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A quasi 100 anni dalla nascita di Mario Lodi

Cipì: un rivoluzionario libretto destinato a dischiudere frontiere innovative nelle coscienze civili, nella cultura e nella scienza pedagogica

  21/02/2021

Di Redazione

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L'allocation nella rubrica L'Eco Libri della maggiore o se non altro della più nota e celebrata opera è decisamente un pretesto per una rivisitazione, a quasi 100 anni dalla nascita, a tutto tondo dell'ampio profilo di Mario Lodi. Se ne appresta un programma celebrativo per la ricorrenza. E questa è un'ottima notizia. Che inserisce una nota feconda nell'intelaiatura di un contesto che, dal punto di vista delle correlazioni con la vasta testimonianza, professionale, intellettuale, civile del “maestro” di Piadena, sta mostrando preoccupanti crepe; soprattutto, nel campo della tenuta nel campo educativo. 

Ricordare (fedelmente e per intero) la sua lezione è conveniente non solo per rinsaldare il senso di orgoglio del rango dell'apporto culturale del territorio, bensì per orientare le consapevolezze e gli sforzi per la risalita civile dai pericoli ormai manifesti dell'avvitamento di un downgrade, suscettibile di coinvolgere il tasso di acculturazione e di coesione civile. 

Mutatis mutandis, partiva da questo nocciolo la motivazione della testimonianza del grande e riconosciuto educatore: fare, in un tempo in cui l'elevazione della scolarizzazione e dell'acculturazione era prerogativa selettiva e disgiunta dai cardini della inclusione comunitaria, della scuola la fucina dei nuovi cittadini plasmati dallo sforzo emancipativo/evolutivo della Repubblica e della Costituzione. 

Non casualmente la prima traccia di pubblica testimonianza si riscontra in un articolo di Mario Lodi apparso su L'Eco del Popolo nell'edizione n° 128/47 sotto il titolo “Viva i coscritti”. 

Un articolo che appare, anche a distanza di tre quarti di secolo, per quello che è, cioè un contributo alle edizioni/forum che la testata bissolatiana e la federazione socialista avevano promosso sul terreno della ricerca delle linee strategiche su cui fondare la strategia costituente. 

Diciamo che tra la molta carne al fuoco per la messa a punto di un aggregato che fosse coerente con il mandato morale della Resistenza e della Liberazione e con l'anelito di scalare le vette di una profonda palingenesi nazionale, emerse, unitamente alla forma dell'ordinamento, all'impronta dei diritti civili inalienabili, al prioritario valore emblematico del lavoro, la questione del diritto/dovere della difesa della Patria. Stricto sensu, dell'Esercito e degli obblighi del cittadino verso di esso. A dare il la a questo versante della campagna costituente era stato, già a partire da metà 1946, il direttore della testata, Emilio Zanoni. 

In un suo “Contro la leva obbligatoria” del 10 maggio 1947, denotava una forte carica antimilitaristica:

Si direbbe che il governo s'interessi dei problemi della gioventù solo per liquidare le speranze e le aspirazioni che furono anche motivi e rivendicazioni della resistenza. 

È probabile che il ministro repubblicano della guerra stia ancor oggi meditando intorno alle ragioni ‘tecnichè che impongono la chiamata alle armi, la ferma e la sua durata. 

Non è da escludersi che anche gli altri ministri ed i deputati, che per caso si interessassero della questione, siano pronti ad inchinarsi alla ‘ragion di statò che impone il permanere dell'esercito e la leva obbligatoria. 

A che servono dunque 200.000 giovani sottratti al lavoro e allo studio per 18 e anche per 12 mesi? A salvaguardare l'ordine pubblico?

Musica per gli orecchi questo incipit di una campagna attorno ad un tema, ben presente nelle masse e soprattutto nei giovani che erano stati a contatto con la tragedia della guerra e che non avrebbe tollerato un altro coinvolgimento. 

Significativamente, uno di loro, Mario Lodi di Piadena, scriveva, sul filo dell'ironia e della denuncia, e della dissacrazione di un evento che atavicamente segnava il ‘debuttò festoso di giovani vite in attesa di un reclutamento, preludio di tragedie, sul n° 128/47 “Viva i coscritti “: 

(Ora che la ‘festà della coscrizione è terminata, e le vie del nostro paese non presentano più lo spettacolo edificante di gruppi di briachi su carri infiorati, lasciateci dire quel che abbiam dentro, lasciateci parlare senza che ci accusino di anti-italianità) 

Fra le manifestazioni tradizionali della nostra provincia, la ‘festà della coscrizione è senza dubbio la più inconsapevole dimostrazione di vacuità politica e morale degli individui che raggiungono sulla carta l'età maschia e nello spirito ancora aleggia l'infanzia diseducata. 

‘Festà che in nessuno suscita vera allegrezza, neanche nei partecipanti, spinti a quella euforia triviale e carnascialesca dell'alcole che, signore di essa, ne aumenta o ne diminuisce l'intensità e le grida a seconda. 

Nelle campagne i coscritti usano uscire su un carro, andare in su e in giù con grandi bandiere, ed urla e versacci; usano fare una bella mangiata, usano, per colpire il patriottico quadro, finire nel ballo i residuati delle energie avvilite dai disordini precedenti. 

Nella bella e alta manifestazione c'è sempre qualcuno poi che invita la compagnia ad entrare compatta nella casa di tolleranza. 

E si ride, poiché si è sempre fatto così nelle migliori coscrizioni, poiché è naturale, vedendo negli occhi finora puri o assenti di qualcuno accendersi la voluttà carnale che da quel momento potrebbe anche decidere di tutto il corso di una vita. 

Anche i migliori vi si adattano, per non essere tacciati di rogne o di peggio: vanno sul carro, devono tanto vino, vomitano, portano il berrettino tricolore ed entrano nei bordelli. 

Le madri non sanno tutto ciò; la madre forse non lo vuol sapere: son vent'anni che il suo ragazzo è rimasto con lei e tutta la casa ne fu piena, oggi è il suo giorno, oggi è ‘uomò, che se la goda la compagnia, che beva, che schiamazzi e che il vino e il ballo lo aiutino a dimenticare. 

Giunta al suo culmine, la ‘festà si chiude: nei cassettoni troverà posto umile il berretto tricolore e sulle mura del paese resteranno negli anni morti come coloro che li idearono, le scritte e i simboli che sono tutti un evviva. 

Ma sovra tutto ci un pensiero sconcertante s'insinua in noi estranei, in noi scettici: va bene la festa col banchetto (è così consolante il ritrovarsi, tutti d'una età, compagni di scuola e di lavoro, a rammentare un tratto della via percorsa e a sperare, purtroppo, nell'avvenire), ma il giorno in cui si è giudicati da una commissione militare che ci considera un numero, è troppo palesemente una dimostrazione di infinita sciocchezza. 

È una tradizione che deriva da lontano, da un'amarezza addolcita ad arte, da una libertà soffocata elegantemente, da una forza occulta nemica dei giovani che si rende buona, mansueta schiamazzante nel giorno che essi sarebbero giustamente pensosi: la guerra. 

E fintantoché i giovani di oggi non si ribellano anche in questa esteriorità della guerra, saranno banderuole senza voce e senza cuore, e più tardi saranno padri brontoloni e cornuti e più ancora moriranno vecchi bacucchi. 

Noi ci auguriamo il giorno in cui, al compiersi dell'età maggiore, i giovani di una stessa classe si troveranno e godranno serenamente una giornata in compagnia, brindando al loro avvenire pacifico e laborioso, ma fuori della coscrizione, a cui andranno, se sarà necessario andare, come ad una cosa dura ed avversa. 

Noi li benediremo, a nome della madre dei morti che cantarono inconsciamente in tal giorno, se si recheranno là taciturni, isolati, rabbiosi. Magari fra due carabinieri.

Tale sarebbe stato l'esordio del maestro di Piadena nel campo della testimonianza civile, che, per noi, coincide con una più ampia messo fuoco di una personalità sul piano della percezione, forse un po' sacrificata al timbro limitativo di educatore e di pedagogista. Ruoli in cui ha comunque contribuito a dischiudere orizzonti innovativi di valore indiscusso. 

Pur restando sempre ancorato ad una visione e ad una matrice molto più ampie, che traevano linfa da un anelito idealistico di trasformazione della società. 

Del che si hanno riscontri nel prosieguo professionale, culturale e politico; i cui perni affondano, come abbiamo già considerato, nell'humus della radicata consapevolezza giovanile capace di correlare l'impegno pedagogico per una scuola nuova al retroterra rappresentato dal progetto per una società democratica e giusta. 

Come tutti gli insegnanti elementari “impegnati” (si diceva un tempo per qualificare un idealismo non “sacrificato”) la gavetta di Lodi si srotola in percorsi convergenti. 

I primi incarichi “itineranti” nei plessi gravitanti sul paese di residenza e le prime testimonianze nell'agone politico, nel campo della sinistra e nelle file del Partito Socialista. 

Nel 1948 aderisce a Piadena al Fronte della gioventù per l'indipendenza nazionale e per la libertà. Nell'ambito del quale organizza le prime attività libere: un giornale aperto a tutti, il teatro, le mostre dell'artigianato locale, una scuola professionale gestita con docenti volontari.  

Sarà l'alfa di un interrotto percorso, che porterà ad una intensa attività di esperienze, incontri, dibattiti, seminari nell'ambito del Movimento di Cooperazione Educativa

Attività molto feconde per un'impostazione pedagogica nuova e alternativa alla scuola trasmissiva di nozioni: il testo libero, il calcolo vivente, le attività espressive, la ricerca sul campo, la corrispondenza interscolastica, la stampa a scuola, la scrittura individuale di storie e di veri e propri libri. Settore che diventerà elettivo, fino a produrre una serie impressionante di opere (di cui diamo conto con una scheda analitica allegata in pdf). 

Non meno impegnativo sarebbe stato il versante dedicato alle attività extrascolastiche, come la Biblioteca Popolare della Cooperativa di Consumo nella quale introduce la tecnica della stampa e pubblica i Quaderni di Piadena, documenti sulla ricerca sui vari problemi sociali realizzati dagli stessi giovani soci. All'interno della Biblioteca Popolare, nel 1957, si costituisce il Gruppo Padano per la ricerca dei documenti dell'espressività popolare in ogni sua forma tra i quali i canti popolari e i burattini. Il Gruppo Padano parteciperà poi a spettacoli a livello nazionale come Bella Ciao di Crivelli (presentato al festival di Spoleto nel 1967) e Ci ragiono e canto di Dario Fo.  

Per quanto sia difficile sfuggire alla tentazione di prenderla larga, concludiamo qui la rivisitazione di Mario Lodi. Anche perché siamo certi che il programma del Centenario della nascita offrirà spunti per ulteriori approfondimenti. 

Concludiamo sulla nota che ha reso emblematico il, ripetiamo, vastissimo contributo di Mario Lodi; che resta racchiuso nell'opera più diffusa, oseremmo dire, simbolica. “Cipì”, appunto, che lo proietterà in una dimensione di celebrità nazionale ed internazionale. 

Forse ce n'era la percezione nella riflessione dello sconosciuto estensore della recensione apparsa su L'Eco del Popolo, che negli anni successivi avrebbe fatto endorsement per un altro astro nascente della pedagogia innovativa e progressista, Gianni Rodari.

Come dono dell'anno nuovo ci viene da Cipì di Mario Lodi un'ottima compensazione al vuoto educativo di tanta letteratura infantile da quattro soldo (alludendo al prezzo morale), che nonostante le mirabili illustrazioni, non riesce a vincere la diffidenza che abbiamo per la maggior parte di questi lavori fatti su ordinazione e che risentono delle interessate sollecitazioni del mercato. 

Per questo i libri sopra citati sono privi d'arte ed interesse mentre pochi hanno voce così fievole che non si riesce a percepire il messaggio attraverso la pesante scorza della mentalità convenzionale. Fin dalle prime battute del volume del Lodi si avverte che qualcosa di nuovo e di coraggioso sta per verificarsi nella comunità dei passeri. “Io voglio vedere….cipi…cipi…io voglio andar fuori da questo buco”. E voler vedere significa voler educarsi. Il primo impegno dell'autore è decisamente risolto: l'interesse del lettore, piccolo o grande che sia, è suscitato. Chiuso il libro ci si rammarica per la sua brevità, ma la mente ed il cuore sono rimasti arricchiti, l'invito “ad aprire bene gli occhi, per distinguere il vero dal falso” è stato accolto e alla fine ci si trova impegnati con coraggio sulla via della verità, unico varco alle ampiezze della libertà per tutti. 

È un assunto veramente gravoso quello di Cipì e il maestro Mario Lodi lo risolve con la responsabilità che gli è propria in un deciso atto di educazione, che è anche genuino atto di poesia, poiché da questa i materiali valori di sentimento prendono luce

P.s.: Il libro edito dall'Universale Ragazzi è in vendita presso la Libreria Lorenzelli al prezzo di copertina di Lire 600.

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