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Labour Day 2021/2

"1° maggio 2021" di Domenico Cacopardo

  01/05/2021

Di Redazione

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Continua, nonostante temporalmente la ricorrenza a termini di calendario sia in esaurimento, la riflessione collettiva della nostra testata sul significato della celebrazione. 

Ormai avviata, anche per l'incidenza restrittiva delle modalità relazionali negli eventi pubblici, ad un quasi completo esaurimento del suo potere evocativo e didascalico. 

Mentre, pur rinunciando di buon grado al corollario dell'effimero, il suo background mantiene piena motivazione. Anzi acquisisce dai tornanti delle ultime due decadi e dall'indotto del fenomeno pandemico ulteriori elementi per riprendere e spingere in avanti l'attenzionamento e l'analisi sulla centralità del lavoro. 

Non siamo proprio alle spallucce generalizzate prodotte dalla diffusa neghittosità di fronte ad una questione che si ritiene abbia perso centralità; ma poco ci manca. Sorprende (o forse no!) che il campo politico e sociale, che più di ogni altro player comunitario dovrebbe percepirlo come core business, agisca in una prospettiva fatalistica. 

È comprensibile che alcuni ambienti del campo progressista (come si diceva un tempo) possano essere alle prese con l'imbarazzo di molti scheletri nell'armadio. Meno si comprende l'accettazione di un ménage a minimo sindacale. 

Le politiche del lavoro e la definizione di un nuovo contratto sociale, adatte a recuperare nuovi equilibri e maggiore efficienza dell'impianto economico, divengono un imperativo ineludibile. Pena lo scivolamento su terreni di ulteriore compromissione della sostenibilità del sistema. 

In materia ci avvaliamo, su autorizzazione dell'autore, di una importante riflessione di Domenico Cacopardo, già Presidente di Sezione del Consiglio di Stato ed attualmente scrittore ed analista di importanti testate.

1 maggio 2021

La celebrazione odierna -che Pierpaolo Bombardieri, segretario generale della Uil (il sindacato riformista) verrebbe dedicare ai lavoratori caduti per Covid sul lavoro (e non) e per coloro che hanno perso la vita esercitando un'attività dipendente non nel settore sanitario- ha comunque assunto la fisionomia di quei riti -di cui è esperta particolare la Chiesa cattolica- incomprensibili ai più che si ripetono stancamente più per abitudine che per convinzione. 

Sappiamo bene che questo Paese ha subito una serie di mutazioni sostanziali -in peggio e in meglio, intendiamoci- che hanno spostato i termini delle discussioni e riposizionato i soggetti del sistema. Per esempio, il sindacato aveva abbracciato la via dell'unità d'azione sulla spinta dei socialisti al governo (cosa per la quale il governo non poteva più essere il «nemico» designato tout-court), e aveva intrapreso con successo la strada del riformismo, cioè del sostegno delle istanze riformiste provenienti dal basso, cioè dalla base, incrociandole con quelle che i socialisti stessi prospettavano nelle sedi governative e ministeriali. Per esemplificare, il patto sulla scala mobile, sfociato nel documento della notte di San Valentino 1984, era la conclusione di un lunghissimo confronto tra governo e parti sociali, durante il quale, passo dopo passo, erano state messe a punto tutte le misure che avrebbero accompagnato -come accompagnarono poi- il taglio della scala mobile. Un processo negoziale di dimensioni mai viste prima, né dopo cui, alla fine, inferse un colpo di sciabola Enrico Berlinguer vietando a Luciano Lama, segretario generale della Cgil, di firmare il «patto» che aveva contribuito a definire. 

Nelle fasi successive, quelle del «liberi tutti» conseguente a «Mani pulite», con l'avvento di Sergio Cofferati, la Cgil si sottrasse alla dialettica riformista -che peraltro andava spegnendosi- e, salvo l'episodio di «Concertazione sociale» voluta da Carlo Azeglio Ciampi e rimasta più «Concertazione verbale» che sostanziale- il dialogo è andato spegnendosi. Con Cofferati, uomo politico tetragono e privo delle flessibilità vitali per esercitare il mestiere di sindacalista, tutto è rimasto come sospeso in un limbo di incertezze. Era evidente che si dovessero riformare pensioni e mercato del lavoro e che era meglio (almeno per il sindacato a egemonia comunista) procedere alle riforme con un governo di centro-sinistra che con un governo di centro-destra. Ignorando l'opportunità, Cofferati silurò le riforme prospettate dal governo D'Alema (che in ogni caso avevano il pregio di volersi realizzare nel 1998, 15 anni prima dell'intervento della Fornero: il tempo è fattore cruciale nel settore e guadagnare 15 anni avrebbe risparmiato sacrifici proprio ai lavoratori) e, insieme, determinò l'esaurirsi del primo governo diretto da un ex-comunista, che aveva imboccato con decisione e lungimiranza la via della solidarietà occidentale e atlantica e puntato alle riforme irrinviabili. Poi rinviate proprio per l'opposizione di Cofferati. 

Tutti questi elementi per rappresentare il ruolo significativo che nella società italiana ha rivestito e riveste il sindacato che, peraltro, è diventato un'organizzazione conservatrice e, quindi, incapace di cogliere i mutamenti di quadro politico, economico e sociale. 

C'è anche da ricordare che il sindacato è forte e imprescindibile nei momenti di grande sviluppo, quando si è prossimi alla piena occupazione. Caso questo accaduto una sola volta nella storia d'Italia, prima della crisi degli anni '70. Poi, ci siamo attestati su livelli elevati di disoccupazione endemica con numeri preoccupanti che peraltro descrivevano una realtà diversa da quella reale. Nel senso che in Italia da sempre c'è una percentuale di non occupati che lavora in nero; che non lavora affatto e vive di soccorso familiare e statale; che non ha alcuna delle specializzazioni richieste dal mondo produttivo. Insomma, -e dobbiamo dircelo francamente- c'è una disoccupazione fisiologica collegata alla non attitudine al lavoro di molti, alla presenza distorsiva di protezioni sociali, alla insufficiente -o mancante del tutto- coordinazione tra il mondo della scuola e della formazione (non a caso, oggi, uno dei rimedi immaginati, è un grande investimento negli istituti tecnici) che forma i giovani per lavori non richiesti. 

Naturalmente, nei momenti di crisi il sindacato è debole proprio perché la crisi riduce le occasioni di lavoro e, quindi, gli occupati fanno prevalere il loro interesse alla stabilità rispetto alla, anche ovvia, conflittualità.  

Oggi, la crisi è vasta e di difficile soluzione. Le regole vorrebbero che il sindacato, consapevole dei problemi, iniziasse una strada di cooperazione sulla via delle riforme -dell'apparato pubblico statale, regionale e comunale in particolare- per consentire al sistema Paese di approcciare la ripresa con rapidità e flessibilità, rinviando al dopo alcuni problemi importanti sì, ma meno importanti del riportare la gente nei posti di lavoro. 

Insomma, questo non è il momento di rivendicare garanzie, contratti a tempo indeterminato, miglioramenti salariali. Questo è il momento di allargare il numero degli occupati e, allargandolo, incrementare le occasioni di stabilità. 

Anche se -e lo dico in modo responsabile- la «stabilità» è la migliore alleata della mancanza di competitività, mentre la «precarietà» (che è la condizione fisiologica nel mondo) spinge i migliori verso tassi di ragionevole stabilità e incentiva la produttività. 

Negli Stati Uniti che, in questo campo, sono avanti e di molto, sono il sindacato e il lavoratore i nemici dell'assunzione a tempo indeterminato, giacché ognuno vuole essere padrone del proprio destino e, quindi, selezionare il datore di lavoro come il datore di lavoro seleziona gli aspiranti a una occupazione presso di lui. 

Il mercato, oggi, è della domanda (di lavoratori) non dell'offerta (di lavoro). 

Se questo 1° maggio fosse il giorno in cui tutti prendono atto della situazione reale, vi si adeguano e partecipano alla progettazione e realizzazione di un futuro migliore sarebbe un giorno da celebrare. 

Mi sembra tuttavia che le pretese avanzate dal segretario generale della Cgil Maurizio Landini sono tutte di segno opposto. Quindi o non realizza la situazione o, se la realizza, adotta formule propagandistiche inidonee a diffondere realismo e fiducia nel futuro.

Domenico Cacopardo

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