimoni del partito venuto alla luce con la scissione consumata al Teatro Goldoni e proseguita al Teatro S. Marco.

Il capofamiglia Andrea aveva seguito gli scissionisti e divenne ben presto attivo militante nel mantovano; continuando il mestiere di casaro. 

Sarebbe entrato ben presto nelle attenzioni e nel puntatore della repressione fascista, al punto da vedersi costretto, insieme alla giovane moglie Ebe Cavicchioni. a riparare, come altre centinaia di compagni comunisti, in URSS. Avrebbero dato alla luce nel 1934 Vladimiro. La cui crescita, umana e culturale, avrebbe, per quanto problematizzata dal portato della precarietà e della mobilità (che si aggiungeva alla specificità di un ospitante non esattamente glamour), tratto importanti spunti dalla contaminazione con esperienze multiformi. 

Di ciò si ha netta conferma se si leggono con la dovuta attenzione, in particolare, i capitoli, oseremmo dire, meno intimistici e più “politici” (“Bambino all'Hotel Lux” e “Padre nostro Stalin”). 

I quasi quindici anni di espatrio, fatti sostanzialmente di una mobilità interfaccia di una precarietà variamente occasionata ( Repubblica Russa, l'Ucraina e l'Uzbekistan), avrebbero proiettato ben presto una realtà della “patria del socialismo” diversa, ben diversa, dalla vulgata popolare e dagli indottrinamenti dogmatici. 

Leggendo il lavoro di Bertazzoni, scritto in epoca antecedente sia alle consapevolezze acquisite intorno alla vera natura del socialismo realizzato sia al tracollo del sistema, si avrà modo di cogliere conferme in diretta e da visto da vicino della quotidianità del sistema staliniano. 

Ne fa fede un impagabile segmento aneddotico; didascalico e, se permesso, molto godibile dal punto di vista umano. L'ho appreso per divulgazione orale (da parte dell'interessato) prima che approdasse ad uno dei tanti apprezzati lavori giornalistici e divulgativi. Ci riferiamo all'episodio “del gorgonzola”. Il padre Andrea, per sdebitarsi presso i compagni sovietici dell'accoglienza, pensò bene di trasferire il segreto industriale del formaggio benaccetto nei gusti gastronomici padani. 

Si sarebbe rivelata una clamorosa eterogenesi dei fini. Infatti, l'intento edificante del padre Andrea approdò ad una percezione di segno esattamente opposto. Fece la prima forma e la consegnò ad un funzionario del ministero della sanità che, di fronte alla puzza emanata e ai vermi che si muovevano tra le striature verdi di muffa, lo denunciò come avvelenatore del popolo. 

La famiglia Bertazzoni sarebbe rimpatriata nel 1946. Vladimiro, ancora adolescente, avrebbe completato la sua crescita ed i suoi studi.  

Con una predisposizione verso una particolare sensibilità culturale; che ne avrebbe fatto un apprezzato giornalista e poeta, di solidi visioni cosmopolite. 

Tutti interessi che avrebbe trasfuso nell'attività professionale e nell'impegno politico ed istituzionale, caratterizzati da grande dedizione, entusiasmo, umanità. 

Noi abbiamo avuto l'onore di averlo avuto (nell'ordine) amico, compagno e collega. Se possiamo osare, potremmo dire un “compagno maggiore”; per ragioni anagrafiche e per la “stazza” da “gigante buono”. 

La vita fa convergere e poi separa. È successo così anche tra noi. Anche se al di là del venir meno delle circostanze che dettero causa alla frequentazione e al lavoro comune, non è mai mancato il contatto a distanza e gli interpelli a mezzo comuni compagni. 

Saremmo elusivi, se non ricordassimo anche che Bertazzoni fu Sindaco di Mantova dal 1985 al 1990 e per un lungo periodo, oltre che direttore della testata dei socialisti mantovani “Terra nostra”, anche direttore “responsabile” del nostro Eco del Popolo.

Vladimiro Bertazzoni
Vladimiro Bertazzoni

PER CONCESSIONE DEI FIGLI ALESSIO E DAVIDE (che ringraziamo) ALLEGHIAMO AL PRESENTE ARTICOLO L'INTERO TESTO DIGITALIZZATO DE “I CAPPOTTI DI MOSCA”

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