Siamo stati i primi, già nel settembre del 2014, a segnalare l'inderogabile necessità di interrogare la politica sulle conseguenze riflesse di una riforma, che, partita come fattore di forte ridimensionamento dello storico ente intermedio, non potrà non incidere, anche se non se ne intravvede chiaramente la portata, sull'aggregato complessivo della periferia amministrativa, durato un secolo e mezzo.
Inequivocabilmente l'indirizzo di cui trattasi, attivato, come si diceva, dall'ex “braccio destro di Palazzo Chigi” Delrio (proveniente dal “campo” e proprio per questo erroneamente accreditato come uno che conosce bene i meandri delle istituzioni periferiche) e, nel frattempo, confluito nelle deleghe della giovane ministro Madia, non è certamente avulso dal più ampio contesto riformatore dell'impianto istituzionale. Che rappresenta uno dei perni della modernizzazione renziana del sistema-Italia.
Doverosa digressione: il giovane leader-premier continua a rappresentare quanto più distante dalle nostre visioni. Insomma, a voler essere sinceri come sempre, non ci piace; come a Tommasino non piaceva ‘o presepe del padre Luca.
Ma, poiché l'Italia è, da tempo, qualcosa di più di un'anatra zoppa e poiché l'etica della responsabilità esorterebbe, in frangenti così critici, ad accantonare perniciosi particolarismi, diciamo subito, per ciò che ovviamente può valere, che l'impulso riformatore costituisce quanto di più apprezzabile si possa rinvenire nel ciclo politico corrente.
Altrettanto ovviamente tale apprezzamento non ne sottintende una condivisione, né acritica né generale.
Ma circa il fatto che il nostro Paese sia gravemente in ritardo nell'adeguamento ai cambiamenti scanditi dall'ultimo quarto di secolo e che la improcrastinabile modernizzazione del modello-Paese non possa non partire da una profonda innovazione del modello politico/istituzionale non ci dovrebbe essere dubbio alcuno.
Come si sa, il meglio è nemico del bene. E, come abbiamo più volte osservato nel recente passato, la politica italiana, soprattutto in materia di riforme istituzionali, è da sempre alla ricerca del perfezionismo; al punto che nei 70 anni che ci separano dalla Costituente nessun serio intervento (ad eccezione della nefasta riforma del Titolo V) è approdato, come la consapevolezza delle criticità avrebbe consigliato, a qualcosa di concreto.
Non solo, quindi, è assolutamente inderogabile il progetto di profonda revisione di quelle parti della Costituzione in evidente attrito con i requisiti di efficienza e tempestività reclamati dai mutamenti in avanzata progressione, ma i tempi di completamento di un siffatto sforzo di innovazione non possono lasciare spazio ed alibi ad indugi, declinati in chiave ostruzionistica.
Ok, ci teniamo stretta la più bella Costituzione del mondo! Ma, come dimostra la poco performante attività istituzionale, non sarà meno bella se alcune sue parti saranno, con un aggettivo quasi irritante, “efficientate”.
Torneremo sul profilo generale dell'argomento tra qualche giorno quando affideremo il nostro, come ormai si è costretti a dire per farci capire, endorsement, a sostegno della riforma sottoposta a referendum nel prossimo ottobre.
Già da ora, però, dichiariamo di condividere e di apprezzare il profilo di un progetto che, partendo da un inquadramento complessivo dello Stato, si fa carico di rimuovere arretratezze e cattive posture.
Si accusa il premier di mirare alla verticalizzazione della catena del comando politico. Non perché, com'è nei fatti, la tempestività/efficienza dei sistemi “concorrenti”, per molto versi ed entro certi limiti, implacabilmente lo imporrebbero; bensì per miserabili calcoli di controllo plebiscitario, attribuiti alle recondite mire del premier.
Ciò anteposto, condividiamo in pieno l'idea che lo snellimento/semplificazione non debba riguardare solo le prerogative del potere legislativo ed esecutivo, ma anche l'ordito istituzionale periferico.
Abbiamo più volte sostenuto che, in tale ambito, saremmo partiti da una prioritaria e profonda revisione dell'istituto regionale, ordinario e, soprattutto, speciale; perché è in tale ambito che, nel quasi mezzo secolo di funzionamento, si sono incubate e sviluppate le peggiori distorsioni.
Di ciò, lo diciamo con senso di scoramento, non solo non c'è evidenza in termini di coerenza e di consapevolezza. Ma, soprattutto, con l'affidamento alle Regioni della prerogativa quasi esclusiva di plasmare la sottostante intelaiatura istituzionale, si è in presenza di un indirizzo proiettato nella direzione esattamente opposta.
Ci sarebbe anche da aggiungere che la “mano” della giovane ministra Madia (fin qui accreditatasi solo per la luce riflessa di un nonno eminente giurista), diversamente dalla collega Boschi applicata alla forma dello Stato, sia apparsa sin qui evanescente.
Per essere franchi, il format di Delrio, già di suo delineato un po' grossolanamente quasi due anni fa, non sembra reggersi su progressioni apprezzabili.
D'altro lato, se affidi a venti Regioni, che sono quanto di più scombiccherato in termini di vocazione comune e coesione, la prerogativa di ridisegnare il livello intermedio e, dopo due anni, non hai fornito un indirizzo a trama più fitta, cosa di diverso e virtuoso puoi aspettarti?
Come abbiamo rilevato recentemente, il primo impulso dell'istituzione regionale è stato quello di mantenere l'approccio quasi esclusivamente sul terreno delle conseguenze della spending review implicita nella gittata transitoria del decreto Delrio (scaricando le conseguenze sulle ex Province e, per ricaduta, sui sottostanti Comuni).
Lo stesso step della definizione degli ambiti di competenza della nuova istituzione definita “area vasta” non si può dire che sia stato affrontato con uniformità di vedute e di obiettivi; né tanto meno con l'alto senso istituzionale (che l'importanza dell'argomento reclamerebbe).
L'impressione è che, nelle more dell'impostazione dell'iter di riforma, quelli che dovrebbero essere soggetti partecipi ed attivi nel completamento delle caselle lasciate aperte da un formulazione non esattamente circostanziata, navighino a vista. Un po' mossi dal tentativo di versioni ardite un po' alla ricerca di sensi reconditi o di verità nascoste, immaginabilmente insite negli animal spirits di un ceto politico totalmente assorbito dalla propria sopravvivenza messa a repentaglio dalle riforme (Tito Livio mise in bocca ad un centurione:hic manebimus optime).
D'altro lato, rassegnamoci: questa leva politico/istituzionale appare consapevole della prospettiva che i nomi dei suoi protagonisti non appariranno (se non in negativo) nei libri di storia. E, diversamente dal praetor qui non curat de minimis, se ne occupa in esclusiva. Peraltro, la società civile dimostra (quanto a condivisione e coesione) di non essere molto diversa dalla classe politica che esprime.
Il loro rapporto, fatto di costante di sovraesposizione e di over dose di eloquio, rimanda per molti versi al teatro di Ionesco. I cui personaggi, notoriamente, si parlano ma non si ascoltano.
Insomma, più che pestare acqua nel mortaio di un confronto, che dovrebbe avere come traguardo il miglior risultato sul terreno innovativo, si ha un'impressione ancor più sconfortante.
Quando temi così importanti per la ripartenza dello Stato si danno in pasto alla canea di portatori di visioni, che definire campanilistiche sarebbe tutto sommato ottimistico, la conseguenza non può essere quella indicata dall'etica della responsabilità civile, bensì quella della ricerca del risultato migliore per il particolarismo. Che, ça va sans dire, si nutre di un'insalata di egoismi e di ingredienti tossici, sparsi per depistare il confronto da quelli che dovrebbero essere i virtuosi riferimenti.
Sin qui, come dimostra il crescendo wagneriano di un “dibattito” (sic!) che assomiglia ad un cineforum applicato al niente, si sono montate bolle di d'opinione per condizionare la percezione collettiva ed, in prospettiva, per occupare le quote del potere decisionale nei contesti istituzionali che usciranno dalla riforma.
Virginio Venturelli, già apprezzato sindaco di Madignano e per molti anni lucido protagonista del confronto sugli orizzonti intercomunali, nel contributo che pubblichiamo di seguito, lamenta: “Un cambiamento senza una visione d'insieme complessiva che rischia di tradursi in una contrapposizione di ruoli e di competenze generali.
In questo contesto, non ci rimane che sperare nella Regione Lombardia, affinché trovi la miglior sintesi possibile tra i compiti da assegnare alle aree vaste (pianificazione urbanistica sovraccomunale, gestione dei rifiuti e dell'ambiente, viabilità, trasporti ecc.) che non possono essere frammentati a livello comunale, né accentrati a livello regionale, ed il futuro assetto del territorio necessariamente da pensare in stretto collegamento con la parallela riorganizzazione dei propri servizi e di quelli decentrati dello Stato.”
La categoria dei ricercatori in astratto, quorum ego, appare, salvo rare eccezioni di lucida testimonianza civile, fattualmente interdetta al confronto.
Forse è venuto il momento di fermarsi un attimo e ripensare completamente gli approcci sin qui, magari inconsapevolmente, tratteggiati.
Con ciò non intendiamo sostenere che siano del tutto infondate le preoccupazioni di chi intravede, nell'allargamento dei confini dell'entità di appartenenza e nell'allontanamento (geografico oltre che politico) dai nuovi epicentri decisionali, non già segnali tendenziali virtuosi, bensì un consistente vulnus agli interessi originari.
Lucidamente lo fa il Sindaco di Casaletto Ceredano in una dichiarazione ice-berg, presumibilmente rappresentativa di un vasto sentire comune nel comprensorio cremasco.
Senza voler accreditare in toto una versione espressa un po' pane e salame, rileviamo che la banda di oscillazione di quelle riflessioni ruota, nella migliore delle ipotesi, sostanzialmente attorno al timore di un'eterogenesi dei fini della riforma.
Non che ci sia indifferenza nei confronti della mission di innovare le dinamiche istituzionali e di ottimizzare l'impiego delle risorse pubbliche. Ma ci sembra di dover cogliere, forse partendo dal fatto che molti degli amministratori locali sul terreno dell'ottimizzazione hanno già dato più di quanto abbiano dato Delrio e la Madia, una preoccupazione palese: quella che, alla fine del percorso della riforma, prenda consistenza plastica un devastante combinato. Tra le conseguenze di un ciclo di duro ridimensionamento delle risorse e quelle immaginabilmente indotte da un processo di ulteriore emarginazione del territorio (di tutto il territorio, Sindaco Casorati!).
Il che non significa che tutto debba restare com'è perinde ac cadaver, fino al definitivo infoibamento nell'irrilevanza rispetto alle sinergie dispensatrici di sviluppo e rispetto ai meccanismi istituzionali preposti alle politiche di riequilibrio.
Indubbiamente le aree già emarginate, vale a dire quelle non ricomprese nell'asse della metropoli e della fascia pedemontana, arrischiano, in questo rimescolamento delle carte, molto più delle altre. La cui metabolizzazione nell'assetto dei poteri decisionali in fieri è garanzia di forte incidenza nel mantenimento (o addirittura, come nel caso del governo metropolitano di accrescimento) delle posizioni politiche predominanti. Per essere franchi fino alla brutalità, il problema riguarda i “parenti poveri” delle aree tradizionalmente, come si diceva, emarginate e, diciamolo pure, rese ancor più marginali da una politica di destinazione delle risorse e delle strategie di sviluppo storicamente non equa e confliggente con l'idea di una crescita armonica di tutto il territorio.
Ma, come si diceva, poiché la stanza dei bottoni, che presiede agli indirizzi strategici è prerogativa dei leaders espressi dal quadrilatero d'oro della metropoli e della pedemontana, non ci sarà molta udienza per ragionamenti improntati da razionalità e da equità, come il nostro.
Ce lo dimostra abbastanza fedelmente il profilo un po' un tanto al chilo del Governatore, che, una volta messa in cassaforte la tutela dei propri bacini, è sembrato voler dire: per il resto vedetevela un po' voi.
E per voi è da intendersi proprio “noi”. Noi, noblesse oblige, cremaschi, che non dovremmo essere più tanto certi del trickle-down metropolitano sulla contigua marca cremasca. Perché da tempo l'establishment milanese non guarda più, se non per briciole non sempre positive (come l'impulso a considerare i territori vicini naturali destinatari delle proprie discariche), al rapporto di sussidiarietà con aree, che, col ridimensionamento del comparto manifatturiero, non esprimono alcuna capacità d'attrazione. In questo senso, amici cremaschi, dall'opzione verso l'area metropolitana, non aspettatevi molto di più della parabola del ricco Epulone. D'altro lato, perché non dovremmo, sul piano del puro realismo, porre attenzione all'analisi dello scenario di partenza, delineata dal vice-sindaco della città metropolitana, Eugenio Comincini, sindaco di Cernusco sul Naviglio: “Altro che blasone, dell'eredità del vecchio ente soppresso con la Legge Delrio sembrano essere rimaste soltanto casse senza denari e problemi di ogni genere. Ovunque ci giriamo ci troviamo di fronte a difficoltà. Quali piani e quali strategie si possono dispiegare con bilanci al collasso?”
E, procedendo, “noi”, cremonesi. Che, dai tempi in cui è finita l'influenza del pensiero dei padri fondatori della Regione Lombardia fortemente permeati dalla cultura della programmazione socio-economica, da tempo sappiamo cosa significa essere insignificanti nella comunità regionale.
Per effetto di un atavico isolamento; cui la classe dirigente locale ha tentato (con prevalenti proprie risorse), come nei casi della Castelleonese e dell'Autostrada Brescia-Piacenza, di porre (inutilmente, date le insignificanti ricadute sul tessuto produttivo e sull'attrazione di investimenti esterni) rimedio.
Per completezza e verità di analisi si potrebbe anche ammettere che l'unico serio investimento alloctono per lo sviluppo infrastrutturale sia stato il progetto del Porto interno di Cremona e gli 11 km di canale navigabile sino al bacino di viraggio e interporto di Tencara.
Una sorta di cattedrale nel deserto, perché la Regione, prima, ha cannibalizzato le risorse del Canale Navigabile Milano-Cremona-Po e soppresso il relativo ente sovra-provinciale e, poi, abolita l'Azienda Regionale dei Porti Interni, ha polverizzato le competenze (senza fondi e senza investimenti) tra le due Province di Cremona e di Mantova. Venendo clamorosamente smentita, come ha recentemente evidenziato proprio qui a Cremona, il vice-ministro ai lavori pubblici e trasporti, Riccardo Nencini, dai successivi indirizzi comunitari e nazionali in materia di efficientamento della rete di portualità interna e di intermodalità.
Par carità di patria omettiamo ulteriori annotazioni relative alla viabilità su gomma e ferro; restata praticamente ferma agli scenari di mezzo secolo fa. Anzi, per quanto si riferisce alla rete ferroviaria, nettamente ridimensionata e peggiorata, a vantaggio della grande vitesse (che privilegia solo le aree metropolitane) e della strategia del taglio dei rami secchi (resi tali da cinquant'anni di gestioni anti-industriali, consociative e clientelari). Infatti, dovendo tagliare i costi, meglio cominciare dai territori più isolati; riducendo le corse, mantenendo materiale rotabile inqualificabile, sabotando, in altre parole, la primaria condizione per cui l'uso del trasporto ferroviario dovrebbe essere indispensabile per il raggiungimento quotidiano del posto di lavoro.
Dobbiamo aggiungere altro per renderci consapevoli della cecità e dell'iniquità con cui i territori, che non fossero infeudati dal centro-destra, sono stati dicriminati?
E non solo sul piano degli investimenti strutturali. Perché in tutti gli ambiti sottoposti alla ri-zonizzazione dei servizi (ASL, Istituto Zooprofilattico, PMPI) il governo regionale ha affondato il bisturi, privando la rete territoriale di servizi essenziali per il sistema sociale, in generale, e per l'attività economica prevalente, in particolare.
Nel che vogliamo assolutamente includere l'inopinata scelta della Regione Lombardia di avocare a sé (con l'eccezione della Provincia di Sondrio) le funzioni in materia di politiche e servizi per l'agricoltura, l'agro-alimentare, l'ambiente rurale e le calamità, l'agriturismo; sottraendo, con un gesto di vero e proprio spoil system (dalle motivazioni tanto recondite quanto assurde, ma dalle mire intuibili), funzioni che in larga parte appartennero da sempre alla Provincia. La scelta, per quanto riguarda appunto la nostra Provincia, non può non essere percepita come uno sfregio didascalico. Che la dice lunga sul prosieguo dell'area-vasta, nella versione “cantonale”.
Paradossalmente, anche dove avremmo potuto operare in autonomia, come nel caso dei significativi investimenti operati da Centro-padane SpA, la concessionaria partecipata (l'unica delle concessionarie in scadenza ad esserne privata) ha investito l'80%, senza che le istituzioni cremonesi “partecipanti” battessero ciglio (gli bastava l'indotto clientelare?) nell'area già ben infrastrutturata del bresciano.
Forse chi ha continuato ad amministrare e a dirigere (in omaggio alle garanzie di professioni collaudate ed all'esigenza di continuità) nell'ultimo ventennio dovrebbe spiegarcene le ragioni. Solo destino cinico e baro? O poco trasparenti sinergie, sfuggite al potere politico cremonese? Caselle che andranno a posto quando tra qualche settimana il subentrante gruppo Gavio calerà le carte delle opzioni verticali. Se quella esigenza di continuità, fallita nella difesa della concessione, sarà ribadita nei nuovi scenari aziendali, allora non sarà difficile capirne le ragioni. Che potrebbero anche integrare, su un terreno di opacità, l'eventualità di un subentro, da parte del gruppo Gavio, la cui vera mission sono le costruzioni (e non le gestioni, che servono a fare cash ed, attraverso la prerogativa in house, procurarsi i grandi lavori), nella realizzazione del nuovo segmento autostradale.
Resta aperta, dal punto di vista politico, la partita dell'autostrada Cremona-Mantova. Rispetto alla quale, rifuggendo da qualsiasi impulso di accodarci al fronte del NIMBY, alziamo il ditino per un'avvertenza. Si insiste assertivamente sul giustificativo mantra: “Autostrada necessaria”. Necessaria a che e, soprattutto, a quali interessi?
Il tracciato e la motivazione di questo nuovo segmento viario sono, ma forse i suoi sostenitori non lo sanno, in capo alla programmazione viaria provinciale di mezzo secolo fa. Già dai tempi delle prime Giunte di centro-sinistra di inizio anni 60, si stimava che, dopo aver perso il bus dell'A1 passante nel territorio cremonese e dopo aver accettato il diktat bresciano di raccordare gli 88,8 km di centro-padane al capoluogo orobico anziché, come prevedeva il tracciato originario, alla A4 all'altezza di Peschiera (fatto che per molti versi avrebbe vanificato i presupposti sia della Bretella Auto Brennero-Autocisa sia della Cremona-Mantova,) la direttrice viaria prevalente avrebbe dovuto incardinarsi nella Transpadana. Di cui il tratto autostradale Cremona-Mantova (di ultima generazione concessionaria) potrebbe rappresentare il segmento centrale. Già, ma se l'unico miglioramento a ovest verso il capoluogo metropolitano è rappresentato dalla Castelleonese/Paullese e se non c'è traccia alcuna del proposito di prolungare la direttrice adriatica verso Ferrara e Rovigo, cos'hanno di strategico i 60 km destinati ad unire le patrie di Stradivari e di Mantegna? Indubitabilmente, nell'inopinata prospettiva che, a prescindere da quanto considerato, l'autostrada di cui trattasi venisse realizzata (senza alcun vantaggio strategico e con un non giustificabile spreco di suolo di pregio paesaggistico e di profonda tradizione agro-alimentare) ne trarrebbe beneficio solo Mantova. Che lamenta, pur non avendo mai fatto niente per ovviarvi, lo storico isolamento da Milano. Con il collegamento diretto con Cremona e Milano verrà completata per la città virgiliana quella significativa intersezione di assi ovest-est (A4) e nord-sud (A22, bretella autobrennero/autocisa, Cremona/Mantova).
Mantova, archivierebbe così gli effetti della deindustrializzazione (petrolchimico e =comparto manifatturiero, e si appresterebbe a diventare, sul piano della plurimodalità e, soprattutto, della navigazione interna, il più ostico competitor del territorio cremonese. Valdaro, infatti, epicentro della portualità fluviale (costruita a partire dal 1987 per iniziativa della presidenza cremonese dell'Azienda Regionale dei Porti Interni), non ha bisogno, per funzionare, di interventi strutturali di bacinizzazione. I 135 km del Canale Fissero-Tartaro-Canalbianco-Po di Levante (una volta rimossi gli ultimi risibili ostacoli) consentirebbero di raggiungere il mare e la portualità veneta per 365 giorni all'anno (via Cremona-Po la navigabilità è ormai assicurata per meno della metà dell'anno). Senza tema di siccità, esondazioni, nebbie. Addirittura si potrebbe pensare di applicare la robotica alla navigazione. Ed i costi infinitamente ridotti della via d'acqua si alleggerirebbero anche del costo del lavoro. Con uno sforzo puramente immaginativo si potrebbe anche ipotizzare che il mai definitivamente accantonato canale pedemontano (postulato dal ceto dirigente bresciano, con in testa l'indimenticato sindaco storico Boni) potrebbe rimaterializzarsi. Per impulso di un territorio almeno teoricamente interessato a trasportare più economicamente la materialità in entrata ed in uscita del comparto siderurgico e manifatturiero (ancora rilevante per tutto il territorio della Leonessa). Oppure per lungimirante sollecitazione dell'oligarchia comunitaria, che, qualche volta, in materia di programmazione, c'azzecca.
Sempre su un piano meramente immaginifico che fine farebbe, a quel punto, tutto l'aggregato, più assertivo che pratico, della navigabilità interna/intermodalità dell'asta padana immaginata sulla direttrice Milano-Cremona-Po?
La sia pur fantasiosa costruzione, oltre ad esorcizzare i nefasti vaticini di Stefano Baia Curioni, direttore della laurea di Economia per l'arte e la cultura della Bocconi (“Il problema di Mantova, città ferita per mancanza di progetto e perdita di imprese, è che i giovani se ne vanno. Dobbiamo riuscire a farli restare, trasformando la città nel laboratorio di un processo di sviluppo che interessa tutte le città italiane”), incardinerebbe decisamente, a favore del Mantovano, le potenzialità espansive dell'asse del Po su una direttrice, suscettibile di emarginare definitivamente il cremonese.
Se volgiamo veramente capire l'antifona del destino che ci riserva la prospettiva del cantone padano, le cose pressappoco sono messe così:
1) arrischiamo di perdere l'unità, durata un secolo nonostante una non perfetta uniformità, di un territorio, che, nella sua complessità rimanderebbe virtuosamente all'apologo di Agrippa; 2) la parte, imprenditorialmente e culturalmente più vivace (il cremasco) arrischia seriamente di essere malamente metabolizzata in qualche bacino che non è il suo ed in cui troverà funzioni manifestamente inadeguate; 3) nel caso, invece, fosse mantenuta l'integrità territoriale, andremmo a nozze con un contesto socio-economico quale, in aggiunta a quanto già sappiamo di nostro, è stato sopra-descritto dal prof. Baia Curioni; 4) è escluso che un siffatto accorpamento possa generare per Cremona sinergie espansive (sarebbe l'epica, mai verificata in natura, dell'unione dei poveri ed emarginati); 5) nel caso Cremona vi arrivasse senza Crema, saremmo di fronte ad un'incorporazione senza condizioni; 6) nel caso, invece, vi arrivasse con tutto l'attuale territorio, le prospettive sarebbero quelle descritte ai punti 3) e 4); soprattutto, si darebbe vita ad un'entità sviluppata solo in senso longitudinale (salvo il prolungamento a nord dell'Alto Mantovano) per un asse di di 250 km; 7) donde è facile dedurre l'agevolezza del raggiungimento del centro politico-istituzionale dell' “area vasta padana” e, soprattutto, l'accessibilità per il disbrigo degli incombenti (specie, dopo che simpaticamente la città virgiliana ha messo gli occhi sulla ben rodata ed efficiente Camera di Commercio).
Desidereremmo molto, noi che da mezzo secolo siamo i cantori della padanità, sapere in base a quale obiettivo criterio la sede amministrativa del “cantone” dovrebbe essere fissata sul quadrante più estremo del territorio (peraltro, con una popolazione nettamente inferiore nella città-capoluogo) e non in un sito, come Cremona, baricentrico rispetto al budello di oltre 200 km. Inoltre, siamo strasicuri che Mantova, per geografia, storia, vocazione economica possa essere percepita e certificata come capitale del Po?
Non osiamo chiederlo al Governatore, arrivato alla funzione pubblica solo perché al momento dell'assunzione dell'incarico non è stato sottoposto, come si faceva un tempo, alla prova di alfabetismo.
Non che siamo più speranzosi in esiti più lusinghieri, ma la stessa domanda siamo costretti a sottoporla ai vertici amministrativi, espostisi in senso significativamente “padano”.
Calma e gesso, non ci riferiamo al sindaco di Crema, notoriamente inchiodata ad un ruolo da vestale di una “cremaschità”, senza arrendevolezze e senza senso, che finirà per danneggiare un comprensorio, che, al contrario, sarebbe meritevole di ben altro. La sindachessa, di tanto in tanto, va in tandem con il consigliere regionale Alloni, che, benché oriundo cremasco, dovrebbe ricordarsi del fatto che rappresenta tutto il corpo elettorale del PD.
No, ci riferiamo ai più esposti nel postulato dell'area vasta padana: il segretario del PD, il sottosegretario Pizzetti, ed il bravo e stimato assessore del PD all'area vasta per il Comune di Cremona Andrea Virgilio. (il Sindaco Galimberti? Tamquam non esset).
Probabilmente, non c'è alternativa. Ma sarebbe bene che si confrontassero con le nostre riflessioni.
Diversamente, pace; ce ne faremo una ragione (anche sul profilo “dialogante” del ceto istituzionale).
Noi continueremo ad analizzare e riflettere in una prospettiva che, proprio perché priva di titolo di rappresentanza, presenta il vantaggio di giocare a tutto campo e di non essere condizionati.
Riassumendo: le ipotesi che non contemplassero un'area vasta padana, che parta da Crema (meglio se da Lodi) e raggiunga i confini dell'Emilia e del veronese e che abbia come epicentro, per le ragioni di buon senso anticipate, Cremona, avrebbero come approdo la disarticolazione di tutti i territori di cui trattasi.
“Fare di due periferie una centralità”: è, con tutta la stima per la sempre fervida e mai banale inventiva di Antonio Grassi, uno slogan suggestivo ma incompatibile con l'aggettivazione data alle aree (vaste, appunto). Un'area vasta, che in altri orditi avrebbe una sua dignità, più piccola (come sarebbe la fattispecie rappresentata dalla coincidenza tra l'area geopolitica e l'area omogenea) o di entità equivalente (come sarebbe la sommatoria rea di aree sottratte ad aree destinate ad essere coerenti con la ratio della Legge Delrio, è un ossimoro. Auguri, amici cremaschi!
Ultima ma non ultima riflessione: inequivocabilmente, anche i confini amministrativi delle Regioni sono stati disegnati prescindendo dallo sforzo di aggregare le vere gravitazioni.
Pensate voi che le altre Regioni siano messe meglio della Lombardia in materia di coesione e di progetti di equilibrato sviluppo?
Errore! Tutto il mondo è paese. Ce lo conferma un nostro caro amico e stimatissimo editorialista, già presidente del Consiglio di Stato (e molte altre importanti cose), Domenico Cacopardo che, in uno dei quotidiani contributi su Italia Oggi di Martedì 22 Marzo 2016, scrive, occhiello, titolo e sotto-titolo: “L'area vasta Modena-Reggio-Parma-Piacenza risponde alle esigenze egemoni -degli ex Pci- Liberarsi dal Kremlino bolognese - Molto meglio l'area vasta Parma-Piacenza-Cremona-Mantova”.
Da cui non è affatto difficile arguire che il sistema politico di controllo, anche nell'ottica regionale emiliana, è saldamente radicato nell'asse del capoluogo e tende, già a partire dagli azzonamenti, a predeterminare le proprie posizioni dominanti e quelle di marginalità.
Significativamente, queste seconde sono quelle dislocate lungo l'asse padano.
Al di là della colpevole cecità nei confronti delle ben più promettenti potenzialità di una Po-Valley, accreditata dal riconoscimento del suo ruolo trainante e corroborata da conseguenti politiche, la nomenklatura emiliana, come sta facendo la consorella lombarda, suggella definitivamente, con la definizione del nuovo ente intermedio, la griglia delle priorità.
Cacopardo, forse in omaggio alla sua fervida curiosità culturale, simula un'ipotesi suggestiva: l'area vasta del Po! Con un corollario di premesse e di suggestioni che la rendono più simile ad una Regione che ad un'area vasta.
Gliel'ho fatto presente personalmente, rievocando un precedente (sempre di studio) risalente, ahimé, a qualche decennio fa. Quando, in occasione di un meeting organizzato dal Sen. Fabio Fabbri a Parma, fui chiamato a rappresentare la lettura cremonese (anche nella veste di amministratore di Centro-padane, Azienda dei Porti Interni, consigliere dell'Intesa Interregionale dell'area padana e dell'Autostrada della Cisa, attorno all'ipotesi di un'area, che aveva i confini richiamati dall'articolo di Cacopardo ed estesi oltre l'Appennino, fino alla Lunigiana.
Si fa a meno di precisare che l'apprezzabile sforzo progettuale non ebbe, né nella prima né nella seconda repubblica, effetti pratici.
Probabilmente, anche queste riflessioni hanno come destino l'accantonamento nel deposito delle fantasie. Perché, deve essere ben chiaro, non c'è nulla di più definitivo ed incoercibile delle cose che si vogliono riformare.
Però, si sa mai. Se la leadership/premiership uscisse rafforzata dal referendum di ottobre, se la riforma delle istituzioni venisse definitivamente omologata, se la successiva tornata delle elezioni legislative rafforzasse la posizione di un Renzi, determinato, con il voler restare sul pezzo riformatore, a scrivere il proprio nome nei libri di storia, si sa mai, si riaprirebbe il dossier Regioni.
Vale a dire, da un lato, con il ritorno all'originario format di un istituto essenzialmente legislativo decentrato per materie precipue del territorio e, dall'altro, con la riformulazione degli attuali aggregati geo-amministrativi.
Se ne parla; quando si immagina a Nord-Ovest una macro-regione occidentale (Piemone, Valle d'Aosta, parte di Liguria) ed a Nord-Est una macro-regione del Triveneto (Veneto, Friuli-V.G., Trentino-Alto Adige). Analogamente scendendo al centro e a Sud, si potrebbero aggregare Emilia, Toscana, Marche ed Umbria.
Resterebbe la già di sé macroregione Lombarda, sforbiciata delle marche padane che si unirebbero alla conseguenza della sforbiciatura del ducato farnesiano/borbone, collaudato nella sua uniformità per tre secoli.
Come per le mele del Paronzini, di indimenticata memoria chiariana, si selezionerebbero spicchi coerenti per omogeneità ambientale, per uniformità infrastrutturale incardinata nell'asse del Po e della Via Emilia, per vocazione economica e, last but not least, per un formidabile patrimonio culturale espressione di tutte le muse.
Ci daranno, Caro Domenico, dei visionari e tireran innanz per la loro strada di proterva difesa di meschini interessi e di continuismo delle soluzioni conservatrici e scontate.
Arrendersi, accettando la sgradevole minestra dispensata dal convento?
Giammai! Come suggerirebbe il vate, osiamo l'inosabile, da hombre vertical: l'establishment, se non ascolterà un pensiero critico indotto dalla conoscenza delle realtà territoriali, faccia quel che crede.
Il discredito del ceto politico non potrebbe essere maggiore, così come il degrado e la confusione politica.
Amplificata da un'analisi incardinata esclusivamente nel presente e fatta di mere scansioni prepolitiche.
Le istituzioni locali, se chiamate ad esprimersi, si appellino ad una testimonianza ispirata alla disobbedienza civile.
La nostra qui espressa non è la risposta, ma una delle risposte possibili.
Ma, non ne vediamo molte altre potabili all'orizzonte.
In parole povere, rovesciare il tavolo di gioco quando stai perdendo la partita e sognare; perché se ti metti nella scia dei particolari, accrediti, al di là delle intenzioni, le ipotesi di partenza e sei fottuto.
Al peggio, ci saremo sottratti ad una deleteria corresponsabilità dagli effetti devastanti.
Molto dipende da noi, dalla nostra coesione e determinazione, dalla volontà degli Enti Locali di fare massa critica, dalle singole forze politiche, dal mondo delle imprese, dalle sue rappresentanze a fronte di un territorio che, prima di appellarsi all'importanza di perseguire partite infrastrutturali utili alla mobilità di una comunità, alla competitività dell'industria, allo sviluppo, deve sentire l'impulso della identificazione in un'idea di aggregato territoriale e civile.
e.v.
p.s. tra qualche giorno pubblicheremo un altro interessante contributo di Venturelli sui Comuni
La riforma costituzionale in dirittura d'arrivo di Virginio Venturelli
L'iter parlamentare della riforma costituzionale è quasi giunto alla conclusione; manca l'ultimo passaggio parlamentare alla Camera e dopo la consultazione referendaria confermativa, prevista nel prossimo autunno.
Il provvedimento noto per la prevista abolizione del Senato, prevede anche la “soppressione” delle Province, in ossequio a quanto anticipato dalla legge ordinaria 56/2014 (Del Rio)
Nel nuovo testo la parola “provincia” viene cancellata ovunque e si legge che “ La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato….”
Quanto sbandierato tuttavia, non è proprio vero visto il palese ripensamento sulla eliminazione delle Province, che nella stessa riforma si evince dalla indicazione di istituire un nuovo ente di area vasta che eserciti, di fatto, le funzioni già esercitate dalle Province.
Nulla di preciso viene detto sul mutamento delle circoscrizioni delle attuali Province, futuri nuovi enti di area vasta, né sulle funzioni di questi ambiti, né sui finanziamenti che dovrebbero disporre.
Insomma un cambiamento senza una visione d'insieme complessiva che rischia di tradursi in una contrapposizione di ruoli e di competenze generali.
In questo contesto, non ci rimane che sperare nella Regione Lombardia, affinché trovi la miglior sintesi possibile tra i compiti da assegnare alle aree vaste (pianificazione urbanistica sovraccomunale, gestione dei rifiuti e dell'ambiente, viabilità, trasporti ecc.) che non possono essere frammentati a livello comunale, né accentrati a livello regionale, ed il futuro assetto del territorio necessariamente da pensare in stretto collegamento con la parallela riorganizzazione dei propri servizi e di quelli decentrati dello Stato.
In altri termini oltre che puntare a far coincidere la maglia amministrativa a quella economica, sociale, infrastrutturale ed ambientale delle nuove vaste aree, alle stesse dovrebbero far capo anche:
- le Aziende sanitarie ed ospedaliere,
- le istituzioni scolastiche, i parchi territoriali,
- gli ambiti territoriali ottimali di erogazione di servizi pubblici (acque, energia, trasporti, rifiuti ),
- le amministrazioni funzionali dipendenti da Ministeri o enti del governo centrale (tribunali, intendenze di finanza, Camere di Commercio, sovrintendenze ai beni culturali e così via)
Nel confronto avviato con la Regione pertanto, è indispensabile che il nostro attuale ambito provinciale, si presenti in modo coordinato tra i soggetti istituzionali locali, riconoscente e valorizzante le oggettive ed articolate sensibilità territoriali esistenti.
In questo contesto, senza alcuna velleità, ma con analisi e ricognizioni oggettive, il Cremasco può e deve legittimamente porre sul tavolo le proprie aspettative e quindi, a mio avviso, chiedere:
-il riconoscimento della nostra zona come area omogenea, ai sensi dell'art 9 del vigente Statuto della Provincia Cremona, non chiusa entro il perimetro attuale, ma tesa ad una dimensione sovra-provinciale, aggregante altre comunità limitrofe;
-il sostegno dei Presidenti delle Province di Bergamo, Brescia, Mantova e Cremona, già sottoscrittori di un protocollo sulla gestione unitaria di diversi servizi a favore dei cittadini e delle imprese, al riconoscimento di un' area omogenea comprendente il territorio cremasco, i comuni bergamaschi e quelli lodigiani posti lungo il fiume Serio e Adda, ovvero interessati dalle stesse vie di comunicazione;
-l'inserimento del nostro territorio entro i confini della nuova area vasta bergamasca, in alternativa a quella ipotizzata dall'accorpamento tra Cremona-Mantova, mancante di ogni ragione geografica, storica, culturale, sociale ed economica, nonché all'ipotesi di far parte della città metropolitana di Milano.
Sull'argomento è tempo di proposte definite, di partecipare più decisamente alla costruzione del nostro futuro anziché passivamente attendere che altri decidano per noi, a tavolino, davanti ad una carta geografica.
Per quanto appena accennato credo sia giunto il tempo anche di ascoltare l'orientamento dei cittadini cremaschi, finora scarsamente coinvolti sul tema e sulle variegate prospettive.
A chi ha le maggiori responsabilità politiche ed amministrative nel riordino degli assetti in corso, suggerisco pertanto di non ignorare ulteriormente il parere del territorio, facilmente acquisibile anche tramite una organizzata, semplice ed economica consultazione on-line nei siti comunali e/o delle associazioni di categoria.