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Sanità verso il libero mercato?

Chissà che questa emergenza non ci insegni qualcosa

  25/03/2020

Di Redazione

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Il Sistema Sanitario Nazionale, nato formalmente con la legge n.833 del 23 dicembre 1978, dava piena attuazione all'articolo 32 della Costituzione Italiana rimuovendo ogni sorta di impedimento o di possibile discriminazione (per censo, o, classe di appartenenza), elevando il concetto di diritto alla sanità a quello più universale del diritto alla salute come diritto fondamentale dell'individuo.
Una legge che aveva l'ambizioso ma, sacrosanto, obiettivo di uniformare, efficientare e capillarizzare il servizio sanitario su tutto il territorio nazionale.
Purtroppo, negli ultimi trent'anni, le riforme a tale sistema hanno avuto come principi cardine il contenimento della spesa pubblica, subordinando di fatto, il sancito diritto universale alla salute alla disponibilità finanziaria delle Regioni. Ripercorrendone brevemente le tappe più importanti, annotiamo: 
    • il D.Lgs. n.502 del 1992 che avvia la regionalizzazione della Sanità, istituisce le Aziende Sanitarie Locali e Ospedaliere e, per rispondere alla crescente pressione finanziaria, introduce “una concezione di assistenza pubblica in cui la spesa sociale e sanitaria deve essere proporzionata alla effettiva realizzazione delle entrate e non può più rapportarsi unicamente alla entità dei bisogni”;
    • il D.Lgs. n.229 del 1999 che conferma e rafforza l'evoluzione del sistema in senso aziendale e su base regionale, istituendo i fondi integrativi sanitari per le prestazioni che superano i livelli di assistenza garantiti dal SSN;
    • la riforma del Titolo V con Legge Costituzionale n. 3/2001, la tutela della salute diviene materia di legislazione concorrente Stato-Regioni: lo Stato determina i Livelli Essenziali di Assistenza (LEA); Le Regioni hanno competenza esclusiva nella regolamentazione e organizzazione dei servizi sanitari nel finanziamento delle Aziende Sanitarie Locali;
    • 2015, DM70 “Regolamento per gli Standard Ospedalieri”, ma non solo, quale atto di recepimento della Legge 135/2012 (“Spending Review”) applicato al comparto della sanità che ha come difetto fondamentale (vista la complessità ad esaminarla tutta in questa sede) la rigidità sull'applicazione dei tagli in base alla fredda legge dei grandi numeri, senza tenere conto delle particolarità territoriali (vedi chiusura UTIN al Maggiore di Cremona e del Punto Nascite all'Oglio Po di Casalmaggiore-Viadana nella stessa AST Cremona-Mantova)
Gli effetti, dagli anni ‘80 ad oggi, sono stati positivi certamente per le finanze dello stato e per il settore privato della sanità accreditato con le Regioni che, nonostante il dimezzamento dei posti letto (sul totale), ha visto la sua quota passare dal 15 al 20%. Tutto il resto è un continuo trend negativo di indici: dimezzamento dei posti letto (da 500.000 a 215.000) anche se in piccola parte sono giustificati dai tempi di degenza ridotti grazie all'avvento di nuove scoperte in campo scientifico; chiusura di reparti che non rispettano i requisiti del DM70/2015; aumento della mobilità interregionale ed intraregionale degli utenti/clienti (e non più dei pazienti) obbligati alla ricerca delle migliori cure, o, nelle migliori strutture, o, nelle uniche strutture ad offrire quella particolare specializzazione; aumento delle liste d'attesa nel solo settore pubblico e sovraccarico dei medici di base per numero di pazienti. Insomma, se puoi permettertelo, pagando, hai tutto e subito nel privato con il conseguente aumento della spesa pro capite per l'assistenza convenzionata e accreditata.
Risulta evidente come dalla separazione “acquirente-fornitore” avviata nel 1992 le Aziende Ospedaliere così come le Strutture Private Accreditate risultino di fatto parificate, sul piano contrattuale nei “Volumi di produzione”, ma con il “peso” dei LEA totalmente in capo al “pubblico”, come ad esempio, uno su tutti, il delicato servizio di Pronto Soccorso che con i pareggi di bilancio c'entra ben poco.
Rileviamo con preoccupazione la gestione quasi schizofrenica dell'emergenza di questi mesi da parte del governo. Di sicuro mancante sul piano della comunicazione. Ci preoccupa altresì (in prospettiva) anche l'elogio dell'integrazione col sistema sanitario privato che in queste ultime settimane ha aderito alla gestione Regionale della pandemia, sopperendo solo in minima parte alle carenze di strutture, di mezzi e di risorse umane dei presidi ospedalieri pubblici, ormai saturi e prossimi al collasso. Ma di quale “modello” si decantano le lodi?
Ci pare evidente come il comparto della salute pubblica, pur non essendo un “asset strategico” dello Stato, sia in grado, per intrinseche ragioni economiche, di attirare l'attenzione dei più “sgamati”.
Ma è anche un fatto sociale? Si, la società nel corso dell'ultimo secolo è profondamente mutata e sul piano demografico la popolazione è aumentata considerevolmente di numero e nell'età media, grazie, soprattutto, al progresso tecnologico ed al benessere diffuso. Vi sono altresì aree territoriali vaste, a bassa densità come la nostra provincia che subiscono gli effetti di tali provvedimenti.
È pure un fatto politico? Soprattutto. Negli ultimi trent'anni si sono avvicendati, sia compagini di centro-destra (governi Berlusconi) che di centro-sinistra (governi Amato, Ciampi, Dini, Prodi e D'Alema su tutti). Se sul piano culturale-ideologico, lo status quo è frutto soprattutto delle scellerate riforme avallate anche dal centro-sinistra post tangentopoli, sul piano della prassi, il centro-destra, con le anomale (troppe) parentesi dei governi tecnici (cioè frutto dell'incapacità politica dei nostri parlamentari e di mancate elezioni) il risultato è sempre il medesimo: taglio della spesa sociale.
L'Italia spende già meno della maggior parte dei Paesi europei in relazione al PIL e pare che la strada imboccata dal nostro SSN sia più che incerta sul fronte della sostenibilità a lungo termine. Già ora se ne intravedono gli effetti: sempre più cittadini si dichiarano insoddisfatti del servizio, rivolgendosi al privato (con aggravi di spesa a loro carico) e, sempre più medici e primari (con un minimo di ambizione) abbandonano il posto “in trincea”, o, addirittura non partecipano ai concorsi indetti dalle varie ASST non più appetibili come quelle della nostra ATS Val Padana.
La questione dirimente, a nostro avviso, è tra la scelta di evolvere in uno stato social-democratico, libertario e solidaristico che sappia coniugare i meriti con i bisogni, oppure, abdicare definitivamente in favore di uno stato liberal-liberista che si affida alle leggi di mercato, cioè alla legge del più forte.
Chissà che questa emergenza non ci insegni qualcosa... 

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