Sono stato a Berlino e ho visitato l'«Jüdisches Museum» (Lindenstrasse 9-14). Costruito su progetto dell'architetto polacco Daniel Libeskind, è una toccante testimonianza dell'Olocausto e della inumanità dell'uomo, quand'è ridotto all'inconsapevolezza da una dottrina totalizzante basata su falsi presupposti, su false considerazioni.
In esso, c'è un locale denominato il «Pozzo» con riferimento al pozzo di Mauthausen, di cui scriverò più avanti. La pavimentazione dell'ambiente è formata da formelle metalliche distese -non murate- sul pavimento.
Camminandoci sopra, il rumore provocato dai passi riproduce il lamento doloroso di una persona morente. Immaginate il complesso dei suoni che i passi di più visitatori possono produrre.
Quest'esperienza è una tragica prova personale. Non il ricordo della Passione di milioni di ebrei, di zingari, di soggetti portatori di handicap, di omosessuali, di antinazisti e resistenti vari, ma un dolore diretto di chi è lì e affronta l'esemplificazione formativa che un museo come questo offre ai suoi visitatori.
Vicino alla Porta di Brandeburgo, accanto all'hotel Adlon Kempinski (a suo tempo luogo preferito dai gerarchi nazisti e dalle loro amanti), è stato realizzato il Denkmal für die ermordeten Juden Europas (Memoriale per gli ebrei assassinati d'Europa) su progetto dell'architetto Peter Eisenman. Ricorda il Cretto di Gibellina di Alberto Burri e consiste da 2.711 blocchi di cemento che rappresentano cippi sepolcrali per gli ebrei dell'Olocausto e per le altre vittime del nazismo. Un altro luogo che, per le vie misteriose della sensibilità umana, risulta capace di suscitare immediate emozioni, reali commozioni, profonde riflessioni.
Anche qui è doveroso un rispettoso silenzio.
Sono stato a Mauthausen, il 31 dicembre di qualche anno fa. Affittato un pullmino, ho affrontato il percorso sino a incontrare in un'ampia strada in salita un piccolo paese ben tenuto, tendine colorate alle finestre dietro le quali i vasi di gerani davano una piacevole sensazione. Il piccolo paese si chiama Mauthausen e dista qualche centinaio di metri dal campo, che è in cima a un colle. Lo descrisse Christian Bernadac (Des joursd sans fin, 1976), francese, figlio di una vittima di questo mattatoio: «Fortezza... contemporaneamente fortino e acropoli, muraglie gigantesche. Granito e cemento armato dominanti il Danubio: strani speroni coperti da cappelli cinesi; fili spinati e porcellana intreccianti un'insuperabile rete elettrica di protezione... la più formidabile cittadella costruita sulla Terra dal Medio Evo... 155 000 morti.»
I diversi gradi sottozero di quel 31 dicembre contribuirono alla disperazione ormai inerte che si coglie nel luogo di tanti assassinii. Il cimitero è diviso per nazionalità e, naturalmente, ci sono diversi italiani. Si tratta di persone decedute negli ultimi giorni e dei cui cadaveri le SS non sono riuscite a sbarazzarsi o di persone morte dopo la liberazione.
Il campo di Mauthausen è stato aperto il 9 febbraio 1938 e “liberato” il 5 maggio 1945 dal 41° Squadrone della 11° divisione corazzata americana.
Nella sua prima fase fu destinato a socialisti, comunisti, omosessuali, oppositori potenziali o effettivi del nazismo e all'«intellighenzia» polacca. Presto, fu utilizzato dai nazisti come campo di sterminio mediante l'uso combinato di lavoro forzato e denutrizione.
Lì le menti malate che lo governavano vollero usare per i loro perversi scopi il cosiddetto «Pozzo», una cava di granito abbandonata nella quale avveniva il quotidiano martirio. Nella parete circolare del «Pozzo» erano ricavati dei piccoli scalini, stretti e corti, resi scivolosi dall'umidità o dal ghiaccio. Sulle spalle delle vittime venivano sistemati (da altri reclusi) pesanti massi di granito: dovevano recarli in fondo al «Pozzo» e dal fondo dovevano riportarli in superficie. Data la debolezza per denutrizione, era molto difficile che i disgraziati ‘portatori' riuscissero ad arrivare sul fondo. Più spesso cadevano dalle scale precipitando al suolo dove rimanevano lesi e tramortiti sino a quando la natura non li privava della vita.
Sono convinto che i pacifici e placidi austriaci del paesino di Mauthausen – dato che i crematori erano in funzione h. 24, emanando il loro irreprimibile dolciastro odore di morte- non potessero non sapere: sapendo hanno prima taciuto e poi rimosso.
A Washington, l'United States Holocaust Memorial Museum (100 Raoul Wallenberg Place) è il luogo (architetto James Ingo Freed) in cui si può avere una percezione completa della realtà dei campi, ricostruiti in scala in tanti plastici dalle esaurienti didascalie. Vi sono elencate le vittime ed è stato ricostruito uno squarcio di stazione con il binario e un carro bestiame uguale a quello usato dai criminali che governarono la Germania e mezza Europa.
Voglio infine segnalare il piccolo Jewish Museum Thessaloniki (Salonicco, Agiou Mina 11). Una palazzina in una strada secondaria con la garitta del sorvegliante vuota. Testimonia la tragedia di una grande comunità (46.000 persone) totalmente deportata ad Auschwitz. I superstiti sono meno delle dita delle mani.
Una grande comunità peraltro misera, composta com'era da piccoli artigiani (ciabattini, sarti, falegnami, fabbri). Per loro si scomodò addirittura Adolf Eichmann, capo del dipartimento dell'Ufficio centrale della sicurezza del Reich.
Sono naturalmente indignato per l'assimilazione dello stato di Israele al nazismo e per l'ondata di antisemitismo che percorre l'Europa, protagonisti molti giovani che non sanno e non vogliono sapere.
Oltre a informarsi sull'Olocausto, dovrebbero esaminare lo statuto di Hamas, nella versione rivista del 2017: chiaro esempio di ipocrisia verbale dietro la quale si nasconde la volontà di completare l'opera che Hitler aveva iniziato.
Non c'è perdono per le stragi naziste, né per quelle successive, sempre di ebrei, sino al 7 ottobre 2023, tutte figlie di ideologie criminali che contemplano l'annientamento di una etnia come loro compito principale. Quindi, nessun perdono: solo una onorata memoria e una condanna civile e morale.