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Filippo Panseca,
il Garofano e il Centro Brera

  27/11/2024

Di Redazione

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È morto all'età di 84 anni Filippo Panseca a causa un infarto fulminante che lo ha colpito nella notte. Inutile gli sforzi dei sanitari dell'ospedale Nagar di Pantelleria. Lo riporta il sito d'informazione Pantelleria Internet. Da tempo si era preparato il suo mausoleo in Contrada Mursia, vicino ai Sesi, tombe di tremila anni fa. A Pantelleria era arrivato nel 1976 assieme a Margherita Boniver con cui e altri socialisti craxiani (tra cui Cornelio Brandini) fu fondatore del Centro Internazionale di Brera. Fu anche docente di pittura e vicedirettore del'Accademia di Bera, con cui il sodalizio tra il Centro e l'Istituzione dura tutt'ora. Il centro ospita le lezioni degli alunni dell'Accademia. Panseca, artista al centro di polemiche negli anni '80 per i suoi allestimenti dei congressi del Psi, è ricordato ora dal Centro Brera soprattutto perchè sperimentò che non la politica crea arte, ma l'arte crea politica: con un tratto di pennello (il garofano al posto della falce e maetello) sparigliò la sinistra italiana nel suo sentimento, mentre parallelamente Bettino Craxi la sparigliò nella vita politica e nei voti. Già docente di figura ed ornato modellato al liceo artistico di Palermo dal 1964 al 1967, Panseca fondò nel 1965 il Gruppo Tempo Sud.
Nel 1970 dà inizio all'Arte biodegradabile, critici di questo nuovo movimento artistico sono Pierre Restany e Guido Ballo. Nel 1975 riesce l'esperimento di produrre opere da trasmettere via satellite contemporaneamente in ogni parte del mondo eseguendo un esperimento a Milano con Pierre Restany presso la Rank Xerox.
Nel 1986 viene invitato da Tommaso Trini ad esporre il video “Immagini Digitali Fotodegradabili” alla Biennale di Venezia e partecipa alla Triennale di Milano presentando “Il Luogo del lavoro di Filippo Panseca”, una valigia contenitore di tutto di sogni e strumenti per attuarli. Diviene noto negli anni Ottanta come realizzatore di innovative scenografie per i congressi del Partito Socialista Italiano, inventore del garofano rosso nel simbolo elettorale. Celebre il tempio di Rimini e la piramide telematica eretta nel 1989 nell'area Ansaldo di Milano.
Ha inoltre collaborato come scenografo con La Scala di Milano con la Rai, Mediaset e Rete A e come designer per Kartell, Onlywood, Martini, Arteluce, Fiorucci e Baghetti. Nel 1988 è tra i fondatori del movimento Arte Ricca a Torino e partecipa a tutte le mostre del gruppo in Italia e all'estero. Nei primi anni Novanta, brevetta e realizza Swart Art O Mat, un distributore automatico di opere d'arte programmabile a distanza e utilizzabile attraverso banconote o carta di credito. Nel 2009, prosegue il suo percorso con una serie di opere Cronache Mitologiche Digitali che rappresentano la vita di personaggi noti dalla politica all'industria rappresentati in veste di divinità con i loro pregi e difetti, vizi e virtù, le opere sono state esposte a Savona al Castello di Priamar e successivamente alla galleria Battaglia di Milano. Dal 2015, con una tecnica innovativa, realizza le opere fotocatalitiche che sono state presentate a giugno per la prima volta presso la Galleria Adalberto Catanzaro di Bagheria (Palermo) e successivamente al Museo di Palazzo Riso di Palermo.

Fu anche altro…

… lo precisiamo, come si percepirà meglio nel prosieguo e in aggiunta all'opportuno memoir del Centro Brera, che ne traccia un sommario cursus professionale. In cui sarebbe sbagliato omettere il segmento prestazionale per cui sarebbe balzato e rimasto per molti anni nella scena mediatico-politica. Panseca, infatti, per le generazioni politiche e giornalistiche a partire dall'inizio anni 80 del 900 e per un intero ventennio sarebbe stato il “consigliere del principe” del “nuovo corso”. Non casualmente, si ripete, in aggiunta al profilo tracciato dal Centro Bera di un impegno professionale a tutto tondo, nell'annuncio della scomparsa prevale (incomprimibile!) l'istinto a ricordarne il tratto per il quale emerse nello scenario di notorietà. Anche la necrologia, infatti, non può fare a meno (a danno di un curriculum molto più vasto) di ribadire “E' morto Filippo Panseca, l'artista legato ai socialisti …”
Indubbiamente, senza esprimere azzardate equivalenze, l'architetto Panseca aveva calcato (non si sa se suo malgrado) il centro della scena politica in un cambio di fase, in cui, tra la fine degli anni 70 e per tutta la successiva decade, si dichiarava l'obsolescenza di un modello politico e si imboccava (lato sensu) un inedito percorso di modernizzazione delle modalità di praticarlo e di ridefinizione degli equilibri. Tale esigenza era avvertita più di ogni altre forze da quella socialista, per oltre un quarto di secolo costretta nella camicia di forza imposta da alleanze fortemente condizionate (per non dire subalterne) prima (dal 1948 al 1956) dal Patto di Unità d'Azione col PCI e successivamente dal tentativo di avviare (con la DC e coi partiti laici) una stagione di riforme all'insegna della modernizzazione e dell'equità sociale.
Una stagione che effettivamente, sia pure con impervi percorsi imposti da un forte pregiudizio conservatore dei ceti imprenditoriali e dei circoli reazionari e corroborati dalla tattica non palesemente ostracistica ma sicuramente diversiva della Balena Bianca, colse importanti traguardi in termini di modernizzazione. Ma, paradossalmente (non si può dire inspiegabilmente perché le cose nella politica italiana funzionavano così), a “raccogliere i frutti dall'albero scosso dai socialisti” (come argutamente disse Nenni) fu il PCI, campione di un'opposizione di massimalismo demagogico, e la DC, che col suo menage ondivago tenne ancora a lungo un cospicuo consenso. Le elezioni del giugno 1976 furono il crinale segnalatore dell'impossibilità per il PSI di proseguire in un'obsolescenza programmata (di consistenza elettorale e di ruolo negli equilibri) che sarebbe sboccata nella totale marginalizzazione.
Sotto tale profilo la sessione del Comitato Centrale del Midas (albergo romano location della riunione) costituì ad un tempo la chiusura in di un ciclo in cui i socialisti avevano svolto un fecondo ruolo di progressione del rinnovamento (senza riceverne il dovuto riconoscimento elettorale) e l'apertura di una fase di rigenerazione all'insegna del motto “rinnovarsi o perire”. Ok…la facciamo breve (anche se sarebbe opportuno, ogni tanto, ricordare agli immemori che continuano a calcare le scene) perche il perno di questa rivisitazione non è la rivisitazione approfondita ed attualizzata di quella stagione. Bensì la focalizzazione della modalità con cui alcuni aspetti della mission del rinnovamento si sarebbero sviluppati. Quelli relativi alla riformulazione dell'aggregato teorico progettuale (a valere per la linea del Partito come per la proposta di governo) sarebbero stati, a partire dal Congresso di Torino del 1978 (in cui fu magistralmente impostata un'ideologia equivalente o forse superiore alla linea dei partners del socialismo europeo) per arrivare alla Conferenza Programmatica del Progetto, un impareggiabile percorso di rinnovamento (di valore anche nei contesti attuali).
Di pari passo sarebbe avanzato il rinnovamento del coté dello strumento organizzativo chiamato ad imprimere, fino al mutamento genetico (avrebbe sentenziato qualcuno) dell'eredità dei precedenti 80 anni di presenza nella vita politica e sociale. In gran parte, sarebbe onesto precisarlo, speso oltre che a una feconda militanza di emancipazione e di lungimirante rinnovamento sociale e civile, anche in posture retro spesso compiacenti ad interpretare il senso distintivo della democrazia e della partecipazione nella forma partito, con modalità spesso profondamente divisive e conseguentemente sterili di avanzati risultati sul terreno della sintesi dell'offerta politica e della percezione esterna di una sollecitudine a far coincidere la modernizzazione del progetto di governo con l'innovazione della struttura politica ed organizzativa, interna. Col senno di poi ( e se fossimo convinti che la rottamazione dei giorni nostri della politica militante basata sui valori della partecipazione militante e non sul leaderismo giocato sull'esposizione mediatica e sull'ansia unica della cattura dell'audience) potremmo osservare (anche se nelle intenzioni e nei fatti le premesse non furono quelle) che il cosiddetto “nuovo corso” anticipò molto degli step by step che hanno condotto  al pensiero liquido e ai partiti leggeri. Che, ripetiamo, non furono né nelle intenzioni né nei fatti dei promotori del rinnovamento socialista. Vero, però, che l'intuizione di svecchiare il brand del massimo organo decisionale (il Comitato Centrale, che già allora faceva molto Cominform) approdò (si ripete, molto oltre le reali intenzioni) ad un deragliamento che avrebbe assunto le sembianze di un apparato fatto di “nani e ballerine”. Che, secondo l'accusa dei censori del “mutamento genetico”, sarebbe approdato su un terreno innovativo che, compiacendo la lievità della “spettacolarizzazione” dello speech e della liturgia degli organi, avrebbe condotto a riavvolgere tutta la pellicola della testimonianza pregressa. C'è da aggiungere che il rinnovamento fu incardinato senza troppo badare all'ansia di portare tutto il popolo socialista e tutto l'elettorato a metabolizzare i tempi brucianti dell'innovazione e a condividere e convivere con i nuovi brands. Il ripristino del Garofano come simbolo identitario (peraltro praticato già a fine 800) fu in qualche modo salutato come un ristoro di orgoglio e di riappropriazione di autonomia. Più problematica sarebbe stata l'accettazione dell'escomio dal bagaglio identitario, fatto anche del simbolo correlato del face-martello e del libro). Insomma, l'impressione aleggiante nel mondo militante (anche se resa minoritaria da un percepibile senso di acquiescenza ai nuovi poteri interni) faceva percepire una certa orgogliosa e consapevole predisposizione a bruciare i tempi e ad incardinare nuove posture, di cui l'allestimento scenografico della liturgia, prevalentemente dedicata all'uso esterno anche se poi finita a pervadere e a diventare sostanza della vita interna, costituì il cardine portar tante. Di cui tutto si può dire che non fosse il portato della ventata innovativa innescata dall'architetto Panseca.  Se a posteriori qualcuno volesse intravvedervi il germe della leaderizzazione-spettacolarizzazione corrente forse peccherebbe di ingenerosità. Ma, indubbiamente, contenitori oceanici per scenografie un po'da megalomania segnalarono, anche non volendo soffermarvisi insistentemente, un cambio di pelle. Vissuto (da chi scrive, in quanto componente dal 1978, prima come supplente e poi effettivo, del Comitato Centrale e poi della subentrante Assemblea Nazionale e dal 1986 al 1989 della Segreteria Regionale)) in diretta e in piena consapevolezza. Il cui asset era collocato tra due corni di percezione e di adesione: l'ineludibilità del rinnovamento di bagaglio progettuale (rinnovare o perire) e l'avvertita sensazione che il restyling fosse funzionale (come in parte stava avvenendo ed avverrà) a calcolate mutazioni laterali. Diciamolo con franchezza: l'impianto delle prerogative dialettiche regolanti i processi decisionali risentiva, in quell'ultimo scorcio degli anni settanta, della cura morandiana, con cui il gruppo dirigente (della fase del Fronte Popolare) cambiò o tentò di cambiare registro nel senso del perseguimento di una maggiore coesione ed indipendenza. Permasero le "correnti" destinate a fungere da fucina dialettica di confronto e di organizzazione delle componenti destinate a stabilire gli equilibri in sede di formazione della "linea" politica e strategica, della dirigenza interna e della rappresentanza istituzionale (nazionale e periferica). A chi scrive (formatosi come militante ad inizio anni 60, stagione di avvio del ciclo "autonomista") parve che un siffatto impianto di prerogative associative e di testimonianza teorico pratica (specie il purtroppo breve ciclo dell'influenza di Francesco De Martino e Riccardo Lombardi, entrambi provenienti e attestati sull'impronta "azionista" del rosselliano e matteottiano  socialismo di Giustizia e Libertà, che andrebbe ricordato aveva corroborato sia il raggiungimento dell'acme riformista della feconda stagione nenniana/morotea sia l'unificazione socialista del 1966) potesse, con debiti "drizzoni" sul duplice versante del progetto dottrinario (in modo da favorire il pieno approdo al compact del socialismo europeo e contestualmente ad una quanto meno accorta modernizzazione della forma partito, restata come abbiamo visto, ancorata ai retrò perni "morandiani") avere una seconda vita. Da tale punto di vista, occorre dirlo per onestà intellettuale e per effettività fattuale, tutto quanto innescato dal Midas hotel in poi sul terreno rigenerativo (di bagaglio teorico, di metodi militanti, di gruppo dirigente) si dimostrerà coerente con le ineludibili percezioni del vero stato delle cose e con la necessità di farvi fronte. A cominciare dal combinato di un rinnovato e ringiovanito gruppo dirigente, di nuovi brands identitari ed identificativi, tra cui, anzi in primis, il profilo "liturgico" delle assise interne e pubbliche. A questo punto si avverte onestamente l'esigenza di non svicolare sulla criticità rappresentata dal cambio del simbolo. Che costituì (paradossalmente!) il maggior attrito nel percorso interno di metabolizzazione del "nuovo corso del socialismo italiano" (griffato Craxi). Si disse allora per eccesso nostalgico e o per più o meno idealistico impulso conservativo di un manufatto consegnato, per quanto riguardava i simboli, ad un'idea di intangibile conservazione. In realtà, gli "innovatori" craxiani, cui Panseca forni col cambio grafico identificante (dalla tessera, ai manifesti, alla scheda elettorale) ebbero ragione. Sia nella concreta transizione al nuovo simbolico sia nel background motivazionale, che, ahinoi pretese rinunce alla tradizione, archiviazione di abitudini, rottamazione di strumenti di professione idealistica. Dato a Cesare...(con quel che segue), non taceremo e non saremo colpevolmente omissivi sulla natura e sulle conseguenze (tutte e  certamente quelle, al di là delle intenzioni e delle avvisaglie, non del tutto feconde). I cambi avvengono frequentemente secondo le modalità del lavacro, che, secondo una vulgata (che per inciso non fa fine), non raramente alla fine butta via l'acqua sporca e il bambino. Si sarebbe parlato ( i critici interni e quelli esterni interessatamente esposti sull'auspicio del fallimento del progetto) di un portato di paccottiglia e di Circo Barnum. Falso che tutto il segmento della cooptazione fosse fatto di nani e ballerine. Non mettiamo la mano sul fuoco, ma la maggior parte degli "esterni" cooptati nel massimo organo dirigenti esprimeva grandi talenti culturali, artistici, sportivi, accademici, espressioni delle professioni e della testimonianza sociale e civile. In questo senso, "apertura" al nuovo e all'inconsueto dimostrò consapevolezza dei cambiamenti in corso, dell'imperativo di metabolizzarli nell'intelaiatura del Partito e di farli rimbalzare nella realtà esterna (in modo che costituissero uno snodo generale per tutto il sistema politico). Questo è il nocciolo di questa stagione di rinnovamento, attivato da una visuale mirata all'interno, ma, suo malgrado e forse studiatamente, destinato ad influenza un più generale rinnovamento di sistema. In questo senso l'accusa di mire "decisionistiche" (ovviamente nell'accezione spregiativa) con l'aggravante di velleità oligarchiche, magari ex post accarezzerà i cuori degli eredi degli odiatori in corso d'opera (per impulsi spregianti e o per discredito verso il protagonista di quella sfida del nuovo. Essendo del tutto falsa l'accusa per la quale Craxi avesse "commissariato" il Partito e ristretto le prerogative interne, di confronto e di formazione degli organi. Oddio, se praticavi timbri comportamentali conformistici, non venivi penalizzato nella progressione delle responsabilità e delle aspettative. In questo senso, era palpabile l'applicazione della regola secondo cui stando vicino al fuoco ci si scalda meglio. L'effetto pratico dell'assunto, per quanto percepibile in diretta, sarebbe stato palese nello scenario successivo al tracollo del 1994. Quando molti (se non quasi tutti) degli appartenenti a quell'establishment avrebbero alzato il ditino del non c'ero e se c'ero..., avrebbero adottato posture maramaldesche di condanna verso "il satrapo" e verso il suo modello, si sarebbe riciclato in nuove missions, conformandosi ai nuovi poteri. Panseca, che per una lunga stagione griffò ed operò con notevoli poteri il cambiamento di offerta di immagine e di ritualità mediatica, forse interpretò con eccesso di zelo la committenza, scaturita anche didascalicamente dell'emendamento della modalità elettiva del vertice (espiatrice del plebiscito e anticipatrice del modulo leaderistico, scarsamente praticato nella prima repubblica, se non dalla stagione craxiana) finendo per essere contemporaneamente commesso e committente. Se "gli scappò la mano" (per inconsapevolezza di impermeabilità e di resistenza dell'impatto ovvero per errato calcolo dell'effettiva e intramontabile consistenza delle "spalle" (proprie e del dante ruolo), non è dato sentenziare. Soprattutto, ex post, quando il defunto "architetto socialista" avrebbe impropriamente pagato "correità " prestazionali, in capo a ben altri ruoli. Ma, come si sa e comme d'abitude, in Italia sono sempre larghissime le pensiline cui appendere a testa in giù gli sconfitti.  Concludiamo, con una convinta riaffermazione di un talent, capace di calare concretamente nell'impronta didascalica   di un partito 40 anni fa crocevia di una profonda riformulazione in termini di rapporti di forza, impegnato in un'importante make up (poi trasceso ad alcuni aspetti di paccottiglia e di eccessi conformistici); cui sarebbe profondamente errato ed ingiusto chiamare in causa come uno dei maggiori responsabili del default della conduzione (si badi bene, non già della linea!!!) politica..
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Eroe della Resistenza, esponente di spicco del socialismo italiano, valente giurista.

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