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Spadolini, 30 anni dopo

  07/08/2024

Di Redazione

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Trenta anni fa, il 4 agosto 1994, moriva Giovanni Spadolini, il grande laico, eppure così rispettoso e profondamente intriso di sentimento religioso: quella “religione del dubbio”, nella quale intravedeva l'essenza stessa della laicità, che non significa certo astenersi dalle scelte.

La sua idea di laicità era dunque un'idea che esprime i limiti della condizione umana, ma anche la grandezza della sfida continua cui essa è chiamata. Per Spadolini quella via era trovare una strada per comporre le diversità, nella consapevolezza che il percorso è spesso stretto e difficile, ma che il confronto aperto, sereno ed equilibrato, resta sempre il modo più efficace per percorrerlo fino in fondo. Nella semplice scritta sula sua tomba – “un italiano” – si racchiude il significato di un'esistenza spesa con dedizione a servizio della collettività, che per Giovanni Spadolini era prima di tutto la comunità della nostra Italia.

In fondo, è questo il senso di tutto il suo impegno politico e intellettuale: l'Italia come insieme di campanili che arricchiscono l'essere comunità nazionale e non come elementi di divisione; dunque come cemento identitario di quel tessuto unitario, tanto faticosamente e dolorosamente costruito col nostro Risorgimento, epoca della quale fu sempre profondo studioso e magistrale interprete in chiave di attualizzazione. Anche per questo occorre opporsi ai tentativi di disgregazione come la legge Calderoli sull'autonomia differenziata rappresenta e come il premierato suggellerebbe.

Giovanni Spadolini, che si era caricato sulle spalle il PRI orfano di Ugo La Malfa, è stato protagonista della vita politica italiana in un momento particolarmente difficile e complesso della nostra storia del dopoguerra. Non a caso il Presidente Pertini, nel giugno del 1981, in uno dei momenti più difficili della nostra giovane Repubblica, dopo le inquietanti vicende di Gelli e la P2, lo incaricò di formare il governo e lui, con la grandezza intellettuale, la fermezza nei principi e l'integrità morale, riuscì nell'intento, diventando così il primo Presidente del Consiglio non democristiano della storia repubblicana e lasciando un segno indelebile nella storia dei governi del Paese.

Un protagonista assoluto della sua epoca che attraversò con la sua grandezza intellettuale e culturale e con l'orgoglio di appartenere a quella illuminata Italia di minoranza, laica e civile, “l'Italia della ragione “in cui si erano sempre identificati tanti degli uomini che avevano contribuito a determinare il progresso politico, sociale, economico e culturale del nostro Paese.

“Noi apparteniamo all'Italia dei vinti. Quella delle minoranze laiche e risorgimentali.” Anche se in quel suo detto c'era la precisa consapevolezza che quella era l'Italia di chi non aveva mai perso perché era l'Italia erede, custode e continuatrice di quei valori che l'avevano costruita nel suo percorso unitario, democratico e repubblicano. Così come in lui era altrettanto chiara consapevolezza di appartenere al novero della sinistra liberaldemocratica europea:

“È Repubblicano chi crede in un'idea alta e severa dell'Italia laica, l'Italia della ragione nella quale il senso del problemismo e del concretismo mai si separa dal senso del limite e della misura. È l'Italia moderna, capace di affermare la prevalenza del politico sul sociale sempre, contro ogni populismo e ogni fuga nel messianesimo e nell'utopia. E proprio perché espressioni come destra o sinistra sono soggette a variazioni, noi non abbiamo mai chiamato il PRI partito di sinistra tout court, ma sempre partito di sinistra democratica”.

Il suo essere uomo della mediazione, sempre pronto a stemperare i contrasti in nome di un interesse superiore, non gli impedì mai di essere intransigente sui principi e di puntare i piedi quando si trattava di mettere a rischio quelli che definiva “gli interessi indisponibili del Paese”: l'Europeismo, l'Atlantismo e la difesa dello stato di Israele come baluardo dell'occidente.

Anche per questo, con la sua ferma lucidità, mostrò di aver compreso molto meglio rispetto ad altri, e soprattutto con grande anticipo rispetto a tutti, quale minaccia fosse il terrorismo mediorientale. Il suo forte senso dello Stato e l'amore per le istituzioni repubblicane ne facevano uno dei più autorevoli difensori della Carta costituzionale, scudo laico a difesa di tutti e non privilegio di pochi. Il resto lo faceva la sua profonda consapevolezza, alimentata dagli studi storici, che la Libertà non può mai essere data per scontata e richiede una continua vigilanza fondata sull'etica e sulla responsabilità istituzionale che passa dal rispetto delle minoranze, del ruolo dei poteri costituzionali e, non da ultimo, del ruolo dell'informazione che in una repubblica non può essere mai asservita al potere.

Una concezione che oggi pare lontanissima dai modi della politica attuale, ma che invece andrebbe recuperata prima che la degenerazione in atto raggiunga livelli irreversibili di barbarie politica, culturale e sociale. Per questo ricordarne la vita e l'opera non è solo un atto dovuto ma il modo migliore per indicare una via ai tanti problemi dell'Italia di oggi e dell'Europa di domani.

Eugenio Fusignani, Vice sindaco Ravenna, Segretario regionale Emilia Romagna, Membro segreteria nazionale
Eugenio Fusignani, Vice sindaco Ravenna, Segretario regionale Emilia Romagna, Membro segreteria nazionale

L'anniversario era “puntato” e non sarebbe stato tenuto in non cale. Cionondimeno ringraziamo Matteo Bettini che ci ha messo in contatto con l'autore del profilo sopra riportato. A maggior ragione, per i tempi correnti in cui si fa strame del filone della cultura e della testimonianza laica e liberaldemocratica, vien d'uopo non perdere di vista ricorrenze come questa. Il cui significato appartiene a tutta la democrazia; in particolare, come si diceva, al segmento moderato-riformista che tanti meriti ha acquisito nell'ultimo secolo di storia patria.

Poiché, come si diceva, non abbiamo mai perso di vista figure come quella del Sen. Spadolini, dieci anni fa la nostra testata aveva dedicato un intero focus in occasione del 20° con un editoriale e, soprattutto, con un profilo tracciato dalla Professoressa Ada Ferrari.

Giovanni Spadolini rievocato nel 20° della scomparsa e nel 90° della nascita da L'Eco del Popolo

Eh sì, senza che ce ne fossimo accorti, se ne sono andati vent'anni; da quando, il 4 agosto del 1994, una delle più significative figure della vita istituzionale e culturale, Giovanni Spadolini, chiudeva un'esistenza contraddistinta da una testimonianza che merita ancora di essere rievocata. Qualche mese addietro la ricorrenza della scomparsa venne solennemente celebrata nell'aula del Senato, di cui fu prestigioso Presidente.

Ma, si sa, eventi, sia pure significativi, come quello, per quanto fecondi di ricadute nelle attenzioni mediatiche, sono malinconicamente destinati a non superare le 24 ore dell'esposizione mediatica della ricorrenza.

Mentre, a nostro modestissimo avviso, il profilo di Spadolini è degno, per gli spunti e gli insegnamenti che ne possono durevolmente derivare, specie in contesti un po' così come gli attuali, di ulteriori rivisitazioni. A patto, però, di evitare scivolamenti nella retorica e nella ritualità dei ricordi.

D'altro lato, la testata fondata nel gennaio del 1889 da Leonida Bissolati ha sempre prospettato, con la testimonianza mazzinian-repubblicana, di cui Spadolini e La Malfa furono tra i più alti esponenti, una contiguità ben più rilevante di quanto gli sviluppi partitici potrebbero, ingannevolmente, indurre.

Senza, tuttavia, che la consapevolezza della ricorrenza induca a controfattuali embrassons nous, è difficile resistere all'impulso, una volta enucleato nitidamente il profilo di Spadolini ed il senso del pensiero repubblicano, di evidenziare, più delle discordanze, le assonanze tra questo ed il pensiero del socialismo italiano.

L'incipit della divaricazione tra l'elaborazione mazziniana e la sistemazione teorica data ai fondamenti del socialismo non risiede, a parere di chi scrive, nel nucleo rappresentato dai valori e dai principi di uguaglianza e di libertà e di laicità dello Stato; bensì nell'opzione tattica, fortemente influenzata dalle contaminazioni con i fermenti in corso a più vasto raggio.

Richiamandoci ad Arturo Colombo, osserveremo che, mentre i socialisti insistevano per la via rivoluzionaria alla conquista del potere, Mazzini (“Pensieri sulla democrazia in Europa” - 1846-47) postulava di coinvolgere in un governo realmente democratico la totalità dei cittadini; senza distinzione di sesso, di censo o di religione (Repubblica Romana).

In ciò risiede la cesura, destinata vieppiù a divaricarsi nel 900, fra chi sulla scia di Mazzini, di Mills ed altri cercherà di estendere il sistema liberaldemocratico e chi, invece, inseguendo Marx ed Engels, pretenderà di imporre il regime delle cosiddette democrazie “popolari” o socialiste.

Fatto questo che non impedirà l'impulso a non perdersi mai di vista e, anche nelle contrapposizioni contingenti, a guardare in profondità, come nei cicli della Resistenza, della Liberazione, della Repubblica, a rinserrare le file e a combattere dalla stessa parte.

La mannaia dei due blocchi contrapposti avrebbe nuovamente distanziato il senso di marcia di movimenti; che, pur inscatolati in format apparentemente inconciliabili, non avrebbe arrestato la testimonianza di valori e di progetti, su cui i margini di condivisione restavano elevati.

Non a caso, all'approssimarsi delle prime crepe nella blindatura dei blocchi contrapposti, i rapporti andarono rinsaldandosi in vista di convergenze suscettibili di snodi di rilevanza parlamentare e governativa.

D'altro lato, per come le cose erano delineate nel codice genetico del sistema politico italiano e per come le tendenze andarono delineandosi già a partire dal traguardo dell'istituzione repubblicana (teoricamente, l'apoteosi per i suoi coerenti propugnatori) laici, repubblicani e socialisti, che, nel resto del sistema liberal-democratico occidentale, ne erano protagonisti, in Italia sarebbero stati relegati, se non proprio nella marginalità, sicuramente nei ranghi cadetti.

A dispetto e in contrasto, si ribadisce, con il contributo fortemente progettuale ed innovativo fornito dai due grandi leaders, Pietro Nenni e Ugo La Malfa, all'inizio degli anni sessanta; quando si riuscì ad intravvedere le condizioni per mettere l'Italia al passo con gli standards di modernizzazione in corso in Occidente e, soprattutto, in Europa.

Il nucleo più importante, se è permessa una valutazione soggettiva, di questa condivisione risiedeva nella volontà di collegare il perseguimento della maggiore giustizia sociale e dell'innovazione del sistema produttivo alle riforme di struttura, perseguibili con la programmazione.

Ne sarebbe sortita una stagione, purtroppo breve e tormentata, ma eccezionalmente feconda di riforme.

Alla stagione dei due storici padri laici della Repubblica sarebbe subentrata la leva dei loro delfini: Craxi ed, appunto, Spadolini. Dal profilo soggettivo, senza ombra di dubbio, incomparabile; ma entrambi continuatori della visione laica e dello slancio modernizzatore.

A dispetto degli assetti ponderali sedimentati nei decenni ad opera dei collateralismi e delle obbedienze internazionali, la centralità dell'apporto politico del polo laico-socialista sarebbe stata oggetto, a partire dall'insediamento della presidenza Pertini, di un moto di reviviscenza.

Spadolini, come ricorda efficacemente il contributo della Prof. Ferrari, sarebbe stato il primo premier laico; più che non democristiano, come una certa vulgata tende a definire.

Avrebbe aperto la strada sia ad un'altra significativa novità: un primo premier socialista.

Sia, soprattutto, ad una seconda stagione, dopo quella fortemente innovativa di La Malfa e Nenni, ispirata dall'imperativo di sbloccare il sistema politico-istituzionale dai condizionamenti e dai ritardi ed il sistema socio-economico dalle congenite arretratezze.

Come è andata a finire lo sappiamo tutti. Il morto (la balena bianca e l'afflitto da fattore k) ha sotterrato il vivo.

Parafrasando Hobsbawm (Secolo breve): Non sapevano dove stavano andando. Il futuro diventava un tunnel dove si entrava nel buio, senza sapere dove ciò avrebbe portato.

Ecco perché può far bene alla coscienza civile ripercorrere il senso della testimonianza del Sen. Giovanni Spadolini, quale è tracciata dalla prof. Ada Ferrari.

e.v.

Giovanni Spadolini, padre e amico di un'Italia ingrata, di Ada Ferrari

I vent'anni dalla scomparsa di Giovanni Spadolini, ci lasciò il 4 agosto del 1994, sono scivolati via in un Paese ripiegato su se stesso, nella morsa di una crisi che è sì economica e politica, ma principalmente affonda le sue radici in un disorientamento culturale e morale di proporzioni drammaticamente vaste. Spadolini era nato a Firenze nel 1925 da una famiglia di quella solida borghesia colta che nell'antica capitale del Rinascimento continuava a respirare ed esprimere una cultura raffinata, cosmopolita e insieme orgogliosamente italiana, liberale e laica ma mai banalmente anticlericale o materialistica.

Alle soglie dell'adolescenza il destino appariva già segnato nel bambino che con amorosa avidità trascorreva ore nella ricchissima biblioteca paterna cercandovi non astratta erudizione ma testimonianze -e ragioni di continuità- con quell' Italia risorgimentale dai forti convincimenti patriottici e democratici di cui egli stesso sarebbe stato in seguito fra gli ultimi e più alti eredi. C è una specie di napoleonica fulmineità nella prima parte della biografia di Spadolini, una stupefacente capacità di attingere il traguardo finale saltando le tappe intermedie, quasi perdite di tempo in un progetto di vita tanto operoso e ambizioso da non concedere rallentamenti di sorta. A venticinque l anni occupava la cattedra di professore ordinario di Storia contemporanea all'Ateneo fiorentino senza un giorno da 'reggi-borsa' cioè assistente. Con "Il papato socialista", pubblicato nel 1950, esordiva nel panorama storiografico in posizione di prima grandezza per un taglio interpretativo che, unendo rigore scientifico e suggestione attualizzante, puntava a scorgere nel rapporto fra le due rive del Tevere, la laica e l'ecclesiastica, i prodromi storici di un dialogo fra stato e chiesa fecondo per la pacificazione civile e la complessiva crescita del nostro Paese.

Nel 1955 diventava direttore de “Il Resto del Carlino" senza esserne stato redattore, facendosi perdonare la giovane età grazie a un talento innato che ne trasformava la cultura personale in esperienza acquisita: facoltà e dono concesso a pochissimi. Il suo stile autorevole ma non autoritario, la sua figura imponente e bonaria, da buongustaio a tutto campo, ne avrebbero fatto -ben oltre la cerchia degli addetti ai lavori- uno dei volti più popolari e rispettati della nostra vita pubblica.

La carriera giornalistica di Spadolini trovò il suo naturale approdo nella direzione de "Il Corriere della Sera”, di cui resse il timone dal 1968 a11972, spinosissimi anni che aprivano la strada alla cosiddetta' notte della Repubblica'. Anni in cui la morsa dei poteri forti costringeva un giornalismo che volesse restare libero a un durissimo esercizio autodifensivo. Quale tipo di giornalismo praticasse e difendesse, Giovanni Spadolini, con una specie di ascetismo monastico, era stato evidente fin dagli esordi: lo voleva colto e artigianale come le botteghe che avevano fatto grande la sua Firenze. Lo voleva povero, simile a un ordine francescano che nel rifiutare l'obolo della politica ne rifiuta le indebite intromissioni. E soprattutto lo voleva libero, sul modello di Luigi Albertini, mitico direttore del giornale di via Solferino nel primo quindicennio del '900: “direttore senza altra proprietà alle spalle che non fosse la propria coscienza".

A questi valori allineò tutta la stampa che gli fu dato guidare, dai fogli di altissima tiratura a quelli di nicchia prestigiosa, come “La Voce Repubblicana” che, grazie a lui, tornò in edicola e per anni funzionò come fucina del mestiere da cui uscirono professionisti sia della carta stampata che del giornalismo televisivo.

Ma Spadolini era e restava uomo non dei nuovi media e delle loro demagogiche e superficiali furbizie, ma uomo della cultura cartacea, portatore di quell' amore estetico e persino fisico per il libro e la sua preziosa, insostituibile materialità che è tipico dei grandi collezionisti di formazione umanistica.

Attraverso "Il Mondo" di Pannunzio o la terza pagina del "Corriere della Sera" Spadolini ricostruì figure e passaggi centrali dell'Italia dell'800 e del 900 in un dichiarato intreccio di biografia e autobiografia, perche la ricerca storica altro non è che ricerca di un punto di equilibrio intellettualmente corretto fra la ricostruzione del passato la costruzione del presente.

La smemoratezza del passato, il suo oblio ci rende ignari di chi siamo e condanna l'azione politica alla fragilità e alla inconsistenza: questa fu la sua lezione. Dai problematici anni' 70 in poi lo sguardo che Spadolini rivolse al passato si andò dunque caricando di esplicite nostalgie, come a proposito di Luigi Einaudi e di un'Italia, “quella dell'immediato dopoguerra, in cui il tormento e la ricerca del nuovo mai si separarono dal culto del vecchio costume, dell'antico e nobile mondo di ieri".

Interiore oltre che storica fu dunque la sua rielaborazione di quell'Italia risorgimentale, unitaria, giolittiana e post-giolittiana che ha rappresentato tanta parte del suo impegno storiografico e della sua passione civile. Prediligeva gli spiriti liberi e i bastian contrari e da storico li cercava e studiava con finezza appassionata.

Fossero socialisti indipendenti ed iconoclasti come Salvemini, liberali dissidenti come Gobetti, conservatori amari e lucidamente pessimisti come Mosca e Ferrero, sacerdoti d' altissima tempra laica come Sturzo, statisti che dominano l' epoca che dal fascismo porta alla prima Repubblica democratica come Luigi Einaudi e Alcide De Gasperi.

In questa intensa storia personale, intessuta di successi accademici, giornalistici e culturali 1972 segna una svolta, foriera di tutt' altro tipo di onori, impegni ma anche, occorre aggiungere, di amarezze e solitudini sconosciute alla precedente esperienza.

Inizia, per diretta sollecitazione dell'amico Ugo La Malfa ansioso circa le sorti della

nostra tenuta democratica, la stagione del politico e dello statista. Senatore del partito repubblicano per il quale si era candidato nella circoscrizione di Milano, Spadolini entra dunque a Palazzo Madama dove siederà fino al drammatico 1994; succedendo nella segreteria del partito dell'edera allo stesso La Malfa, scomparso ne 1979.

La vasta rete di conoscenze a livello interno e internazionale, la lunga amicizia col popolo israeliano e la sua causa, i contatti solidamente instaurati con la Polonia, i rapporti con gli ambienti euro-atlantici e Nato fanno di Spadolini il tessitore di dialogo e il naturale garante di equilibrio sui tavoli più caldi e complicati della nostra politica estera.

Le conseguenti cariche seguono a pioggia. E' ministro dei Beni culturali, dicastero da lui “inventato” e voluto.

In qualità di segretario del partito repubblicano resta tenacemente ancorato alla linea di La Malfa: politica di larghe intese e solidarietà nazionale che, coinvolgendo Berlinguer in un disegno di stabilizzazione dei comunisti entro il perimetro della lealtà al sistema democratico e atlantico, unisca le forze sane del Paese contro la violenta spinta eversiva delle 'estreme'.

E' Sandro Pertini, capo dello Stato, ad affidargli la patata più bollente della sua carriera pubblica quando nel pieno del marasma prodotto dallo scandalo della Loggia P2, gli conferisce l'incarico di formare il governo.

Giovanni Spadolini fu il primo presidente del Consiglio non democristiano nella storia d' Italia.

Il Tevere, come i suoi studi avevano correttamente auspicato e previsto, si era davvero fatto più largo e gli storici steccati guelfo-ghibellini erano caduti.

Il suo ruolo, ai fini di quel risultato, attende ancora una compiuta ricostruzione in sede storica e politica.

La democrazia italiana sopravvisse alle potenzialità letali dello scontro interno ai corpi dello Stato ma la mano che il premier Spadolini usò per snidare e sconfiggere le infiltrazioni negli apparati dello Stato fu durissima.

Un amico e uno spirito affine (entrambi toscani), Indro Montanelli, che di complimenti era parco specie se diretti ai politici, ammise che finalmente nell' aria italiana si sentiva "odore di pulito".

Fra il 1983 e il 1987 Spadolini fu Ministro della Difesa e nel 1991 fu nominato senatore a vita dal Presidente Cossiga

Ma la storia italiana stava ormai rapidamente voltando pagina e Spadolini, che era personalità ‘rotonda' ma di convincimenti ideali fortissimi, e all'occorrenza difesi con spigolosa asprezza, non era uomo per tutte le stagioni.

Montava all'orizzonte un'altra classe dirigente, diversa se non antitetica rispetto a quella colta, austera e sobria che Spadolini aveva studiato da storico e incarnato con esemplare coerenza da politico e statista.

Qualcosa di gravissimo stava accadendo: venivano meno le condizioni stesse che avevano consentito alla sua generazione di fare della conoscenza storica strumento e alimento di azione politica. Si spezzava un rapporto vitale fra passato e presente. Questa fu la più bruciante delle cesure storiche ed esistenziali che gli toccò sperimentare: assistere alla fine del proprio mondo, allo spegnersi delle ultime luci con cui il generoso faro della cultura liberale aveva accompagnato e sostenuto i primi decenni della storia repubblicana.

E segnale fin troppo indicativo fu nel 1994 la sua mancata rielezione alla Presidenza di Palazzo Madama: fatto che travalica la semplice cronaca politica e assurge ad amaro segnale di incipiente barbarie. Da questa Italia, via via più lontana da quella che aveva studiato, amato e contribuito a costruire Giovanni Spadolini prese definitivo commiato il 4 agosto del 1994.

Per sua volontà, ogni suo bene fu trasferito al patrimonio pubblico a tutela e presidio dei nostri beni culturali e ambientali. Nelle sue ultime volontà la politica poteva finalmente scomparire e cultura e bellezza tornavano ai vertici dell'unica gerarchia di valore che non l'aveva mai tradito.

Ada Ferrari è èrofessore di I fascia a tempo pieno del dipartimento di storia della società e delle istituzioni della Facoltà di Scienze Politiche dell'Università statale di Milano-

Ha al suo attivo numerose e qualificate pubblicazioni; nonché partecipazioni a convegni di approfondimento scientifico.

Segnaliamo anche due importanti testi: 

  • Le verità della storia e quelle dello storico; Etica e Politica. Saggi in onore di Ferruccio Focher”  2004 - Franco Angeli Milano.
  • Alcide De Gasperi. Un europeo venuto dal futuro” 2004 – Rubettino

Da qualche tempo la Prof.ssa Ferrari pubblica come opinionista apprezzati contributi sul quotidiano cremonese “La Provincia”.

La direzione de L'ECO DEL POPOLO, sperando di poter contare per il futuro sulla sua collaborazione, la ringrazia vivamente per questo prestigioso apporto.

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