Anche se permarrà tra gli evergreen dei nostri palinsesti editoriali, prevalentemente dedicati all'approfondimento del pensiero politico, il lato prevalente di un anniversario difficilmente suscettibile di essere negletto è destinato, almeno nella nostra agenda immediata, a lasciare il cono dell'attualità.
Più che del XVII Congresso Nazionale del PSI la ricorrenza si è occupata dell'approdo di un'assise tormentata (come, per tradizione, lo sono state le massime adunanze nazionali socialiste, non raramente approdate a profonde divisioni), che costituì l'innesco dell'evento destinato, a cento anni di distanza, ad essere rievocato (per quasi tutti) e celebrato per alcuni.
La nostra testata non solo non si è sottratta né ai doveri giornalistici né, diciamolo onestamente, ad una vera e propria opportunità. Per rivisitare un caposaldo delle vicende storiche del secolo breve e per verificare la sussistenza delle condizioni per favorire uno sforzo di contestualizzare il portato di quell'eccezionale snodo, suscettibile di incardinare nella realtà nazionale il più accreditato partito comunista dell'Occidente (in altre occasioni, ho osato “del mondo”, se oltrecortina si fosse votato e/o votato regolarmente nel corso del lungo periodo della sovietizzazione).
Insomma, confessiamo di aver atteso ai nostri doveri di informazione, non solo evitando un approccio alla ricorrenza “da parte lesa”, ma nutrendo un crescendo di interesse nei confronti di un lungo ciclo politico, che ha fortemente influenzato la vita italiana e che potrebbe fornire qualche interessante assist cognitivo per trarre debiti rintracciamenti nei tempi correnti.
Che risentono dell'applicazione delle teorie del pensiero liquido su un terreno che, probabilmente non intenzionalmente, ha fatto completamente terra bruciata dell'humus che caratterizzò gli idealismi, i grandi trasporti militanti, la partecipazione di massa alla vita pubblica.
Non ci mancherà la sollecitudine per affrontare al meglio il pannel. Resterà sotto traccia l'interesse a non perdere di vista un aggregato di approfondimenti e riflessioni; per cui ci siamo già attrezzati. Leggendo tutto il leggibile dispensato dalla stampa quotidiana e settimanale. E, soprattutto, non lasciandoci sfuggire l'acquisizione di gran parte della saggistica dedicata alla ricorrenza dai gruppi editoriali e dai più accreditati autori.
Col tempo faremo in modo (come era usa fare la signora Cristina della saga guareschiana) che nulla vada perduto.
Come memo (per noi e i nostri lettori) abbiamo focalizzato le edizioni acquisite (nella foto sotto). Tra queste ci siamo occupati subito di “Il nostro PCI 1921-1991” di Fabrizio Rondolino. In cui abbiamo dedotto sia gli elementi di una rivisitazione non nostalgica dei 70 anni del PCI sia, soprattutto, lo sforzo sincero di voler trarre elementi di attualizzazione di quell'inquadramento storico.
UNO SFORZO ERMENEUTICO PER INQUADRARE QUELLA CHE, NELLA MIGLIORE DELLE IPOTESI, APPARE UN'ETEROGENESI DEI FINI.
La storia del comunismo italiano, fortunatamente restato una testimonianza teorica non banale anzi importante nel panorama politico italiano per 70 anni e non approdato a sistema pratico (diversamente dalla matrice sovietica cui per tanti anni attinse motivazioni ed indirizzi), inizia da un passaggio traumatico (la scissione di Livorno del PSI) che diventa una sorta di ossimoro nella stagione successiva, caratterizzata dall'adozione di un ordinamento interno, in cui la scissione costituirà un segmento dialettico assolutamente bandito se non demonizzato. A mente di un modello di democrazia interna che aveva come perno principale ben infisso, nel cuore e nella mente, il centralismo democratico.
L'incipit della rivisitazione dell'autore Rondolino: non rinnego e non rimpiango. Decisamente incongruo per quanto rivisiterà, ricorderà, rifletterà sul suo non banale visto da vicino nella lunga storia del PCI e della sua (dell'autore) contaminazione militante.
Probabilmente la parziale assoluzione tiene conto da una constatazione/consapevolezza (che chi scrive non solo non banalizza come autoassolutoria, ma per larghi tratti condivide). Che parte dalla percezione, in corso d'opera e postuma come permanente, del, lo definisce Rondolino, “valore dei partiti”. Una circonlocuzione un po' generica e per alcuni versi suscettibile di deragliare l'endorsement per effetto della perdurante demonizzazione, che in realtà vorrebbe trasmettere il senso sconcertante di quanto è avvenuto dopo che le strutture associative di massa e quel valore sono collassati. Detto in numeri: PCI due milioni di iscritti, DC uno, PSI mezzo. Frequentissime occasioni di confronto, dibattito, testimonianza. A petto degli effetti del pensiero liquido e dei partiti leggeri; che hanno prodotto più che disaffezione alla partecipazione di massa, il totale sradicamento delle prerogative di partecipazione attiva al sistema politico-istituzionale. In quello attuale, dice l'autore, “non c'è niente sotto”.
Forse bisognerebbe partire da questa raccapricciante constatazione, suscettibile di lumeggiare che gli scricchiolii dell'impianto liberaldemocratico sono il preannuncio di una sciagura soprattutto per il variegato campo della sinistra, che bisognerebbe ripartire per un robusto lavoro di armonizzazione e di convergenza.
Appartenendo (lato sensu) a quel campo, ci sembra di cogliere nella riflessione-guida di Rondolino della rivisitazione dei 100 anni inaugurati a Livorno, del buono. A livello, non vogliamo dire di “autocrtica” (quasi impossibile nella forma mentis di coloro che come lui sono stati e si dichiarano (non pentiti) togliattiani e (orrore!) berlingueriani.
Della pregressa rottura senza appello (neanche nelle successive testimonianze della seconda repubblica e di questa palude in corso, praticate dai post in servizio permanente effettivo in questa melassa fuoruscita dal fallimento di tutto quanto partorito dopo la Bolognina) ma anche senza una minima volontà di conversione a u, Rondolino ne attribuisce la scaturigine senza perifrasi:
do la colpa più a noi che ai socialisti, che avevano un problema di sopravvivenza. Nella svolta dell'89, invece di di fare quello che andava fatto, cioè diventare socialisti, ci siamo inventati quest'altra roba di andare oltre, riesumando la terza via di Berlinguer, che era comprensibile come tattica negli anni settanta, ma come elaborazione teorica assai debole. Perché alla fine delle due l'una, o sei comunista o sei socialista. E se smetti di essere comunista devi diventare socialista. Non c'è molto altro… I socialisti colsero un elemento della modernità che i comunisti non colsero… Su questo Craxi costruì il suo successo…Ce ne fosse uno che avesse capito ciò che Martelli, nella conferenza sui meriti e sui bisogni a Rimini aveva non solo capito ma anche brillantemente esposto.
Andrebbe soggiunto, senza voler minimamente infierire, che in corso d'opera il presidium reso periclitante, dall'evidenza dell'impraticabilità del proposito di “fare come la Russia” in un Paese approdato al modello liberaldemocratico e capitalista, mai volle trarre conseguenze feconde e ritracciare le linee guida di un progetto emancipativo, capace di mescolare le carte con la socialdemocrazia.
Lo dice Rondolino e non possiamo, ovviamente, fare dumping su ciò.
Concludiamo con una valutazione sulle due settimane dedicate in Italia al 100rio di Livorno, collocato, come ci si è abituati per le ricorrenze di livello, in un modulo che concede molto all'esposizione mediatica e poco ai riflessi degli insegnamenti sul presente e sul futuro.
Biagio de Giovanni si è chiesto:
Che cosa resta? Una malinconia per quella ricchezza di umanità andata perduta con la sua fine, la storia di quei milioni di uomini e di donne la cui vita è cambiata grazie a quelle lotte.
Tratto nostalgico in cui si intravvede una via di fuga. Una scappatoia per giustificare, con un alto tasso di idealismo e di dedizione da parte del popolo militante, la perdurante neghittosità a trarre la giusta lezione dalla propria storia e, soprattutto, a convertirne l'epilogo inconcluso o deragliato negli scenari attuali.
Ben lungi dal voler essere irrispettosi, ci pare di poter ravvisare nelle modalità di questa centenaria celebrazione una postura sbagliata di nascondere sotto il tappeto (dell'onore delle armi dell'idealismo) i tragici errori di quanto seguì all'abbandono del teatro di Livorno.
Sarebbe stato bello che dalla parte sincera e delle voci consapevoli ed oneste degli epigoni morali di quella lunga stagione militante ci fosse uno sforzo di testimonianza. Capace di saldarne la cifra principale al superamento del drammatico vuoto pneumatico che contraddistingue tutta la sinistra italiana. Per rimodulare un progetto di trasformazione della società. Che abbia come base fondante la ridefinizione di valori e di linee guida, dal valore paradigmatico.
Come il passaggio dall'accezione demonizzante del mercato e del capitalismo ad una consapevolezza di valenza strumentale. Come precondizione strutturale e strumentale alla realizzazione di un modello capace di riscrivere il perseguimento di una società più civile e più giusta. Ecco, potrebbe andar bene il termine “capitalismo sostenibile”. Inteso, specialmente in uno sforzo di riscrittura dei riferimenti e delle regole postpandemiche, come dorsale di un assetto in grado di declinare sostenibilmente l'efficienza del sistema economico ed il perseguimento dei valori di giustizia. In cui non è improbo configurare la transizione dal capitalismo finanziarizzato e basato esclusivamente sull'ottimizzazione del profitto in un capitalismo, appunto “sostenibile” in grado di comprimere le disuguaglianze eccedenti la diversificazione correlata al merito, di associare il “lavoro” nelle strategie programmatorie dell'economia continentale, nazionale e dei comparti produttivi, e di rendere irreversibile l'approdo all'innovazione produttiva ed alla riconversione nel senso della preservazione ambientale e della messa a frutto della centralità delle risorse rinnovabili
Ecco, su questi raffazzonati inputs è mancato totalmente l'indotto delle riflessioni storiche da trarre da questi 70 anni del PCI.