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ElectionDayAfter: rassegna della stampa correlata

  04/10/2022

Di Redazione

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Domenico Cacopardo

L'Italia cambia strada

A 75 anni dall'entrata in vigore della Costituzione, il partito che rappresenta, in ogni caso, un elemento di continuità ideale con l'esperienza fascista, conquista la maggioranza relativa con titolo, riconosciuto dai suoi partner, a esprimere la leadership di governo. Nella storia repubblicana, sono una volta, nel 1960, i neofascisti erano stati parte della maggioranza, con il governo Tambroni, e l'Italia s'era ribellata pronunciandosi in decine di manifestazioni di piazza, represse con la forza, comunque tali da far precipitosamente chiudere l'esperimento. Nella seconda Repubblica, il neofascismo aveva cambiato pelle diventando prima Alleanza nazionale e, poi, componente fondante del Popolo della liberà, il partito voluto da Berlusconi nel quale erano confluite le destre a eccezione della Lega, allora ancora Nord. Il ricostituirsi di una forza politica effettivamente coerente con il passato e tuttavia moderna e modernista, che ha introiettato alcuni miti contemporanei, è attribuibile a una nuova generazione di quarantenni, alla cui testa la romana e romanesca Giorgia Meloni ha saputo coniugare coerenza e capacità di presentarsi come alternativa nazionale alla congerie paludosa dei vari partiti impancati in improbabili e discutibili coalizioni. Il decennio trascorso, infatti, s'è caratterizzato per il connubio destra-sinistra e per il successo del Movimento 5Stelle, il movimento nihilista di Beppe Grillo, votato, fra l'altro, alla crescita zero e all'impoverimento della Nazione. Le difficoltà dei vari partiti di mettere insieme una coerente coalizione di governo sono testimoniate da ultimo dalla presenza a Palazzo Chigi di Mario Draghi, massima espressione della tecnocrazia nazionale e, al contempo, dell'incapacità delle forze che l'hanno sostenuto di definire una piattaforma politica fondata sul consenso elettorale. La consultazione registra varie sconfitte. In primis quella della Lega di Matteo Salvini. Essa paga una modalità politica rozza e in sostanziale contraddizione con le esigenze dei ceti produttivi del Nord, ove è la prevalente constituency di quel partito, ormai sostanzialmente tornato Nord, visti i deludenti risultati conseguiti al Sud. Se non ne sarà rinnovata la leadership, riprenderà la sua politica dell'elastico, rimanendo spina nel fianco della medesima maggioranza di cui fa parte. C'è da dire che, allo stato delle cose, la Lega sembra collocarsi a destra di Fratelli d'Italia e, salvo cambi di vertice e di linea politica, assumere in modo più che evidente il ruolo di partito di Putin nella penisola. Risorge, come l'araba fenice, Berlusconi, i cui seggi diventano determinanti per la nuova maggioranza: la parte moderata e liberale del centro-destra s'è raccolta intorno a lui con l'evidente prospettiva di attenuare gli estremismi insiti nella coalizione. Perde rovinosamente il Pd e, in particolare, il suo reiettivo segretario Enrico Letta. Non solo rimane sotto il 20% ma di fatto e in termini politici perde la leadership della sinistra: tra partitini riportati a sue spese in Parlamento e il successo dei 5Stelle, almeno sino al prossimo e imminente congresso, rimarrà l'incompiuta di sempre, a metà strada tra il riformismo socialdemocratico, mai abbracciato con convinzione, e il semi-massimalismo di impronta post-comunista poco identificabile e scarsamente rappresentativo. Il suo 19%, infatti, è espressione di un consenso storico e residuale, privo di respiro, di proiezione nel futuro e di partecipazione giovanile. Peraltro il Pd paga gli errori di Sergio Mattarella (Luciana Lamorgese fra gli altri) e quelli pregressi di Giorgio Napolitano. I 5Stelle pur dimezzando i consensi del 2018 hanno ben ragione di cantare vittoria. Un canto contingente e breve che rimarrà loro in gola, vista la natura parassitaria dei loro consensi che incrociano il voto dell'economia nera e dei sussidi di Stato. Almeno questi ultimi sembrano in via di ridefinizione con l'ingresso nel sistema di una forte indirizzo verso la provvisorietà e per il lavoro. Del resto, l'orizzonte politico di Conte e dei suoi sodali è oscuro e destinato a un ruolo di mera testimonianza e contestazione. Se il governo governerà, poca roba sulla loro tavola. Rimangono comunque evidenti e confermate le preoccupazioni che la formula politica vincente suscita nel Paese. Le relazioni internazionali e le sottolineature sovraniste non possono essere sottese e dimenticate. Si vedrà. Rimane perciò e più che mai sul tappeto il ruolo dell'informazione, messo seriamente in discussione, per esempio, in Ungheria dove essa è stata ristretta in un angusto angolo e controllata dal potere esecutivo. Credo proprio che all'informazione spetterà più che mai il ruolo di guardiano della democrazia, inflessibile, attento, tempestivo. Un ruolo che intendiamo onorare sino in fondo, nell'interesse del Paese e delle libertà conquistate a caro prezzo 77 anni fa. Il caso vuole che la destra conquisti il potere un secolo dopo la Marcia su Roma e l'insediamento di Benito Mussolini alla presidenza del consiglio dei ministri. La storia non si ripete mai allo stesso modo, il che non è di certo consolatorio. Nel rispetto della volontà dell'elettorato, consapevoli che il cittadino elettore non sempre ha ragione, faremo sino in fondo il nostro dovere.

Bipolarismo d'accatto

Il bipolarismo ha vinto veramente nelle elezioni settembrine, le prime in questa stagione nella storia repubblicana? Sì e no. Ha vinto il bipolarismo delle coalizioni che, in concreto, non è un vero e proprio bipolarismo visto che è il modo con il quale si esaltano le tendenze ricattatorie del sistema e dei singoli politici. Questo sistema elettorale non è l'«errore» dell'on.le Ettore Rosato o del Pd, di cui era capo-gruppo al momento dell'adozione dello stesso (che da lui prende il nome di «Rosatellum»). Esso, invece, è il risultato di mediazioni e un disegno raffinato volto a garantire, in un sistema complessivamente maggioritario, partiti, partitini, gruppi e gruppetti. Guardiamo al destra-centro vincitore: se Salvini -che già di suo è uno che gioca su più tavoli, dentro e fuori dal governo- o Berlusconi non sono soddisfatti dalla distribuzione dei posti di ministro e vice-ministro può subito, ancora prima che parta l'operazione, bloccare la costituzione del governo o, se Giorgia Meloni continua a mostrare decisione e chiarezza di idee, dichiarare l'appoggio esterno. Una minaccia seria visto che l'assenza dei voti dell'uno o dell'altro fa venire meno la maggioranza. E nessuno può venirle in soccorso, salvo il Movimento 5Stelle che da pesce indefinibile quale è può farsi trovare a destra al centro o a sinistra secondo le convenienze del suo amministratore unico, Giuseppe Conte. Chi, peraltro, ha in mano l'occasione per rimettere in discussione partiti e schieramenti introducendo una reale novità è, a dispetto di tutto, proprio il Pd sconfitto e boccheggiante. L'idea di mettere tutto a posto senza cambiare nulla è l'idea del ceto dirigente e proprietario, la ditta di bersaniana memoria. Così, i rapporti di potere interno rimarrebbero inalterati e chi ha le leve anche economiche del comando continuerebbe ad averle. Del resto, dobbiamo ricordare che nella storia della Repubblica il politico che controlla le leve finanziarie del partito ne è il padrone sostanziale e formale. Tanti i casi nella storia, ma si tratta di gente ormai sepolta e da tempo che non voglio riesumare. Nell'attualità, oltre all'esempio del Pd, c'è quello di Silvio Berlusconi che ha creato e finanziato un partito e dello stesso Salvini che, secondo la vulgata in circolazione, ha il pieno controllo delle finanze leghiste e quindi del partito. Il gruppo di controllo del Pd non ha interesse all'allargamento delle adesioni né alla vittoria elettorale: si tratta di eventi che metterebbero in discussione il potere di chi ce l'aveva ieri e ce l'ha oggi e lo vuole mantenere domani. Se mai qualcuno -cosa difficile da trovare in un pollaio da batteria in cui sono pochi i galletti e (quasi … penso e temo di non fargli un favore a Matteo Orfini) tutti addomesticati- intendesse lanciare una vera operazione di rilancio della sinistra democratica che non potrebbe non chiamarsi sinistra socialdemocratica, a dispetto dell'orticaria che la parola socialista (di per sé un atto di accusa per la dirigenza Pd) provoca nella maggioranza dei pdini, dovrebbe ricorrere a una rifondazione complessiva che vada al di là delle piccole parole d'ordine che circolano in funzione della scelta del nuovo segretario. Riattivare il circuito con il mondo del lavoro, con i giovani, con i produttori, con le associazioni. Tutto fa brodo. Ciò che ci vorrebbe, invece, è il lancio di un progetto coerente e non omnicomprensivo per il futuro della società e del Paese fondato sul privilegio delle giovani generazioni, sull'eliminazione delle tante posizioni parassitarie (anche interne ai partiti), sull'apertura a un'economia di mercato sociale, quel metodo che ha dato alla Germania il duraturo successo e la primazia in Europa. Insomma, azzerare e ricostruire dalla base, abbandonando tutti gli archetipi ideologici del passato, per puntare su uno solo: aggiornare il Paese, renderlo pienamente competitivo, lanciando una sfida ad alleati e competitori. Un modo corretto e coinvolgente che metterebbe la finta sinistra a 5Stelle (quella del 110% a tutti anche a chi non ne ha bisogno e del reddito di cittadinanza distribuito con criteri burocratici mal pensati, mal gestiti e di sovente destramente carpiti) di fronte ai veri problemi della Nazione e degli italiani. Un partito, i 5Stelle che ha scelto di rappresentare i ceti parassitari di Sud e isole e che non è in grado con i suoi tanti, stupidi «no» di cooperare alla ripresa nazionale. Penso che occorra riflettere sul circuito mentale vizioso e viziato che presiede alla schiera grillina: da un lato lo sviluppo zero, niente prospezioni petrolifere in Adriatico, niente estrazioni nel territorio nazionale, niente rigassificatori, niente termovalorizzatori e poi nel disastro economico e sociale la carta truccata estratta dalla manica del reddito di cittadinanza una sorta di anestetico nazionale che, come tutti gli anestetici, provoca assuefazione e dipendenza. Naturalmente, nulla di tutto questo accadrà, perché il Pd è diventato «non-contendile»: il terremoto Matteo Renzi, che conquistò la segreteria in un congresso aperto -l'unico nella storia del Pci e dei successivi Pds, Ds e Pd- e archiviò i vecchi tabù (il jobs act per esempio) e introdusse una politica riformista, non potrà più ripetersi. Meglio la lenta consunzione che una reale alternativa al destra-centro. Meglio la consunzione, durante la quale i gerarchi e i gerarchetti gestiscono indisturbati i loro specchietti di potere, che un rinnovamento reale che riapra la contesa nazionale. Spiacevole evoluzione che priva gli italiani di una normale dialettica politica, quella tradizionale e fisiologica tra conservatori e progressisti. Eppure, questa sarebbe la strada.

La fine del colonnello Custer

Come i cavalleggeri del colonnello Custer, gli ammaccati esponenti del Pd pensano di resistere nell'angusto perimetro nel quale i selvaggi Comanches dei nostri giorni, i grillini, li hanno ridotti.

Non si rendono conto che i pochi metri quadrati nei quali si sono ridotti sono destinati a cadere per l'equivoco di fondo che ha presieduto la loro battaglia. «A Dio spiacenti e a li nimici sui» e né carne né pesce hanno creduto di presidiare uno schieramento di sinistra, quando, da tempo, erano diventati i custodi dell'«establishment» finanziario, industriale, agricolo e burocratico sostenendo all'inizio Mario Monti e finendo con Mario Draghi, l'alfa e l'omega del funzionariato nazionale ed europeo, dopo aver liquidato chi (il Matteo Renzi degli errori e della visione riformista) aveva dato un'anima e uno scopo a un partito nato per salvaguardare gli interessi specifici dei resti di due nomenklature, quella del Pci e quella della sinistra democristiana, fondata con i soldi di Enrico Mattei e dell'Eni e vissuta sempre nell'area opaca di rapporti con le partecipazioni statali o, addirittura, con personaggi come Alejandro de Tomaso, fondatore di un casa automobilistica, di cui per breve periodo fu consulente un grosso personaggio bolognese.

Per il vero -e qui rendo una personale testimonianza- la burocrazia italiana nel 1960, anno in cui entrai nel servizio dello Stato era in mano a reduci non pentiti del fascismo: giornale ufficiale Il tempo. Gli alti gradi erano tutti ex fascisti, e iniziavano a subentrare i primi dirigenti democristiani. Negli anni successivi e in breve la burocrazia divenne tutta democristiana (giornale ufficiale: Il tempo), anche quando con il primo centro-sinistra i socialisti entrarono al governo in teorica par condicio con i DC. Se guardo agli anni 2000, quando (2008) lasciai il servizio dello Stato, la burocrazia era in mano ai postcomunisti (giornale ufficiale: la Repubblica), e pochi democristiani sopravvivano protetti dalla Margherita. Ma ricordo altresì, che con il ritorno al governo di Berlusconi (ministro della pubblica amministrazione Franco Frattini) solo 3 alti dirigenti sul centinaio nominati dal centro sinistra e, in particolare, da Franco Bassanini, solo 3 quindi ebbero il pudore di non cambiare bandiera e di perdere l'incarico. Tutti gli altri corsero a lamentarsi per l'indebita intrusione dei comunisti nelle loro attività, giurando che gli ex comunisti non c'entravano nulla nelle loro nomine.

Non meravigliamoci di cosa accadrà nei ministeri tra qualche settimana, fermo il fatto che i miei ex colleghi consiglieri di Stato sono pronti a farsi carico della gestione giuridica dei gabinetti dei ministri.

Torniamo, però, al campo devastato del Pd.

In queste ore, l'avvocato Giuseppe Conte, capo dei 5Stelle, sta realizzando un'alleanza con Fratoianni e Bonelli, per costituire un fronte di sinistra coeso che dovrebbe dare le carte in vista delle elezioni regionali in arrivo nel Lazio e in Lombardia. Questo semplice, elementare fatto dimostra l'erroneità -per non usare la vera parola: stupidità- dei dirigenti del Pd, capeggiati da Enrico Letta, nell'abbandonare l'area politica loro più affine, la parte sinistra del centro politico, nel liquidare l'intesa con il duo Calenda&Renzi e nel regalare a Fratoianni e Bonelli candidature vincenti che, prive dell'ombrello pdino, non avrebbero avuto una chanche di successo.

Ancora oggi, esponenti del Pd parlano di ricostruire una relazione con il mondo operaio -che, come il sindacato, non è più soggetto politico e meno che mai soggetto politico di sinistra-, di riprendere i temi perdenti dell'altro ieri come i contratti a tempo indeterminato e il salario minimo. La fase storico-politica è cambiata e altre sono le priorità attuali.

Non capiscono inoltre che un'intesa con i 5Stelle costituirebbe l'abbraccio della morte, quello della definitiva liquidazione di ciò che il Pd doveva essere e che fu per il breve periodo renziano: un partito riformista.

5Stelle e sparse membra dell'italico massimalismo sono destinate a una fine prematura, soprattutto se in coerenza con le dichiarazioni di campagna elettorale il nuovo governo eliminerà questo reddito di cittadinanza che premia fannulloni ed evasori fiscali, per introdurre norme di soccorso sociale volte al reinserimento nel lavoro produttivo.  I percettori di reddito di cittadinanza sono, mal contati, 2.500.000: i voti grillini sono stati 2.800.000. 2 più 2: la matematica non è un'opinione.

Ha quindi ragione Filippo Andreatta, figlio di Beniamino, detto Nino, il cervello più lucido della Democrazia cristiana dalla fine degli anni ‘70 sino al giorno in cui un'emorragia celebrale lo colse in Parlamento, quando propone lo scioglimento del Pd e il ritorno ai partiti che lo crearono. Un modo chiaro e inequivocabile per recuperare il peso e il ruolo degli ex democristiani come partito del centro-sinistra democratico, decisamente avversario del massimalismo e dei massimalisti (en passant ricordo che un secolo fa di questi tempi non solo avanzava il fascismo ma maturava la scissione tra socialisti riformisti e socialisti massimalisti, che dette una fondamentale spinta alla fine del regime parlamentare: le situazioni cambiano e non si ripresentano mai allo stesso modo, ma …).

Se non rinunceranno alla piccola porzione di potere residuo e se non si renderanno conto che l'apparato economico dell'ex PCI non potrà continuare a essere tributario di una nomenklatura perdente e ininfluente, questi dirigenti del Pd dovranno attendersi l'affondamento e l'oblio.

Non una perdita, se il riformismo comunque denominato potrà diventare una delle vie alternative del Paese.

This is Europa's moment Stronger togheter, Domenico Cacopardo (Kakoπ?ρδ?σ), www.cacopardo.it,  Presidente di s. del Consiglio di Stato.

Mauro Del Bue

Débacle, editoriale de L'Avanti del 26 settembre 2022

Una premessa. L'Italia, che é sempre stato il Paese in cui si votava di più, é diventato il Paese in cui si vota meno. Il 63,9% dei votanti rispetto agli aventi diritto rappresentano la percentuale più bassa tra quelle conseguite nei grandi Paesi europei. In Germania alle ultime politiche ha votato il 77%, in Francia il 73, nel Regno unito il 67 e in Spagna il 66. Dunque non é vero che la tendenza italiana é in linea con quella dei paesi europei.

Se fino agli anni ottanta, il calo inizia soprattutto negli anni novanta, costituiva un'anomalia positiva adesso si é trasformata in un'anomalia negativa. Le ragioni sono molteplici. Ne individuo subito due. Contrariamente agli altri paesi, in cui il sistema politico identitario ha tenuto anche dopo la fine del comunismo, in Italia il vecchio sistema é crollato sotto i colpi della falsa rivoluzione giudiziaria ed é stato sostituito da un nuovo assemblaggio di partiti senza storia e senza identità, entro il quale gli elettori paiono muoversi senza alcun vincolo e con una mobilità impressionante e anche manifestando l'indifferenza più totale. I non partiti della cosiddetta Repubblica mai nata sono scatole vuote. Sono non partiti senza storia e identità, generalmente monocratici (gli italiani li chiamano col nome dei loro leader) che, sottraendo il diritto di scelta dei parlamentari all'elettorato (col Rosatellum nella quota proporzionale le liste sono bloccate), affidano a loro stessi il compito di nominare i parlamentari, trasformando così la democrazia in oligarchia. Questo, della rifondazione del sistema politico italiano, del rinnovamento delle istituzioni (si vada verso il sistema, peraltro anomalo, dell'elezione diretta del presidente del Consiglio o del presidente della Repubblica) e della riappropriazione del diritto di eleggere i parlamentari da parte dell'elettorato, mi paiono più che obiettivi pressanti necessità. La destra ha vinto e governerà il Paese. La Meloni é una leader democratica fatta in casa. Dalla Garbatella a Palazzo Chigi non é necessario inscenare alcuna marcia. Dal 1994 in Italia vince sempre chi non governa. Gli italiani in questi trent'anni hanno completamente ribaltato il detto andreottiano secondo il quale “il potere logora chi non ce l'ha). Il voto premia chi é lontano dal potere e promette un potere migliore, per essere poi puntualmente e successivamente travolto dalla complessità del governare e sostituito da nuovi profeti. Nella coalizione che ha vinto, la Lega di Salvini è crollata. Dunque anche tra chi ha vinto c'é chi ha perso. Questo, alla lunga, potrebbe creare qualche problema perché la mancanza di equilibrio genera sempre tensioni. Ma é solo un appunto da tramandare al futuro. Il Pd, nella versione democratica e progressista (la parola socialista é tuttora impronunciabile), é il vero sconfitto. Il 19%, se si considera l'apporto di Articolo uno Mdp e del Psi, é anche meno del risultato conseguito da Renzi nel 2018, che gli costò la segreteria. Letta non solo non é riuscito, non per colpa sua, a costruire il suo campo largo, ma non ha creato neppure un campo stretto e unito nel programma e nella proposta di governo. Ha preferito l'accordo elettorale con Si e Verdi precisando che con questi partiti non avrebbe governato. La sua coalizione non proponeva dunque un programma, un'ipotesi di governo e una leadership al contrario di quella opposta. E finiva per affrontarla come un pugile che si reca sul ring senza guantoni. Leggo che nel Pd si vorrebbe tornare all'asse coi Cinque stelle. Ma le elezioni ci sono già state, informate i proponenti. La sinistra italiana consegue il suo risultato più indecente. Anche peggiore di quello, pessimo, del 2008. Il 25% é percentuale inferiore a quella ottenuta dal solo partito della Meloni, tale da meritare non un processo, o un congresso con il ritorno delle rondini, ma una vera rifondazione. Si é trattato di un'autentica dèbacle che va di pari passo, questo sì é un processo storico che ci riporta al passato, con il trasferimento di intere masse popolari dalla sinistra alla destra, vedasi i risultati in Emilia Romagna e in Toscana. I Cinque stelle festeggiano un dimezzamento dei voti rispetto al 2018 e tuttavia il fatto che abbiano arginato l'emorragia (utilizzando tre fattori: la trasformazione del reddito di cittadinanza in reddito elettorale, la figura di Conte che é in grado, continuo a non capirne il motivo, di conseguire consensi e la collocazione in un'area più radicale di quella occupata dal Pd e alleati) é uno dei dati emersi nelle ultime due settimane di campagna elettorale. Il terzo polo, con quasi l'8%, ha ottenuto un buon risultato, anche sorprendente per chi, all'inizio della fusione a freddo tra Azione e Italia viva, pronosticava una semplice incollatura di due 2 per cento. Di noi socialisti tratterò domani: della scelta compiuta e delle possibili altre strade che si potevano percorrere. Resto convinto che per noi il tracciato, dalla nascita del Conte due, dalla fiducia allo stesso governo, dalle elezioni di Roma fino alla composizione delle liste, poteva, doveva essere un altro. Cercherò di spiegare quale. Ma dopo i miei editoriali e il mio intervento congressuale non é certo un segreto da disvelare.

C'erano altre strade..., editoriale de L'Avanti del 27 settembre 2022

Il segretario del Psi Vincenzo Maraio non é stato eletto. A lui va la nostra solidarietà per questa sua inaspettata e cocente delusione. Il Psi si trova (anche il candidato socialista nel collegio estero dell'America latina Mattarazzo non é passato) senza alcuna rappresentanza parlamentare. Come nel 2008. Ma in quelle elezioni ë stato punito il nostro coraggio di non accettare candidature nelle liste del Pd, stavolta é stata punita la nostra rassegnazione ad accettare qualsiasi condizione postaci da questo partito. La mancanza di una presenza parlamentare provoca alla nostra comunità problemi politici, organizzativi ed economici rilevanti. Sapremo affrontarli insieme e mantenere la nostra presenza? Prima un ripasso del recente passato per capire gli errori e subito correggerli, se siamo ancora in tempo. Avevamo altre possibilità? Io ne segnalo tre. La prima era quella avanzata da Ugo Intini e dal sottoscritto in occasione della formazione del Conte due. Non votare la fiducia e collocare i nostri parlamentari a fianco di Più Europa e Azione. Subito dopo, a seguito della scissione del Pd e dell'iniziativa promossa da Riccardo Nencini, abbiamo avuto la possibilità di rientrare nel progetto con la costituzione del gruppo Psi-Italia viva del Senato. Ma si é voluto attribuire all'operazione una valenza tecnica e non politica. Come se un gruppo unito a Palazzo Madama fosse un'operazione di ingegneria e non una scelta di collocazione. Si é dato mandato al nostro senatore di esprimere un voto favorevole alla fiducia al Conte due messo in crisi dallo stesso gruppo al quale il Psi aveva aderito, la cui caduta ha aperto la porta al governo Draghi. Alle elezioni di Roma, anziché appoggiare la candidatura di Carlo Calenda si é preferito presentare il simbolo inducendo Bobo Craxi a un sacrificio inutile se non umiliante. Evidente che con queste oscillazioni si stava preparando un'altra strada per noi rispetto a quella da noi stessi a parole pure propagandata in riunioni congiunte, e cioè l'approdo a un polo liberalsocialista. Il congresso estivo aveva raccomandato di operare per la costruzione in Italia di una forza unita del Partito socialista europeo alle elezioni politiche dopo avere compiuto la scelta di rifiutare l'alleanza dei socialisti europei alle consultazioni europee preferendo l'accordo con Più Europa. Ma anche questo non é avvenuto. Il Pd ha preferito mettere insieme se stesso e Articolo Uno-Mdp, che non fa parte del Pes, costruendo un'alleanza “democratica e progressista” in cui non c'era accenno all'intesa coi socialisti (il rifiuto di una parola che é l'essenza della nostra esistenza doveva rappresentare un rifiuto all'accordo) e nemmeno al simbolo del Pes. In più sacrificando il nostro senatore Riccardo Nencini a cui é stata negata la ricandidatura. Potevamo, dovevamo sorbirci anche questo? Potevamo, dovevamo reagire con uno scatto di orgoglio, questa la seconda soluzione, presentando la nostra lista autonoma e chiamando a raccolta i nostri e magari, come hanno fatto le altre forze alleate, pretendendo uno o due diritti di tribuna. Ma c'era una terza soluzione. Quando la Bonino e Calenda hanno rotto l'alleanza e si é ripresentata, nell'ambito del centro-sinistra, la lista di Più Europa potevamo allearci con questa lista che, detto col senno del poi, avrebbe certamente superato il 3%. Non mancavano altre strade, dunque. Bastava volerle vedere. La verità é che, da un lato, si é da tempo alzata la retorica del rilancio del simbolo e della sua presentazione e dall'altro si é preparata la più supina subalternità a un altro partito. Questo il paradosso a cui abbiamo assistito da un paio d'anni. Quale può essere il nostro futuro adesso? Penso che la scelta tra scioglimento e continuità vada posta al Consiglio nazionale, da convocare al più presto. Se si vuole continuare serve un atto preventivo di ripartenza e di autocritica degli errori compiuti (un gruppo dirigente che abbina suggestioni utopistiche a comportamenti strumentali va profondamente rinnovato). E se si compie la coraggiosa, anzi temeraria, scelta della continuità serve un congresso nelle forme di Costituente da convocare entro l'anno. Per definire la nostra identità nell'oggi. chiamando a raccolta tutti quello che intendano darci una mano, per scegliere una collocazione, per stabilire le modalità di una nuova politica extraparlamentare, sul filo di quella, ardua ma coraggiosa, praticata tra il 2008 e il 2013, per lanciare un progetto di due o tre obiettivi concreti da perseguire nell'ambito di una legislatura che si dipana alla luce della più grande vittoria della destra politica nel periodo repubblicano.

Mauro Del Bue
Mauro Del Bue

Emanuele Fiano

Diceva Eduard Bernstein, filosofo e politico, tra i padri del socialismo storico, che nel socialismo, appunto, il fine è nulla, il movimento è tutto. Che, tradotto, significa che le visioni e le pratiche di ricerca di chissà quale società “perfetta” non esistono, esiste la pratica dell'affermazione, passo dopo passo, obiettivo dopo obiettivo, della giustizia sociale e della pienezza democratica, nell'economia e nella società, in termini comunitari e individuali. Questa interpretazione o, meglio, questa “natura” della socialdemocrazia può esserci utile, fatte le dovute proporzioni, a ciò che il maggior partito del Centrosinistra è chiamato ad affrontare, cioè la natura e il senso di se stesso. Se sostituiamo al “fine” la leadership salvifica o presunta tale e a “movimento” l'elaborazione di un quadro valoriale e di cultura politica, il paragone ci risulta chiaro. Non ci sono scappatoie, il progetto nato con L'Ulivo, continuato con L'Unione e approdato nel PD è concluso per la nostra comune e manifesta incapacità nel rappresentare una maggioranza di interessi e bisogni e nell'inadeguatezza di determinare e guidare un “movimento” della società italiana, attraverso una proposta politica con identità e correlazioni con il resto della sinistra europea e internazionale. Di certo non mi assolvo da questo fallimento, anzi mi assumo le mie responsabilità, per i ruoli non governativi e solo parzialmente direttivi che ho rivestito, soprattutto nel non essermi battuto abbastanza all'indomani dell'iscrizione del PD nel Partito del Socialismo Europeo affinché quel passo non fosse, come si è rivelato, formale ma sostanziale. Adesso abbiamo la possibilità, nonché il dovere, di non indugiare nello stesso errore. Dobbiamo aprire una fase congressuale che sia il “veicolo”, il “movimento”, che ci ricollega alle rappresentanze del mondo del lavoro e della società, attraverso una visione e una piattaforma che abbia alla sua base la giustizia sociale unita alla libertà economica, in un quadro di pienezza e sviluppo dei diritti sociali e individuali. Quella visione e quella piattaforma che fuori dai nostri confini si chiama laburismo, socialdemocrazia.

La strada è chiara: se continuiamo del crogiolarci in una “non identità” strategica e finalizzata al solo governo per il governo, senza nemmeno riuscirci ad arrivare tra l'altro, la prospettiva “francese”, cioè di finire schiacciati tra l'incudine mélenchoniana e il martello macroniano, come successo per PS d'Oltralpe, è davanti a noi. Se, di contro, siamo capaci, con un congresso dal basso verso l'alto, aperto alle rappresentanze, “proporzionale”, per tesi e non parafrasato tra un gazebo, un'urna e un volantino di propaganda di qualche candidato/a, troveremo nuovo senso e nuova prospettiva. I partiti non sono finiti, anzi, la loro assenza come soggetti chiave della vita democratica e sociale ci ha portato a questo. Abbiamo troppe volte sostituito la politica con la politologia, e pensato che tutto fosse determinato e determinabile perché “avevamo ragione”, dimenticandoci che “movimento” significa percorso, ricerca, adeguamento, incontro e condivisione. Abbiamo alle spalle, per dirla con Olof Palme, un secolo e mezzo di storia e conquiste del movimento riformista dei lavoratori, non ci dovrebbe risultare difficile sapere da dove ripartire, naturalmente a patto di riconoscerci in quella storia. Cosa che io faccio e continuerò a fare.

Emanuele FIano
Emanuele FIano

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