Mario Muner su Cento e un anno di poesia Cremonese ha scritto note di estremo interesse sul dialetto della città del Torrazzo, che non si limitano però alla parlata locale, perché esse vanno al cuore di tutti i problemi. Sono note che riguardano le matrici di un particolare modo di vivere e di pensare, condizionanti non solo l'espressione artistica ma anche la lettura della storia e dell'agire civile.
Muner dice in sostanza che la città di Cremona, pur essendo situata in una delle aree più attive ed animate del mondo, “non ha mai rinunciato, nel profondo della sua caratterizzazione, alla sua elementarità e alla sua immobilità: pari in tutto a un centro di gravità che, pur nel volgersi attorno ad esso delle orbite più varie, non rinuncia al permanere dei suoi valori d'origine e non tollera determinate alterazioni”.
Cremona muta la pelle, la superficie, ma non la sostanza, il corpo. Attorno a questo corpo stanno avvolte, infatti, culture camaleontiche che si adattano alle varie circostanze, con lungimirante e cinica maestria. Le apparenti e superficiali modificazioni politiche sono concepite come irritazioni della pelle, che vengono anestetizzate con cura. Quieta non movere, consiglia il motto latino, che è come dire “non agitare ciò che è tranquillo”. E qui il concetto è applicato con grande determinazione, coprendo con l'aggettivo ‘tranquillò le indolenze, le inadempienze e le occasioni mancate, col risultato di vedere migliaia di Cremonesi costretti, tuttora, a fare i pendolari e a rivolgersi altrove per lavorare e guadagnarsi da vivere.
La ‘tranquillità', la ‘marginalità della quiete, ‘l'eccentricità' cremonese
Questa situazione di ‘tranquillità' è pregna dello straniamento, del distacco dal divenire del tempo, e dell'impulso della marginalità, così come della ripulsa, del rigetto di ogni progetto e processo dinamico, imbalsamata da un bozzolo filato da pochi, che pongono, imperturbabili, il resto della città ai margini della storia. Tutto ciò spiega – dice ancora Muner - il perché di “certe singolari e, vorremmo aggiungere, sorgive vocazioni musicali e poetiche (ma anche in altri campi) della città e, nello stesso tempo, la sua riluttanza ad occuparsi troppo di chi incarna tali vocazioni”.
Infatti i coraggiosi che intendono incarnare tali vocazioni sono visti come ‘originalì, come eccentrici, come devianti dal centro di gravità, come óof fóora dèl cavàgn (come uova fuori dal cesto). Questi non allineati sono guardati con sospetto perché osano traguardare i confini esistenziali al di là del cortile di casa, in de l'èera, nell'aia. Essi sono consapevoli che esista un più ampio spazio che comprende il mondo conosciuto, a partire non da Urano e Plutone, ma da Crema, Mantova, Piacenza, per non parlare di Brescia, Bergamo e Milano. Sanno pure, questi ‘fastidiosì, che per operare servono tempi ‘tranquillì, ma non doppi o tripli rispetto al necessario.
Muner spiega che pure la parlata locale ha dovuto pagare lo scotto di questo magma cristallizzato, arrivando all'accantonamento, alla separatezza avvenuta per secoli, fra gli abitanti di Cremona e la loro stessa lingua, ritenuta, da chi si è sempre considerato appartenente ad una casta di eletti, rozza e non degna di essere elevata a strumento artistico. L'aver sminuito il valore del vernacolo cremonese è il marchio d'origine di un blocco politico e sociale predominante per secoli, i cui riflessi sono ancora visibili oggi; regno di quella insofferenza indicata da Muner, la quale ha figliato, a propria volta, la diffidenza verso la propria lingua materna, tanto da non ritenerla mai pronta a liberarsi dai gretti particolarismi ed ad aprirsi agli orizzonti elevati dell'arte letteraria e della poesia. Non per niente nelle case del patriziato locale, fino a tutto l'Ottocento, si è privilegiato il meneghino rispetto al cremonese, ritenuto la lingua dei servi, anche se usata da mercanti, artigiani, artisti, barcaioli e pescatori, operarii in pietra, carovanieri di muli, maniscalchi, lanaioli e così via.
È veramente stucchevole quanto accaduto alla parlata del Torrazzo, definita ‘illustrè da Dante Alighieri alla fine del 1° libro del De Vulgari Eloquentia, su questo trattato in lingua latina scritto tra il 1303 ed il 1305, e quindi nella fase crepuscolare del libero Comune di Cremona, che cessò d'esistere nel 1334.
L'attestazione del grande Vate d'Italia non fu sufficiente a far riconoscere, dai maggiorenti cremonesi, dignità al dialetto locale; dialetto che, con tutta probabilità, era ben vivo e colorito pure allora, zampillante di metafore, modi di dire e proverbi sulla bocca della gente comune.
Probabilmente, il potere delle caste locali, e dei loro privilegi, si accordò col nuovo signore della città, Azzone Visconti, el Kàn de la Bìsa (il Capo del biscione milanese), e da questa alleanza d'interessi non uscì di certo il desiderio di mettersi in sintonia con la lingua della gente minuta, e di concedere a questo lessico plebeo l'elevatezza di ruolo e di rango. Altrimenti come si spiega l'universale silenzio, la studiata disattenzione, lo strabismo culturale e linguistico dei cinquecento - sessant'anni che seguirono?
Si dovette infatti attendere sino al 1865 per scorgere in Melchiorre Bellini un poeta, con la lirica L'origine del Giubileo. A questa composizione, infatti, si deve la rinascita della poesia in dialetto cremonese, la cui vena era stata sotterrata per cinque secoli e mezzo nel buio tunnel della dimenticanza. Avvenne un miracolo, pur non essendo Bellini un santo ma un anticlericale, figlio di una tribolata stagione fagocitata da contrapposti fondamentalismi.
È opportuno, a questo punto, leggere cosa scrisse a suo tempo Dante, il sommo poeta, nel tracciare una specie di canone ascendente della realtà linguistica italiana, alla cui base andò a collocare proprio il dialetto cremonese: “Affermiamo dunque che questo volgare, che abbiamo dimostrato essere illustre cardinale, aulico e curiale, è quello stesso che si chiama volgare italiano. Infatti, come è possibile trovare un determinato volgare che è proprio di Cremona, così è possibile trovarne uno che è proprio della Lombardia; e come è possibile trovarne uno che sia proprio della Lombardia, così è possibile trovarne uno che sia proprio di tutta la sinistra d'Italia. E come il primo si disse cremonese, il secondo lombardo ed il terzo di mezza Italia, così cotesto che appartiene a tutta l'Italia si chiama volgare italiano”.
La scelta del dialetto cremonese, posto alla base di una scala ascendente di valori, ha certamente la sua spiegazione nel ruolo della città del tempo, del libero Comune sorto nel 1098, e del primato mantenuto da Cremona per alcuni secoli in Lombardia, e quindi l'essere stata ritenuta degna, la città, di rappresentare tutta la koiné linguistica di una vasta area padana.
L'attestazione del poeta fiorentino andò a riconoscere l'esistenza a Cremona di una lingua di pregio, d'eccellenza. Con la libertà comunale soppressa dai Visconti venne pure schiacciato il dialetto locale, facendo irrompere sulla scena il silenzio, la disattenzione, la quiete intellettuale, la ‘tranquillità'.
GLI INTELLETTUALI DUGENTESCHI DI CREMONA
GHERARDO PATECCHIO, UGO DA PERSICO, UGUCCIONE DA LODI
Certo sarebbe interessante conoscere a quale dialetto si riferisse Dante parlando della città del Torrazzo. Ascoltò questa parlata direttamente a Cremona? O la studiò sulle pagine scritte dagli intellettuali cremonesi, quali Gherardo Patecchio, Ugo da Persico ed Uguccione da Lodi? I tre autori cremonesi erano infatti molto conosciuti all'epoca dell'Alighieri, perché insieme a Bonvesin da la Riva, Pietro da Bersegapè, Giacomino da Verona, essi erano stati gli artefici del “lombardo illustre”, quella lingua romanza che successivamente si sarebbe spenta di fronte alla concorrenza della lirica toscana e del successivo e prorompente Dolce Stilnovo. È probabile, comunque, che Dante sia passato dalle parti del Po. Così come è certo che gli Autori del Duecento cremonese fossero precursori, più o meno illustri, del grande poeta fiorentino. Essi crearono, insieme agli altri autori padani, i presupposti per la creazione della lingua nazionale, svolgendo nel contempo la funzione di progenitori del cremonese letterario. O meglio ancora: essi furono quegli artefici, che partendo dal volgare cittadino, crearono le condizioni di una nuova lingua, molto affine all'italiano, ma pure distinta da esso. Quest'ombra di lingua letteraria, specialmente al settentrione, si spense ed i vari dialetti tornarono a restringersi nei loro limiti territoriali. Così avvenne pure per la parlata cremonese abbandonata ed accantonata al proprio destino d'orfanella.
LO ‘SPLANAMENTÒ E LE ‘NOIÈ DI GIRARD PATEG
Ma vediamoli, ora, ad uno ad uno, questi Cremonesi del <<volgare illustre>>.
Il primo di essi è un poeta che viene ricordato con un nome che si rifrange in varie modalità: Gerardo, Girardo, Girard Pateg, o Gherardo Patecchio, battistrada fra i rimatori della nostra letteratura nazionale. Questi fu notaro a Cremona, dove visse dal 1197 al 1238, e uomo di fiducia di Uberto Pallavicino, podestà e signore della città. Le sue due maggiori opere sono lo Splanamento (=spiegazione) de li Proverbi de Salomone e le Noie. Al catalogo degli ammaestramenti morali sul modello dei proverbi attribuiti a Salomone, il notaio cremonese inserì elementi diversi, quali l'Ecclesiastico o i Dicta Catonis, testi fondamentali della cultura medioevale, senza rinunciare d'aggiungere elementi desunti dalla cultura popolare.
Lo Splanamento, scoperto nel 1886 da Adolfo Tobler in un codice della biblioteca di Berlino, è un poemetto costituito da 606 versi rimati a coppie, fra i quali sono di notevole interesse i versi della parte dedicata interamente alle donne. Le Noie, invece, sulla falsariga dell'enueg provenzale, raccolgono e presentano alcuni aspetti della vita che danno noia e fastidio, contrapposti a fatti e persone che ispirano gioia.
Una terza opera, il De Tedìis, citata cinque volte da Salimbene da Parma sulla sua Cronica, fu scoperta dal cremonese Francesco Novati, nel 1896, in un codice della biblioteca di Brera. Una quarta operetta, riguardante il contegno del Marchese di Monferrato verso gli scudieri, citata ancora da Salimbene, è invece andata perduta.
Nella suddivisione delle parti dello Splanamento sono presenti alcuni termini che richiamano il dialetto cremonese dell'epoca, un dialetto probabilmente contagiato dal veneto: 1° Prologo; 2° De la lèngua; 3° De soperbia e d'ira e d'umilitate; 4° De matèza e de màti; 5° De le fèmene; 6° D'amigo e d'amistate; 7° De riqeça e de povertate; 8° D'ogni cosa comunalmentre; 9° Epilogo.
La produzione artistica di Patecchio viene a riflettere il desiderio diffuso nel suo tempo di una immediata partecipazione dei laici alle cose e alle parole della fede.
Gioacchino Volpe ci indica una ragione che può portarci a meglio comprendere tutta questa viva stagione culturale: “La sostituzione delle lingue volgari al latino non deriva dalla loro minore e maggiore maturità, né da alcuna virtù intrinseca della parola, ma è la manifestazione naturale di quel profondo rinnovamento delle coscienze e di quel mutamento dello spirito e della aspirazioni religiose, che ha i suoi segni nella storia e nelle vicende delle sette ereticali del secolo XII”. Come dire: è il volgare artistico il segno del cambiamento, del rinnovamento, della vita che si rigenera; il dialetto, il volgare fu contrapposto allo sbadiglio e alla ‘tranquillità' dei poteri feudali dell'epoca.
Anche Piero Cudini scrive che la cultura settentrionale, che si svolge e si diffonde tra la metà e la fine del Duecento, è influenzata in buona parte dai movimenti ereticali. Quegli scrittori si orientarono a diventare divulgatori di esigenze morali e spirituali, e vennero ad assumere caratteri sostanzialmente laici “nella tendenza stessa all'affermazione del mito, della favola, della tematica fortemente didascalica”. Essi usarono “impronte linguistiche fortemente personali, caratterizzate dalle più specifiche forme dialettali locali”. E parallelo all'uso delle parlate popolari vi è pure l' interesse sull'indirizzo specifico che li muove ad operare.
Ed è quello di essere interpreti di ‘moralità' proprie del contesto urbano in cui vivono. Vi è quindi nella loro scrittura un'associazione binaria fra lingua e costume, di lingua figlia di quell'etica, e di un'etica e di comportamenti che si esprimono in quella lingua. Una lingua usata come una spugna, aperta ad assorbire vari contagi; una lingua che si trovò a rapportarsi col provenzale trobadorico, col siciliano illustre della corte imperiale itinerante di Federico II (1194-1250), il grande personaggio medioevale che scelse proprio Cremona quale sede centrale del suo permanere in Val Padana, presidiando da qui tutta l'Italia Settentrionale.
E venne ad essere coinvolto in tale crogiuolo linguistico il primo poeta volgare fiorito in Lombardia, Gherardo Patecchio, appunto. La sua produzione poetica, insieme a quella di altri prosatori e poeti municipali lombardi, portò un contributo alla gemmazione di quella prospettiva estetica che avrebbe raggiunto con gli autori toscani una valenza straordinaria, tale da imporsi con Dante Alighieri a modello della lingua nazionale italiana. Alla corte cremonese di Federico II, il volgare che fino ad allora era stato usato al mercato, o solo nelle cucine del palazzo imperiale, trovò la strada per essere accolto nell'aula maggiore della corte stessa, ed essere ascoltato ed apprezzato.
Vediamo ora i versi alessandrini in distici dell'inizio dello Splanamento.
È nome del Pare altissimo e del Fig beneeto
e del Spirito Santo, en cui forsa me meto,
comenz e voig fenir e retrar per rason
un dret insegnamento ch'afermà Salomon.
Nel nome del Padre altissimo e del Figlio benedetto
e dello Spirito Santo, alla cui forza mi affido,
inizio e desidero concludere ed ottenere per mia ragione
un retto insegnamento come affermò Salomone
Ed ora invece leggiamo altri versi sulle donne, scritti sempre da Gherardo Patecchio, su un filone d'indirizzo non scevro da quella misoginia estetica che si sviluppò parallela al raffinato ‘amor cortesè.
Qi nudriga puitana…
Qi nudriga puitana fai mal, q'elò è autrui,
e sì ie perde ‘l so, e no retorna en lui.
Com femena d'autr'omo non se vol trop sedhere,
qé l'omo sèn dà guarda, èn blasmo ‘n po' caçere.
Chi nutre una puttana fa male, diventa altro da sé,
così egli perde il senno, e non ritorna più in lui.
Con femmina d'un altro uomo non ci si può troppo intrattenere,
perché l'uomo deve stare attento, e nel biasimo può cadere.
Gherardo, Ugo ed Uguccione
i tre poeti cremonesi del volgare illustre
Detto fra noi: i critici moderni non sono molto magnanimi con Gherardo Patecchio, al quale attribuiscono un livello letterario non molto elevato. Va pur detto, però, che la finalità della scrittura del notaro cremonese non era stata tanto quella di raggiungere particolari picchi estetici ma di promuovere insegnamenti etici.
Il fatto stesso che negli anni dell'ultimo dopoguerra una personalità come Emilio Zanoni, fine latinista e sagace vernacoliere, abbia assunto lo pseudonimo di Patecchio a firma dei propri elziviri sull'Eco del Popolo, giornale storico dei socialisti cremonesi, vorrà pur significare qualche cosa.
I Cremonesi hanno fatto dunque bene - lo riconosce pure il prof. Gianfranco Taglietti, a dedicare a Patecchio una via, a “questo notaio, onesto e cavaliere”. Questa strada, già Contrada Angusta fino al 1930, si irradia da via Gonfalonieri (ingresso sud del palazzo comunale) verso via Platina, ed è collegata con i vicoli di San Girolamo e Galantino alla via intitolata al grande vescovo Sicardo. Passando in questo reticolo urbano si viene coinvolti da un intreccio di riferimenti che rimandano anche a sant'Omobono, patrono della città, morto il 13 novembre 1197, primo santo laico della storia della chiesa, voluto con determinazione dallo stesso Sicardo. Questi, a sua volta, chiuse gli occhi al mondo nel 1215, nell'anno stesso in cui Federico II venne incoronato imperatore ad Aquisgrana. Tale assetto viario richiama, nelle evocazioni toponomastiche, proprio l'imperatore svevo, Federico II appunto, l'imperatore che investì d'arte di cultura ed esotismo la città di Cremona, negli anni fra il 1236 e il 1250. Infatti è alla sua corte itinerante situata a Cremona (secondo le ricerche di mons. Franco Tantardini dalle parti dell'attuale via Fogarole), che venivano a trasferirsi gli esiti dell'innovativa letteratura del volgare illustre siciliano (dove con ‘sicilianò è da intendersi ‘nazionalè e cosmopolita), incontrando in loco la cosiddetta poesia didattica del nord.
È in questa stessa corte, aperta al confronto interculturale fra diverse opzioni linguistiche (normanne, sveve, latine, provenzali, greche, ebraiche, arabe), che venne pure a stabilirsi un necessario rapporto col volgare illustre cremonese, citato da Dante Alighieri nel suo De Vulgari Eloquentia.
Questo dialetto cremonese illustre, ai tempi di Federico II, era il volgare di Gherardo Patecchio (1197-1238) e di Ugo da Persico (coevo di Patecchio), che Dante associò a quello cremonese-veneto successivo di Uguccione da Lodi, del quale non si conosce con precisione l' anagrafe. Quello che si sa della famiglia Lodi deriva, infatti, da documenti della Cremona medioevale datati a partire dal 1270. Si suppone, però, che tale famiglia fosse presente in loco dal 1155, dal tempo della distruzione della città d'origine (Lodi) da parte dei Milanesi.
Il linguaggio, la comunicazione, la scrittura strumenti politici e diplomatici da sempre.
Abbiamo già accennato alla particolare attenzione rivolta alle donne in alcune pagine dello Splanamento di Patecchio, una delle opere pervenuteci del notaio cremonese. In verità più che alle donne i versi sono particolarmente rivolti, come un grido di raccomandazione, agli uomini avvisati di non cadere nelle trappole dell'altra parte del cielo, o all'altro sesso, come meglio si vuol dire. Leggiamone alcuni.
Agli ogli…
Ai ogli, quando i leva
se cognos en presente
la grant parte de le femene
q'a luxur?a tende.
Meig fa l'om s'el sta sol
en qualqe volt'ascosa
Qe s'el stes en palese
con femena noiosa.
Agli occhi… (traduzione letterale)
Agli occhi, quando si posano
conoscono subito
la gran parte delle femmine
predisposte alla lussuria
Meglio fa l'uomo a starsene solo
in qualche volta nascosta
piuttosto che se ne stesse in modo palese
con femmina noiosa.
Agli occhi… (traduzione libera)
Alla prima occhiata è subito manifesta la gran parte delle femmine che ci stanno. Meglio starsene da una parte in solitudine sotto qualche androne nascosto piuttosto che scopertamente con una femmina pruriginosa.
Nello Splanamento hanno pure un qualche interesse gli squarci dedicati all'amicizia vera contrapposta a quella falsa come evidenziano i seguenti versi.
Mieg è un amig visino…
Mieg è un amig visino
qi l'à presso de cà,
qe un fratel luitano:
b?ad a cui Deu ‘l dà.
Quel non è bon amigo
qe parla con doi lengue
e va menand sofismi
e briga con losemg[h]e.
Meglio è un amico vicino…
Meglio è un amico vicino
chi ce l'ha presso casa
che un fratello lontano:
è fortunato colui al quale Dio lo assegna.
Non è buon amico
colui che parla con lingua biforcuta
e si esprime con ragionamenti ingannevoli
e lusinga con adulazioni menzognere
Non è cossa en ‘sto mondo
ch'a l'amig vaia mai
tanto como laudarlo
del ben q'el dis e fai:
per le dolce parole
sì s'acata i amisi,
mai qìg va rampognando
sì fai dig dreti bisi.
Non è cosa di questo mondo
che l'amico non sbagli mai
tanto come lodarlo
del bene che dice e fa:
con le buone parole
si procurano gli amici
quelli che criticano sempre gli altri
mai li raddrizzerai
se sono biechi e storti.
Interessante è l'ipotesi formulata da Fulvio Stumpo sulla personalità e sul ruolo del notaio Patecchio nel quadro storico cremonese, a cavallo fra il XII e il XIII secolo. Stumpo presume infatti, su Cremona nella grande letteratura, una delle sue fatiche, che Patecchio fosse un esponente politico. Ed io credo proprio che egli abbia ragione. È arguibile pensare che il notaio Patecchio facesse politica proprio attraverso il ruolo autorevole di funzionario del Comune di Cremona. Egli, da quella posizione, sentiva il polso della città, e poteva rendersi conto della portata dei movimenti e delle agitazioni che dal basso scuotevano il clima sociale all'ombra del Torrazzo. Col bagnare il suo dire nell'acqua del dialetto popolare, Patecchio guardava avanti, come ogni buon diplomatico. Con un piede camminava con l'aristocrazia, con l'altro muoveva passi e sfumature dialettiche col popolo patarino in fermento. Da questo buontempone e pittoresco diplomatico cremonese, vale a dire da Patecchio, fino al francese reazionario, rivoluzionario, repubblicano, bonapartista, monarchico Charles Maurice de Talleyrand (1754-1838), campione assoluto del camaleontismo, la storia locale e quella mondiale ridondano di personaggi che galleggiano sempre, come turaccioli di sughero, fra le onde e la quiete della storia.
Girard Pateg era, comunque, in buona compagnia. Con lui possiamo associare il secondo rimatore cremonese, Ug de Perseg, o per meglio dire Ugo da Persico, amico e rivale di Patecchio stesso, che “ci si presenta – scrive Giovanni Gaetano Persico su Le Noie Cremonesi (Modena, 1951) – talvolta nell'austerità un po' distanziante dell'uomo superiore, avvolto nel suo orgoglio gentilizio, (che) non manca poi di rivelarci una sua affabilità scherzosa, un umorismo, sia pur contenuto, ed un senso discreto di ironia”.
La critica letteraria e i ‘noiosi cremonesì
Entrambi, Girard e Ug, chiamati dalla critica letteraria “i noiosi cremonesi”, autori in competizione sul poemetto Frotula noiae moralis (‘Frottola di noia moralè), pure chiamato ‘Libro delle Noiè o più semplicemente Le ‘Noiè, devono aver colto, nello scatenarsi dei tumulti e delle lotte della vita comunale, che bisognasse trovare una mediazione con il ‘generonè popolare. Che bisognasse, insomma, quantomeno adottarne parte del pensiero e del linguaggio, col fine ultimo di salvaguardare e ribadire il primato dell'aristocrazia ed il loro personale ruolo e posto, con un'ampia disponibilità a qualsiasi cambiamento di rotta e di vento.
Gherardo si era costruito tutta la carriera standosene in casa, o al massimo recandosi a Parma, per avviare e concludere con questa città, nel 1228, le trattative per una “pace giurata” ai danni di Piacenza.
Ugo invece si era giocato i gradi in una trasferta internazionale, come dicono i documenti medioevali che ce lo presentano (con tutti i dubbi del caso) quale ambasciatore del Comune di Cremona, nel 1213, a Ratisbona, presso il diciannovenne Federico, da poco re di Germania. Da questi, il diplomatico e rimatore Ugo ricevette il solenne documento col sigillo d'oro, confermante i privilegi concessi ai cremonesi da Federico Barbarossa e da Enrico VI, rispettivamente nonno e padre del futuro imperatore Federico II, il quale, a propria volta, avrebbe regalato in seguito persino un elefante ai Cremonesi, entusiasti e sbalorditi dal giovane svevo ormai osannato come Stupor Mundi.
La conoscenza poetica di Ugo da Persico ci è pervenuta attraverso le “risposte per le rime”, scritte all'indirizzo dell'amico rivale Gherardo. Ne riportiamo alcuni versi a vivace testimonianza, tratti dalla terza ed ultima parte delle Noie ritrovate in un manoscritto in stato precario, vale a dire nello zibaldone quattrocentesco di Bartolomeo Sachella. Per chi lo volesse, i due rimatori cremonesi possono essere letti nei Poeti del Duecento di Gianfranco Contini, un testo sul quale, come scrive Giampaolo Dossena, sono “un po' tradotti, un po' commentati, un po' da indovinare”.
Cançioneta…
Cançioneta, vatin senza buxia
ad Gerardo Patecio per la via,
in cui è tutta noya et tutta gioya,
Canzonetta, vattene senza bugia
verso Gherardo Patecchio per la dritta via,
dove è tutto noia e tutto gioia,
sì k'altro homo a lui non s'apoya.
Eo non me curo de compagna croya
ne la mè caxa, kè non ò voya.
così che un altro uomo non abbia modo
di gareggiare con lui.
Io non mi curo dell'insulsa compagna
nella mia casa, perché non ne ho voglia.
Giovanni Gaetano Persico, nello studio di filologia romanza riguardante il probabile antenato, ha sottolineato che nella contesa poetica Ugo si è preoccupato di rispondere all'amico con un elenco di noie assai più lungo di quanto non abbia fatto il suo cortese sfidante. Ha insomma voluto dimostrare di raccogliere tutte quelle noie, lasciate indietro dall'amico, pur sempre rivale.
Ed ora veniamo al terzo rimatore didattico del dialetto cremonese illustre: Uguccione da Lodi.
Fu il filologo Ezio Levi su Poeti Antichi Lombardi (Milano, 1921), a sostenere, con appropriata ragione, che Uguccione appartenesse alla nobile famiglia dei Da Lodi, provenienti in origine dalla città abduana, ma abitanti da più di un secolo a Cremona. Il segno della loro antica presenza è dato, ancor oggi in città, dall'attuale piazza Lodi, già piazza San Tommaso, che prese tale denominazione dal palazzo dell'omonima famiglia estintasi nel 1800, la cui abitazione avita ospita attualmente la sede della fondazione Arvedi-Buschini.
Al di là di questa nota, e della tesi che Uguccione sia coetaneo di Patecchio, non si conosce nulla della sua vita. Il nome di questo poeta cremonese viene segnalato in un codice berlinese come Uguçon de Laodhoci.
Il suo Liber è un poemetto di 702 versi suddivisi in strofe monorima. È scritto in un dialetto cremonese fortemente contagiato dal volgare veneto, ed inframmezzato da parole provenzali.
Scrive Aldo Rossi su Le origini e il duecento: “L'intera opera ruota attorno al tema centrale della giustizia divina, materia affrontata e descritta attraverso meditazioni sui peccato dell'uomo, la descrizione delle pene infernali, i propositi per la penitenza. In alcuni casi Uguccione si rivolge direttamente ai suoi lettori con tono familiare e diretto, richiamandoli alle virtù da vivere e alle gioie future del paradiso>>. Le sue mosse oratorie d'umile familiarità sono riscontrabili in versi che dicono: ”Se voi me volé crere (Se voi mi volete credere)”, “Tuti devé saver (Tutti dovete sapere), ecc.”. L'intenzione è quella di entrare in contatto col grande pubblico, senza usare concetti e parole troppo oscuri. Uguccione cerca il colloquio con la divinità per ringraziarla delle rivelazioni che ha fatto all'uomo, il quale tuttavia è tanto irriconoscente da non vivere secondo i suoi dettami e da abbandonarsi alle futilità e alle gioie transeunti del mondo terreno. La retta ragione ha diritto ad un ascolto. E noi la ascoltiamo volentieri, interpretando queste parole della ragione, scritte nel XIII secolo, come un saggio consiglio nel mentre stiamo concludendo la bella esperienza con Cronaca. Lo facciamo, però, non prima di aver ringraziato il direttore Mario Silla, per la sua signorilità ed amicizia, e gli impaginatori Attilio Bardelli e Simone Bacchetta, con i quali è stato gratificante lavorare. Salutiamo inoltre gli affezionati lettori per i consigli che ci hanno inviato e la felice collaborazione. Un caro saluto a tutti.
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Queste parole è bone…
Queste parole è bone
et utel da ‘scolatar,
e sì farà quelor
qe vorà Deu amar
e vorà le soi aneme
costedir e salvar;
Queste parole sono positive ed utili da ascoltare
e così faranno coloro che vorranno amare Dio
e vorranno le loro anime custodire e salvare
mai lo plu de la çente
vol aver guadagnar
e no pensa de l'anema
là ò ela dibì andar.
ma la maggior parte della gente vuole solo avere e guadagnare
e non pensa all'anima là dove essa è destinata
Mai ogn'om po' saver,
s'el se vol ben pensar:
la grac?a de Deu,
nul om la po' trovar
per çaser en bon leto
e dormir e paussar,
per bever forte vino
né per tropo mançar,
per bele vestimente
né anc per ben çalzar:
no vol çugar a scaqi,
a taole né ad açar.
Ma ogni uomo può sapere se vuole ben riflettere
che la grazia di Dio nessun uomo la può trovare
standosene sdraiato in un buon letto a dormire e poltrire,
bevendo a dismisura vino e mangiando come un porcello,
vestendo bellamente e anche calzando scarpe di lusso:
non vuol giocare a scacchi, a tric trac né a zara.
Guai a quelor qe molt
entende a fornicar
e de l'autrui aver
sempre vol soçernar,
sì q'en rëa mesura
lo devés rapinar.
Guai a coloro che molto desiderano fornicare
e sempre vogliono godere degli altrui averi,
come se in modo truffaldino intendano rapinare il prossimo.
Per amor Deu, segnori,
meté-ve a castigar,
pregai lo Re de glòoria
qe ve degne dreçar
e [n] mantegnir bone ovre
e le rëe laxar.
Per amor di Dio, signori, impegnatevi nel pentimento,
pregate il Re della gloria che vi debba raddrizzare
conservando le opere buone ed abbandonando le cose nefaste.