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25 aprile del 71° della Liberazione a Cremona. Manifestazioni partecipate, ma tra luci ed ombre

Pagine inedite della Resistenza Cremonese. Ferruccio Parri a Cremona. Nell’angusto ambiente cremonese Calatroni, di fatto, era molto sorvegliato e in assenza di telefoni decise di farsi sostituire negli abboccamenti da una sua giovane ma fidatissima amica, probabilmente ignara dei pericoli a cui si sarebbe esposta…

  26/04/2016

A cura della Redazione

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Ci avevano abituato bene le celebrazioni del 70°: inaspettata folla al corteo e, tutto sommato, pur nella permanenza dei (non esattamente reclamati) soliti refrain, una testimonianza con un buon tasso di coesione.

Il titolo di coda, rappresentato dalla “testimonianza dei Centri (cosiddetti) Sociali, c'era stato un anno fa e s'è ripetuto anche oggi. Con un prologo, però. Per rendere più palpabile il loro contributo ad una rievocazione che dovrebbe unire, i CSA, pare, hanno messo “la firma”, imbrattando le sedi del PD e della Lega.

Ma questo tipo di  performances (il vandalismo e la pretesa di sovvertire da dentro una libera manifestazione di popolo) costituisce un capitolo a parte. Più di legalità che politico.

Ma, anche volendo giustamente espungere dal corpo delle celebrazioni il “contributo” di un antagonismo che pretende di certificare la legittimità storico-politica della testimonianza antifascista, non si può proprio dire che per questo 25° aprile sia filato tutto liscio.

Infatti, resta ancora incombente sui destini di una celebrazione, vocata ad allargare sempre più la platea dei cittadini che onorano, festeggiano, attualizzano le riconquistate democrazia e libertà, un irriducibile aggregato di controspinte e di impulsi divaricanti.

Questa Festa della Liberazione, diciamolo francamente ed amaramente, è giunta in un contesto generale che evidenzia il permanere di tutto quanto congiura contro una celebrazione feconda e condivisa.

Il 25 aprile è sempre più un giorno di festa (dal lavoro) e sempre meno una festa universale, che dovrebbe ricordare la riconquistata libertà.

La soglia dell'Italia di oggi, rispetto alla ricorrenza (insieme al 2 giugno) più significativa per la storia patria più recente, è quella (come ha scritto Cazzullo sul Corriere) di un paese diviso, cinico e litigioso. In cui i vinti non si danno pace e i vincitori sono divisi.

Sono destinate a diventare parole al vento quelle di Alcide Cervi: “Gli italiani non si facciano dividere dalle bugie e dagli odi. Tanto sacrificio non è valso a niente, se ancora odio viene acceso tra gli italiani. Nasca finalmente l'unità d'Italia, l'unità degli animi, dei cuori patriottici”.

La Liberazione non è ancora diventata un valore assoluto universalmente condiviso.

Perché tutto ciò succede? Perché non c'è responsabile consapevolezza della nocività, nella lunga distanza, di un'incoercibile renitenza a metabolizzare irreversibilmente, come base fondante dell'Italia repubblicana, il grande valore della testimonianza partigiana.  Senza del quale, a guerra finita (ricorda ancora Cazzullo), nessuna Costituente avrebbe  scritto la Costituzione.

Che sarebbe stata octroyée dagli alleati.

Il passato non passerà mai e nessun futuro edificante cementerà la coesione civile, se non si parte da lì.

Partendo, cioè, dall'assunto che se non sono sullo stesso piano colpe, ragioni e verità, qualche responsabilità andrebbe ricercata, anche se fa male dirlo, nelle renitenze di alcuni settori dell'antifascismo ad affermare le ragioni di una memoria condivisa.

Tra cui, il non aver contrastato a sufficienza, nei decenni, gli impulsi ad una indebita appropriazione, a scopi di parte, dei valori e dell'eredità, morale e storica.

E il non aver stroncato sul nascere la pretesa di settori, antidemocratici e violenti, di attribuire l'appartenenza  o meno all'antifascismo. A colpi di ostracismi e di gesti che, come la contestazione alla brigata ebraica, sporcano il nitido ricordo di quell'epopea.

Che dire, poi, della politique politicienne che (non si sa quanto inconsapevolmente) non resiste alla tentazione di appesantire di piombo le ali di una ricorrenza che sarebbe prerogativa di tutti.

Che centra (signor Sindaco di Crema) il 25 Aprile con le mene dell'Area vasta dell'Adda? Che centra (signor Sindaco di Cremona) il 25 Aprile con la sua personale ed inveterata identificazione sillogistica tra il male assoluto del nazifascismo ed il male dei muri eretti a difesa (secondo alcuni) della sovranità e della sicurezza?

Non sarà mai dato che il 25 aprile diventi la festa di tutti gli italiani e di tutti gli antifascisti fin tanto che, in aggiunta ovviamente alla sedimentazione di tante renitenze, cittadini investiti di magistrature istituzionali indosseranno la fascia tricolore per dispensare ad un popolo raccoltosi per altre ragioni una personale narrazione, incompatibile con i doveri istituzionali. Una narrazione che ha come mission non già la coesione e l'identificazione negli assi portanti comunitari, bensì quel profilo divisivo, tante volte attribuito agli altri.

Il corteo e la piazza, fortunatamente, non sono stati solo queste mende.

Sono stati tanti slogan, tanti canti, tante e belle facce di giovani e di anziani. Tante bandiere in rappresentanza di tutte le sensibilità che hanno animato la Resistenza e che ne continuano la sua testimonianza.

In ciò sommessamente divergiamo dal pensiero del parroco del Duomo che, novello Don Camillo, dopo aver fatto suonare le campane (L'ho fatto per manifestare la partecipazione della Chiesa Cattedrale ad una festa dalla quale mi sembra che sia un po' lasciata ai margini), ha aggiunto: “non dovrebbero esserci bandiere di nessuna parte politica per festeggiare il 25 aprile”.

Quanto alla marginalità della Chiesa Cattedrale (per molti anni retta da un certo Mons. Boccazzi, notoriamente sodale del Ras per eccellenza), non è mai troppo tardi per uscire dalla marginalità che è stata scelta come cifra identificativa di aristocratica indifferenza (che era già molto meglio delle complicità col regime fascista).

Ben vengano le campane (che furono suonate spontaneamente dai parroci cremonesi il giorno della Liberazione)! Ben vengano le bandiere, tutte le bandiere espressione di appartenenza all'eredità antifascista ed alla Repubblica.

Tra le luci di queste celebrazioni c'è sicuramente il contributo di chiarezza da parte del nuovo Presidente dell'ANPI, prof. Giancarlo Corada. Che, nel suo inedito ed importante ruolo, ha inaugurato una nuova stagione.

All'insegna dell'archiviazione di collateralismi non certo edificanti per l'affermazione di un antifascismo più condiviso, di cui la maggiore Associazione Partigiana non può non sentirsi investita.

In una intervista rilasciata al quotidiano cremonese Corada ha dichiarato: “Togliere lo strato di polvere che c'è sulla Resistenza e sull'anpi. Uno degli ostacoli è che la Resistenza viene ancora vista come una cosa di sinistra. Invece è stata fatta anche da cattolici, monarchici, liberali, militari e carabinieri. A noi non interessa la tessera politica. Ben vengano,poi, gli intellettuali. Rispetto al passato c'è un pericolo in più da fronteggiare: il terrorismo islamico”.

Nello spirito espresso da Corada, L'Eco del Popolo ne raccoglie l'esortazione (c'è sempre qualcosa da scoprire e da divulgare. Lo studio e la memoria sono nostro compito) e porta il proprio contributo all'approfondimento della memoria storica del periodo resistenziale.

La testata socialista, nell'anniversario della Liberazione, pubblica un articolo che fa luce su particolari inediti della lotta partigiana.

Ringraziamo doverosamente il suo autore, Prof. Lodovico Favalli, già docente del Liceo Manin di Cremona.

Il suo scritto pone in luce un significativo segmento, fin qui sconosciuto ai più, in cui si articolò l'organizzazione antifascista di Cremona e del Nord Italia.

Ne sono protagonisti il Sindaco della Liberazione per nomina del CLN,'avv. Bruno Calatroni (di cui quest'anno ricorre il 50° anniversario, che sarà da noi degnamente rievocato) e Ferruccio Parri,  destinato in un breve prosieguo a ad assumere la massima magistratura dello Stato, che non era ancora Repubblicano.

Il Comandante “Maurizio” avrebbe mantenuto fecondi rapporti con Cremona, che si sarebbe intensificati con il centenario dell'unità nazionale e con il nuovo corso autonomista impresso da Nenni verso la fine degli anni 50.

Ma di ciò daremo approfondito conto a corredo della pubblicazione del saggio storico di Zanoni sul movimento della Resistenza Cremonese.

PAGINE INEDITE DELLA RESISTENZA CREMONESE

Nel 1942 l'avvocato Calatroni fu assegnato a Terracina come tenente della Fanteria Costiera addetto alla difesa del territorio. Era al comando di una compagnia di richiamati che, proprio per l'età, erano stati destinati alla “difesa del territorio nazionale” (tra questi mi è dato ricordare il sig. Rocchetta – padre di una ragazza che poi divenne segretaria dell'avvocato – e il Sig. Marchesi, sarto di professione e suo attendente). Il tratto di costa tirrenica oggetto del presidio misurava, complessivamente, circa 50 Km a cavallo di Capo Circeo: i 25 Km più a NORD del Circeo erano sotto il controllo di una compagnia di fanteria italiana mentre i 25 Km più a SUD, sotto il controllo di una compagnia di fanteria tedesca al comando di un tenente di complemento austriaco (nella vita civile professore di Latino e Greco in un liceo di Graz ). Con questo ufficiale della Wehrmacht ebbe un vero, profondo e sincero rapporto di amicizia. Amicizia nata e quotidianamente rafforzata dalla comune profonda conoscenza della storia antica, delle arti, della cultura in generale e, in particolare, della lingua latina. Questo ufficiale, che si offendeva quando veniva appellato “tedesco” in quanto si vantava di essere austriaco, si “dilettava” nel trascorrere intere serate dissertando con il nostro Bruno di storia, di arte, di filosofia e di tante altre belle cose il tutto quasi sempre in lingua latina pur conoscendo abbastanza bene la nostra lingua.

Finita la guerra, Calatroni (non più dotato di patente in quanto non aveva rinnovato la sua vecchia conseguita parecchi anni prima dello scoppio della seconda guerra mondiale) più volte chiese di essere accompagnato a Graz dove sperava di poter aver notizie del collega “ufficiale-gentiluomo “- capiremo poi il perché di tale appellativo -. Questo desiderio scaturiva da questi fatti: nel pomeriggio dell' 8 settembre o, forse il 9, in occasione di uno dei frequenti incontri tra ufficiali (tra Terracina e il Capo Circeo) l'austriaco gli disse perentoriamente:” dal Professore all'Avvocato: domani tu ed il tuo reparto dovete sparire!” e, per rafforzare l'ordine aggiunse:” Bruno fuge!” Sicuramente, come tutti gli ufficiali tedeschi, aveva appena ricevuto l'ordine di arrestare, l'indomani, i militari italiani che collaboravano con loro in qualità di “alleati. Possiamo facilmente immaginare, il mattino successivo, la falsa meraviglia mostrata davanti ai suoi uomini che dovevano eseguire i rastrellamenti e conseguenti arresti, nel non trovare né il collega italiano né i suoi uomini al solito posto! Era stato quindi proprio e soltanto grazie all'amicizia del giovane professore di profonda cultura umanistica che aveva potuto evitare, unitamente al suo intero reparto, l'internamento in qualche campo tedesco con tutto ciò che facilmente possiamo immaginare.

Il ritorno fu organizzato con mezzi di fortuna: che andarono dalla bici al treno a carretti comunque trainati.Giunto in modo un po' rocambolesco a Cremona verso la fine di Settembre dello stesso '43, vi rimase “indisturbato” o meglio ”non particolarmente disturbato” fino alla liberazione. Questo “tranquillo” soggiorno domestico fu dovuto sia alla sua età sia al fatto che figurava, come in realtà era, figlio unico di madre vedova. Questo stato gli permise di non essere arruolato nella RSI e di non doversi rifugiare sui monti con i partigiani le cui fila così copiosamente contribuì ad ingrossare.

Inseritosi nella multiforme e segreta galassia dell'antifascismo attivo, prese in mano la gestione dell'opposizione al nazi-fascismo a Cremona. I fatti in seguito affiorati dimostrano che riuscì a mettersi in contatto con molti capi della resistenza italiana e fra questi, certamente, anche con il gruppo che faceva capo a Ferruccio Parri noto fra “ gli addetti ai lavori” come “il compagno Maurizio” che, proprio per essere uno dei rappresentati di spicco del neonato Comitato di Liberazione Nazionale, era una delle persone più ricercate d'Italia tanto che su di esso, se non erro, pendeva una taglia. Ancor oggi non mi è dato sapere se lo conobbe personalmente e attraverso quali conoscenze o intermediari venne in contatto con lui.

Negli ultimi mesi del 1943 cominciò a prendere piede ed a ben organizzarsi il movimento partigiano: molti giovani preferivano imboscarsi (in questo caso non si tratta di un modus dicendi!) piuttosto di andare a combattere una guerra ormai persa sotto braccio ai tedeschi ed ai fascisti nostrani. Il problema era quello di sapere dove erano queste brigate, raggiungerle e venire accolti senza passare per infiltrati o spie. Alla realizzazione di tali insostituibili contatti contribuì, con il suo incondizionato entusiasmo, grande zelo e molta incoscienza l'avvocato Calatroni. Si avvalse anche della fattiva e occulta collaborazione di un padre Barnabita, tal padre Carbonaro, attraverso il quale indirizzò  decine di giovani cremonesi  ad arruolarsi nel neonato esercito che aveva le sue basi e svolgeva la sua azione di disturbo prevalentemente sull'Appennino  piacentino. (forse anche per una questione di orografia, di ridotta distanza e di raggiungibilità dalle grandi città del nord).

Nell'angusto ambiente cremonese Calatroni, di fatto, era molto sorvegliato e in assenza di telefoni ----- praticamente non esistevano e, come la posta, erano piuttosto controllati ----- non poteva prendere personalmente contatti con il suddetto padre barnabita se non a rischio di far saltare l'intera organizzazione cremonese e quindi…. decise di farsi sostituire negli abboccamenti da una sua giovane ma fidatissima amica, probabilmente ignara dei pericoli a cui si sarebbe esposta. Ella, inginocchiatasi nel confessionale e proferita la parola d'ordine - che variava di giorno in giorno -  riportava al frate quanto l'avvocato le aveva detto e viceversa. Generalmente si trattava di ottenere informazioni circa il luogo, l'ora, il segnale di riconoscimento e il numero di uomini che dovevano e potevano essere accompagnati sugli Appennini per andare ad ingrossare le fila dei “partigiani”. Da notare che nulla di quanto detto doveva essere scritto, neppure su pizzini, diremmo oggi, me tutto doveva rigorosamente essere tenuto a memoria; qualora qualcuno degli attori di questa “farsa” fosse stato fermato, interrogato o fatto oggetto d'interesse da parte della polizia fascista l'ordine era di negare tutto, di fingere, di cadere dalle nuvole!

Non contento di questa rischioso coinvolgimento, ad un certo punto chiese all'inseparabile amica Dina di andar ancor più avanti nella collaborazione e nei rischi conseguenti. Si trattava di questo: ogni tanto avrebbe dovuto fornire ospitalità, per una notte, ad una persona,“ il compagno Maurizio”, del cui passaggio assolutamente nessuno doveva sapere nulla. A questa persona non doveva essere fatta alcuna domanda circa la sua identità, i suoi spostamenti, la sua provenienza, le sue incombenze: in pratica non bisognava chiedergli nulla; tutt'al più bisognava ascoltare attentamente quello che diceva. Questo “fantasma” sarebbe giunto a tarda sera, avrebbe bussato con alcuni colpi inferti in modo pattuito alla porta secondaria della sua abitazione - che dava sul vicolo delle Rose -  sarebbe entrato per rifocillarsi e riposarsi e sarebbe rimasto fino alla luce dell'alba del giorno successivo. Poi, attraverso la stessa porta da cui era entrato, se ne sarebbe andato. Tali visite si ripeterono più volte e nell'arco di qualche mese. Proprio per la reiterazione di questi brevissimi e silenziosi soggiorni, fra il compagno Maurizio e la sua ospite si affievolì il gelo iniziale e, mentre aspettava che gli si mettesse in tavola qualche specialità culinaria si lasciò andare a “confidenze” che, comunque, nulla lasciavano trapelare sulla sua identità, sui suoi spostamenti, sulla sua ” missione “. L'unica cosa che emerse fu che stava andando a trovare la sua famiglia composta da moglie e due figli in Svizzera. Ancor oggi non so se effettivamente stava raggiungendo la famiglia esule in Svizzera o, piuttosto, non si recasse nella Confederazione per incontrare gli emissari degli alleati con cui concordare i movimenti, le modalità e gli aiuti da dare alla sua forza partigiana denominata “Giustizia e Libertà”. La storia ci dice che, nonostante la grande abilità di Parri nell'attività di mediatore, tali colloqui non sortirono grandi effetti in quanto gli alleati, al solo sentirlo chiamare “compagno”, lo assimilarono ai comunisti che proprio non desideravano prendessero il sopravvento e il primato fra tutte le truppe partigiane di varia tendenza.

Venne il 25 Aprile, l'Italia si liberò del fascismo, si diede immediatamente nuovi capi e a Cremona, per scelta e volontà del Comando Alleato, Calatroni divenne – senza essere eletto - il primo sindaco (non più podestà! ), che oggi potremmo definire “di transizione”. Un incarico del genere, in quei drammatici, bui e pericolosi momenti, pochi l'avrebbero assunto e pochissimi l'avrebbero portato a termine con l'entusiasmo, l'ardore, la determinazione, le capacità organizzative e l'energia che vi profuse il neo-sindaco. In questa occasione manifestò anche un altro pregio – oggi scomparso – cioè quello di intendere gli incarichi politici come un dovere che tutti abbiamo nei confronti della collettività e della Nazione. Questa impostazione era tanto sentita che, alla indizione delle regolari elezioni- nel 1946 - rinunciò a “correre” per la carica di primo cittadino proponendo, al posto suo, Gino Rossini, un collaboratore che meglio di ogni altro avrebbe potuto in modo competente continuare le iniziative che, nonostante l'alacrità e l'ardore dell'intera Giunta Comunale, non erano state portate a termine.

Anche i giornali cominciarono a ritornare alla normalità giornali che, per molti anni ancor più della radio, furono l'unico elemento di informazione “libera” – si fa per dire – del paese. Il giornale più diffuso era il “Corriere della Sera” con il supplemento domenicale de “La Domenica del Corriere”; proprio su un numero di fine Giugno '45 del quotidiano fu pubblicata la notizia della formazione, dopo la caduta del 3° governo Bonomi, del nuovo governo presieduto da “un certo” Ferruccio Parri. La fotografia dello statista campeggiava in prima pagina. Solo allora la signora che lo ospitò si rese conto di chi aveva avuto l'onore di ospitare e a quali rischi aveva esposta se stessa e i familiari tutti.

Se diamo per scontato che ogni favola ha un senso solo se ha una propria morale, direi che la morale della “nostra favola” può essere così sintetizzata: spesso si diventa “eroi” inconsciamente miscelando una abbondante dose d'incoscienza e di entusiasmo con una certa quantità di fatalità.

Lodovico  Favalli  Meroni.

Cremona 1° Febbraio  2016

Foto 1: manifestazione Cremona 25 aprile 2016

Foto 2: La casa in via Ferrario 3  in cui avvennero gli incontri clandestini di Parri

Foto 3: Parri, il compagno 'Mauriziò

Foto 4: La prima giunta della liberazione con Calatroni

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