Il 12 ottobre 2014 può sin d'ora essere immaginato come una data destinata ad essere convenzionale: l'attuazione della regressione dell'ente intermedio provinciale da organo elettivo diretto ad organo elettivo di secondo livello.
Lo stesso procedimento (il ristretto parterre del voto passivo ed attivo) ha, per alcuni versi, innalzato le barricate per l'intangibilità delle modalità elettive del Senato.
Per la Provincia, come suggerirebbe Anatole France, les héros sont fatigués: né un uomo né un soldo (parafrasando il Filippo Turati non interventista) per la difesa delle prerogative elettive di un'istituzione che, per essere franchi, non è mai stata veramente nel sentimento degli italiani (più campanilisticamente municipale).
D'altro lato, il suo impianto ordinamentale è stato quanto di più mutevole si possa immaginare in uno scenario istituzionale che, già di suo, è stato ripetutamente costretto alle riconversioni indotte dai grandi cicli storico-politici.
Immutabile fu, invece, la sua collocazione nella gerarchia istituzionale: un livello sub-statale, intermedio rispetto all'unità di base del Comune.
Volendo dedicarci ad un breve excursus, segnaleremo appresso la filiera dei superiori atti legislativi donde discese nel tempo il profilo dell'istituzione intermedia:
Istituzione di chiaro rimando napoleonico, fu concepita, in connessione con l'avvio dell'intelaiatura istituzionale post-risorgimentale, a servizio di una evidente ispirazione centralistica.
Sotto il nome di deputazioni, in attuazione del decreto Rattazzi ed a seguito delle prime elezioni. le Province esordirono nel 1860. La sistemazione ordinamentale definitiva si ebbe con la legge 1865, che la definì come organo esecutivo del territorio provinciale e tutorio dei comuni e delle opere pie compresi nella circoscrizione territoriale. Erano, a riprova della loro discendenza da un disegno amministrativo prettamente centralistico, presiedute dal prefetto; prerogativa questa che sarebbe passata in carico ad un presidente elettivo a mente della legge 30 dicembre 1888 n. 5865 promossa dal governo Crispi.
Si sarebbe tornati, con il regime fascista, alla nomina autoritaria dei componenti (R.D. 30 dicembre 1923, n. 2939), prodromo della soppressione (legge 27 dicembre 1928, n. 2962).
Il livello amministrativo intermedio sarebbe stato ripristinato, alla caduta del regime totalitario, a seguito del R.D.L. 4 aprile 1944, n°11; che poneva in carico alla Prefettura, sentito il CLN, l'emanazione delle nomine.
L'opzione per la conferma come unico livello sub-statale avrebbe molto impegnato la Costituente divisa tra i sostenitori di una visione, come abbiamo detto, prevalentemente centralistica e i propugnatori, invece, di un livello sub-statale (le Regioni) dotato di prerogative legislative.
Come succederà frequentemente nella storia repubblicana, il compromesso sfociò nella statuizione di Regioni (entrate a regime dopo il 1970), Province (dal 1951) e Comuni.
Alle 20 Regioni (21 in realtà, se si considerano Trento e Bolzano), alle 110 Province, agli 8057 Comuni si sarebbe aggiunta una pletora, fomentatrice, specie dopo la soppressione della distinzione tra spese obbligatorie e spese facoltative ed i controlli di merito, di una incontrollata dilatazione dei centri spesa, di altri enti intermedi o sovracomunali (comunità montane, consorzi di bonifica, camere di commercio).
Sia pure di veloce passaggio, faremo menzione, nelle aberranti tendenze alla spesa ipertrofica, al caso paradigmatico della mostra dei dinosauri organizzata dalla Provincia di Cremona ed al non commendevole epilogo della struttura preposta alle manifestazioni, finita, come si sa, addirittura nelle aule penali.
Diciamo pure che i rumors questo ente intermedio se li è andati a cercare; anche se, andrebbe aggiunto, l'istituzione delle Regioni assestò il cosiddetto colpo di grazia.
La dispendiosità e l'inanità erano, profeticamente, denunciate in epoca non sospetta (inizio terzo millennio) da un significativo saggio del 2006 (I costi della politica) dell'addirittura capogruppo senatoriale PDS Cesare Salvi e del sodale sen. Massimo Villone, che indicava in 3 o 4 mld la risorsa bruciata dall'inutile e vorace ente.
In progressione con le conseguenze del rientro da standards di spesa pubblica e di debito statale da suicidio, avrebbe preso consistenza e velocità l'individuazione del capro espiatorio.
L'incoercibile attitudine consociativa del teatrino politico, durata ampiamente anche nella seconda Repubblica, sarebbe arrivata al redde rationem alla fine del 2011; quando sull'orlo del baratro, non si sarebbe più potuto recalcitrare di fronte sia alle medicine indicate dalla tecnocrazia continentale sia all'autonoma resipiscenza.
Il bisturi della spending revew, reso incerto dalla difficoltà ad opporsi alla pressione concentrica degli interessi precostituiti e refrattari a qualsiasi ridimensionamento, fatica, come dimostrano le cronache, ad affondare dove in realtà dovrebbe. E con la determinazione che la situazione cachettica pretenderebbe.
Iniziando un percorso, non esattamente privo di mende, il nuovo corso governativo approvava, il 3 aprile 2014, (dopo che il precedente Governo Monti ne aveva ipotizzato un accorpamento) la riforma delle province che restano organo di secondo grado, ma non elettivo. Il ciclo elettivo delle province, iniziato col commissariamento, chiuderà definitivamente il 31 dicembre 2014. La riforma andrà così a regime col 1 gennaio 2015. Su questi aspetti azzardiamo qualche chiosa.
È stato abolito per davvero il suffragio universale per eleggerne gli organi. Presidente e Consiglio provinciali verranno scelti solo da sindaci e consiglieri comunali. I quali, però, elettori uguali non sono. Infatti, il comma 33 dell'art. 1 della stessa L. 56/14 inventa la divisione dei Comuni in ben nove fasce demografiche con un meccanismo di attribuzione ai consiglieri comunali di un peso elettorale molto differenziato!
Per approvare lo Statuto e, soprattutto, i bilanci basteranno solo “i voti che rappresentino almeno un terzo dei comuni compresi nella provincia e la maggioranza della popolazione complessivamente residente” Di conseguenza visto che in Italia, nei Comuni con più di 10.000 abitanti risiede il 54,8% della popolazione, significa che quelli con popolazione inferiore ai 5000 abitanti (circa il 70%) saranno irrilevanti nella approvazione dei futuri ordinamenti statutari e finanziamenti dei servizi provinciali.
Le nuove Province di cui alla Legge 7 aprile 2014, n. 56, contrariamente a quanto si tende ad equivocare, esisteranno ancora mantenendo gran parte delle funzioni (pianificazione territoriale, tutela dell'ambiente, trasporti provinciali, costruzione e gestione di strade d'area, programmazione ed edilizia scolastiche, controlli in ambito occupazionale); mentre alcune altre andranno in capo ai Comuni o alle Regioni (con l'eccezione le Province Autonome di Trento e Bolzano, che di fatto sono Regioni autonome camuffate)..
Come osserva opportunamente una scheda di approfondimento del PD cremonese, la Legge 56 apre, almeno così speriamo noi, le premesse per impegnativo ripensamento dell'intelaiatura dell'amministrazione periferica dello Stato; partendo dall'istituzione (sia pure con 25 anni di ritardo) delle città metropolitane, dell'avvio degli enti di “area vasta”, della spinta (con le buone o con le cattive) alle aggregazioni comunali, passando, come sostiene il documento, attraverso le Unioni, la cooperazione comunale e l'intercomunalità.
Può bastare tutto questo? Decisamente no!
Anzi, la scadenza del 1 gennaio 2015 deve costituire l'occasione per ripensare soprattutto la risagomatura della fallimentarissima istituzione regionale.
Ma, in controtendenza con tale pacifica conclusione, la Legge 56 prevede, come abbiamo più sopra anticipato, una ulteriore devoluzione di competenze alle Regioni. Agli enti, cioè, come sostiene l'editorialista di Italia Oggi, Domenico Cacopardo, che sono stati e sono protagonisti della dissipazione nazionale, incapaci di recepire le esigenze di austerità che percorrono la penisola. Centri di spesa che, spesso, operano in conflitto con le esigenze della politica economica nazionale.
E l'intervento costituzionale sul titolo V, che indica l'orizzonte politico delle regioni, è insufficiente, ancora una volta facciata non sostanza”
Sia come sia, domenica 12 ottobre le urne, ancorché prerogativa di eletti, si apriranno per eleggere 12 consiglieri provinciali più il Presidente.
Benché ammaccato e ridimensionato, l'Ente intermedio si rimetterà in marcia; partendo da una specificità territoriale, la nostra, decisamente complicata: 115 Comuni con una popolazione complessiva di poco più di 300.000 abitanti, che insistono su un budello lungo oltre 100 km privo di profondità e su asset gravitazionali centrifughi oltre i confini attuali.
Conclusioni: non vorremmo che la legge 56 costituisse l'offa con cui tacitare la canea che abbaia (non ingiustamente) contro la casta.
La sua attuazione potrebbe innescare un processo virtuoso; purché, specie in scenari politico-amministrativi (come la Lombardia), non finisca per alimentare quel perdurante bieco centralismo, che ha emarginato ulteriormente i territori periferici ed irrilevanti come il nostro.
Volenti o nolenti ci si dovrà incamminare verso snodi che non consento gli alibi triti e ritriti del passato (specie quello dello strabismo di appartenenza territoriale).
Dal punto di vista della coesione dell'aggregato territoriale, consegnato dal ciclo sabaudo e ribadito dalle ere politiche successive, la provincia di Cremona è una sorta di Frankestein risultante dall'assemblaggio di pezzi, messi sul tavolo per soddisfare prevalentemente meri standards di superficie e di popolazione.
Nei 150 anni ed oltre, che ci separano dall'esordio, tutto si può dire tranne che la Provincia abbia interpretato quella voglia di comunità, analizzata da Zygmunt Bauman.
Soprattutto la nostra; caratterizzata da mandamenti periferici tenacemente ancorati alla sensazione di essere un po' appiccicati al capoluogo: il cremasco, sempre alla ricerca di un'egemonia discendente da futuribili quanto improbabili raggruppamenti da laboratorio politico, l'area Oglio/Po in uno stand by di prevalente gravitazione esterna, il cremonese situato sull'asta padana, forse l'unico a segnalare una certa coesione.
Con tutte le contraddizioni ed i limiti evidenziati, il mantra riformatore della nuova premiership sembra voler mettere in discussione molte cose nei modelli di governo e di amministrazione.
Molte categorie concettuali ispirate all'immutabilità ed alla paralisi dovranno pur andare (beneficamente) in soffitta.
Andando in mare aperto, lo sforzo riformatore dovrà fare giustizia di alcune confusioni, come l'identificazione dei concetti di comunità condivisa e di società territoriale incardinata prevalentemente dalla sovrastruttura amministrativa.
Se la mission è riformare per innovare ed ottimizzare spesa pubblica e servizi, allora, allora è lecito pensare che l'area vasta possa incorporare anche definire nuovi e diversi requisiti di omogeneità territoriale, su cui fondare un efficiente modello di raccordo e di rappresentanza degli interessi e delle vocazioni locali.
Nel nostro scenario non è difficile individuare nella padanità il minimo comune multiplo di coesione. Un parametro che potrebbe dar luogo a scorpori (per le realtà zonali a vocazione differenziata) e a processi aggregativi con realtà attualmente incapsulate in format incongruenti.
Sotto tale profilo non possiamo non segnalare gli spunti innovativi contenuti in una intervista recentemente rilasciata dall'Assessore del Comune di Cremona (con delega all'area vasta), Andrea Virgilio. La sua riflessione parte dall'ovvia considerazione che il Comune Capoluogo non può che costituire l'epicentro di un modello in grado di fornire asset di condivisione dei servizi, ma anche di ottimizzazione degli elementi gravitazionali.
La nuova governance comunale mostra di avere le idee chiare anche sulla volontà di alzare le sguardo per rendere in prospettiva l'ambito territoriale del riformato ente intermedio veramente vasto.
I contatti settoriali (salvaguardia dell'ambiente, navigabilità interna e quant'altro entrato nell'agenda dei primi 100 giorni) sono qui a dimostrare la profondità della nostra tendenziale area vasta: il bacino padano!
Ultimo ma non ultimo, la riforma deve anche servire ad innescare un virtuoso processo di accorpamento del reticolo troppo frammentato (e quindi costoso ed improduttivo, nonostante la dedizione civile del ceto politico locale) dei Comuni.
Con questo spirito analitico L'Eco del Popolo apre un confronto sul tema, pubblicando il contributo di Virginio Venturelli, impegnato per molti anni come Sindaco del Comune di Madignano e nei consessi intercomunali.
A cura de L'Eco dossier Area vasta, Cremona 28 agosto 2014
Copertina: foto piccola di Virginio Venturelli e Andrea Virgilio
1° Allegato: Ulteriore nota Tecnica legge 56
1° Allegato: Una nuova fase per l'ente intermedio di Virginio Venturelli