L'ECOSTORIA Riflessioni sui nuovi poteri richiesti dalle Regioni Lombardia, Veneto ed Emilia allo Stato di Giuseppe Azzoni
È di grande attualità la discussione sui nuovi poteri richiesti dalle Regioni Lombardia, Veneto ed Emilia allo Stato. Essa si inquadra in una lunga vicenda che riguarda la forma dello Stato italiano. In merito appare quasi un “riassunto delle puntate precedenti” questa ricerca (che tocca anche personaggi cremonesi)...
VERSO LO STATO UNITARIO
Sappiamo che lo Stato nazionale italiano si formò in ritardo rispetto agli altri grandi Stati europei. Sulla forma che esso avrebbe potuto assumere ci fu, negli anni che portarono all'unificazione, un notevole dibattito. Riferendomi ad alcuni dei protagonisti dello stesso riassumo schematicamente le fondamentali posizioni che si confrontarono. Parliamo di protagonisti del Risorgimento innovatori, contrari ai vecchi poteri assoluti restaurati col Congresso di Vienna del 1814-15.
Vincenzo Gioberti prospettò il formarsi di una confederazione degli Stati presenti in Italia all'epoca. I relativi poteri dinastici dovevano innovarsi in senso costituzionale quindi formare una “Unione confederale della Nazione Italia” con una unificante autorità morale attribuita al papato ed una responsabile primazia politico militare del Regno di Sardegna. Questa posizione sarà chiamata “neoguelfa”, ad essa guardarono personalità come Antonio Rosmini, Alessandro Manzoni, Nicolò Tommaseo ed altri.
Vi si affiancò una posizione cosiddetta “neoghibellina” che ne ricalcava il progetto differenziandosi su due punti: 1) la Confederazione iniziava a formarsi mettendo al primo posto l'azione del Regno di Sardegna per affrancare subito dall'Austria il lombardo – veneto e creando così un Regno unico a nord del Po; 2) confederarsi con i Sovrani degli altri Stati italiani senza però attribuire alcuna particolare autorità al papato ed al clero. Neoghibellini furono considerati Cesare Balbo, Massimo D'Azeglio... L'idea confederale e relativi progetti rimasero nell'aria per breve tempo, si ipotizzò una “Lega doganale italiana”, ci fu una fugace simpatia di Pio IX senza alcun seguito.
Più incisiva fu l'ampia ed articolata corrente innovatrice dei Radicali, con l'apporto dei mazziniani, repubblicani, liberaldemocratici. Si batteva per uno Stato repubblicano e laico con suffragio universale e forti riforme, a partire dall'istruzione obbligatoria per tutti. In questo schieramento si delineavano due posizioni. Giuseppe Mazzini e l'ala repubblicana intransigente erano per il totale superamento degli Stati esistenti in Italia e per instaurare uno Stato italiano unitario e repubblicano, con principi avanzatissimi (come quelli della Repubblica romana del '49). In effetti essi vedranno poi affermarsi lo Stato unitario ma non certo su quella base repubblicana e politicamente avanzata. Un'altra posizione dello schieramento radicale (che ad un certo punto prende atto della realtà e – pur mantenendo l'orizzonte strategico repubblicano - decide di partecipare intanto attivamente alla lotta politica e militare risorgimentale all'interno delle Istituzioni del Regno di Sardegna) ritiene che occorre riconoscere, con una scelta federalista, le profonde differenze presenti nel Paese, instaurando altresì ampie forme di autonomia locale. Dunque una Italia, liberata dallo straniero, come Repubblica federale di Stati fortemente innovati e democratici. È la proposta di Carlo Cattaneo, affiancato da Giuseppe Ferrari ed altre notevoli personalità. Essi sottolineano altresì, partendo dai caratteri della Lombardia, come sia radicata negli italiani la storia e la presenza delle città e dei Comuni e come essi vadano rispettati e promossi.
Queste posizioni sono però minoritarie. Prevarrà una corrente risorgimentale composita, dai moderati conservatori e liberali a progressisti e garibaldini, che prospetta uno Stato unitario. Essa si afferma come più realistica già a fine anni '40 e si concretizza nel processo con cui i vecchi Stati vengono definitivamente superati ed annessi tramite plebisciti al Regno di Sardegna.
Si giunge dunque - attraverso insurrezioni, repressioni, guerre d'indipendenza, spedizione dei mille, alterni rapporti con altri Stati europei - allo Stato unitario per successive annessioni plebiscitarie al Regno di Sardegna che diventa Regno d'Italia.
Stato unitario (e non federale) che poteva però essere aperto ad effettive autonomie locali ed anche a qualche forma di regionalismo ma nacque in forma chiusa ed accentrata.
TUTTI I POTERI NELLO STATO CENTRALE.
La proposta federalista si era spenta anche nei fatti già nel 1848- 49. Infatti a Milano, per breve tempo sgombrata dagli austriaci e prima che fosse rioccupata, il Governo provvisorio Casati, presente Cattaneo, ne discute ma prevale nettamente la linea della unione al Piemonte (con lo Statuto Albertino appena promulgato), così accade a Venezia.
Del resto nel 1848 Carlo Alberto aveva nominato Vincenzo Gioberti presidente del consiglio dei ministri, ma appena questi dette segno di voler riesumare il suo disegno neoguelfo confederale, a soli due mesi dalla nomina, venne sostituito.
È dunque decisa ed irrevocabile la strada della monarchia costituzionale in uno Stato unitario. Questo peraltro era un punto fermo dell'accordo - “il connubio” - tra diverse forze politiche egemoni nel risorgimento: dai liberali di Cavour alla destra di Urbano Rattazzi. Accordo rafforzato dal fallimento di tentativi repubblicani e più avanzati come quello della Repubblica romana o le insurrezioni di Livorno, Genova per non parlare dello sbarco di Sapri del 1857. Lo Stato italiano si forma per successive annessioni al Regno di Sardegna con giuramento di fedeltà ai Savoia. Le differenze anche profonde tra i vari territori nelle legislazioni, nelle amministrazioni, nella fiscalità, nei codici ecc. vengono azzerate con l'estensione per decreto delle normative vigenti nel Piemonte. L'impianto per l'amministrazione del territorio era quello del decreto Rattazzi del 1859, “Ordinamento dei Comuni e delle Province”. Era di netta impronta francese – napoleonica e lo si applicò ai territori annessi, a partire dalla Lombardia. Col passaggio all'unità d'Italia – 1861 e primi anni successivi – nel Parlamento di Torino si esaminarono possibili soluzioni più rispettose delle varie realtà e meno “calate dall'alto”, sia per le leggi che per l'invio di burocrazie piemontesi mandate in giro ovunque ad applicarle. Non si parlava più di federalismo ma di decentramento, di autonomie locali, di regionalismo, ben compatibili con lo Stato unitario. Da tempo lo stesso Mazzini o Cattaneo ed altri portavano avanti questi discorsi. Mazzini e gli altri parlano del Comune come della comunità civile naturale di base e delle Regioni come soggetti intermedi tra i Comuni e la Nazione. Dunque istituzioni capaci di coinvolgere, rendere partecipi, interpretare le differenze nei modi di vivere, nei linguaggi, nelle “attitudini agricole industriali o marittime” come risorse per la nazione superando localismi magari conflittuali.
Cattaneo accettando di buon grado lo Stato unitario ritiene che esso debba avere una legislazione innovatrice, anche recependo il meglio dalle leggi dei precedenti Stati italiani, con attenzione e riguardo a plausibili differenze. Si portano alcuni esempi, come il codice penale della Toscana, i diritti civili riconosciuti a Parma, l'ordinamento comunale della Lombardia (che anche l'Austria aveva rispettato). “La libertà è come una pianta che ha molte radici”: non si devono tagliare... “la libertà non può nascere e non può vivere” se lo Stato impone tutto dall'alto, creando così coi suoi cittadini un rapporto come tra padrone e servitori... scrive Cattaneo.
A ciò appare particolarmente sensibile in questi primi anni dell'unità il ministro degli Interni, Marco Minghetti col presidente del Consiglio Luigi Farini (e con lo stesso Cavour). Minghetti istituì una commissione governativa su riorganizzazione amministrativa dello Stato, decentramento, autonomie. In breve tempo, nello stesso anno 1861, essa elaborò e portò al Parlamento una proposta che fissava buoni principi per i Comuni e considerava possibile la istituzione delle Regioni, ipotizzate come consorzi di Province.
Le Regioni possono provvedere, su una scala territoriale più adeguata rispetto a quella locale o nazionale, a problematiche come quelle dei principali collegamenti stradali extraurbani, dei corsi d'acqua, dell'agricoltura, dei boschi, della caccia e della pesca, dell'istruzione superiore...
Comuni e Province, nella proposta Minghetti, devono essere espressione dei loro abitanti, avere risorse proprie, competenze e regolamenti propri adeguati ad affrontare autonomamente i problemi locali, i Sindaci non devono essere nominati dai Prefetti. Dunque una proposta avanzata che suscitò una forte discussione, la sostennero in particolare diversi parlamentari lombardi, toscani ed emiliani. Alla fine però non passò: il tema Regioni venne “stralciato” (cioè bocciato), su Comuni e Province la discussione si trascinò e prevalsero le tesi dell'accentramento. Lo sbocco conclusivo fu la legge 20.3.1865 specifica sulla materia che manteneva, con qualche aggiornamento, l'impianto centralistico del Regno di Sardegna del '59.
1865: UNA NORMATIVA ROCCIOSA CHE DURERÀ NEL TEMPO
Il nuovo Stato nazionale italiano è Monarchia costituzionale con struttura unitaria ed accentrata. Lo Statuto Albertino del marzo 1848 si definisce “legge fondamentale, perpetua ed irrevocabile della monarchia”. Esso rimase formalmente in vigore per circa un secolo (anche se radicalmente contraddetto in peggio nel periodo fascista). L'art. 74 dello Statuto recita: “Le istituzioni comunali e provinciali e la circoscrizione dei Comuni e delle Provincie sono regolati dalla legge”. L'art. 76 aggiunge che “È istituita una milizia comunale sovra basi fissate dalla legge”. Niente altro. Si riconosce e legittima l'esistenza delle autonomie locali senza dire niente sui loro poteri per cui contingenti legislazioni … potranno farne ciò che vorranno. Nell'autunno 1861 le normative del '59 sulla organizzazione dello Stato, estese ai territori man mano annessi, erano state rafforzate da un decreto del governo Ricasoli (succeduto a Cavour dopo la sua morte). Novità fondamentale fu la creazione dell'istituto prefettizio. In ogni provincia alle precedenti figure dei Governatori e degli Intendenti subentrano i Prefetti. Il Prefetto aveva valenza sia amministrativa che politica, dipendeva funzionalmente dal Min. Interni ma incarnava sul territorio il governo e molti poteri, dall'ordine pubblico alla salute pubblica... Per quanto riguarda il tema che stiamo trattando era figura fondamentale. Funzionario dello Stato ma anche Presidente della Provincia, nomina i Sindaci ed ha enormi poteri sulle deliberazioni dei Comuni, tutte soggette al suo controllo e volere.
La citata legislazione del 1865 conferma e rende coerente tutto questo, si inquadra in una storica unificazione legislativa, amministrativa e di codici. Questo è anche l'anno del trasferimento della capitale del Regno da Torino a Firenze: anche simbolicamente le leggi non sono più leggi “piemontesi” da applicare in territori annessi ma leggi proprie della Nazione. I pubblici poteri venivano organicamente accentrati, potenziando quelli del Re e dell'Esecutivo a scapito di quelli del Parlamento ed ulteriormente svuotando quelli già esilissimi delle Autonomie locali.
Successivamente il Parlamento guadagnerà spazio ma non i poteri locali, fino al '900 per essi cambierà poco. Rimangono tuttavia vive e vitali, se pur minoritarie, voci democratiche ed autonomiste, presenti sia nella destra che nella sinistra storiche risorgimentali. Riuscirono ad introdurre nel tempo qualche miglioramento a favore dei Comuni e seminarono idee che matureranno, pur se parecchio tempo dopo.
È giusto dire che su questo tema specifico le maggioranze ed i governi della destra storica (dai Ricasoli ai Menabrea...) e della sinistra storica (dai Depretis ai Crispi) non si differenziarono molto per il loro operato. Faccio solo un esempio. Nel 1887 il Presidente del Consiglio Francesco Crispi, esponente della sinistra, commemora Minghetti e ne apprezza la proposta regionalista. Dice che era valida e che “essa fu spenta dai pregiudizi onde eravamo invasi per la febbre dell'unità nazionale appena conquistata”, auspica dunque che venga ripresa ma poi non andrà oltre alcune misure, pur significative, limitate ai Comuni...
Dicevo di alcune voci positive e propositive, ne cito solo qualcuna a partire da alcuni nostri conterranei di grandissimo rilievo non solo su questo tema.
Stefano Jacini, cattolico liberalmoderato, fu parlamentare e ministro. Negli anni '70 scrive che l'unità d'Italia avvenne in emergenza, si imposero “tra le cannonate” leggi provvisorie con la paura che tornassero nei vari territori le antiche divisioni, ma l'unificazione fu “esageratamente accentratrice”, dunque andrebbe ripresa la proposta regionalista di Minghetti, ministro con Cavour! Va ristabilito un equilibrio tra i poteri dello Stato unitario sulle grandi questioni nazionali e l'autogoverno locale e dei territori. Con l'autogoverno furono grandi nella storia città e terre italiane che oggi non possiamo mortificare con burocrati mandati dal governo. Con queste idee Jacini, insieme al collega Gustavo Sanmartino promossero, a Firenze nel 1870, un gruppo di parlamentari, di diverso colore politico, che si espresse perché si desse spazio alle autonomie locali e si creassero istituzioni regionali. Nel 1879 ancora Jacini sottolinea l'importanza di permettere una diffusa consapevolezza tra i cittadini sul come e per cosa vengano usati dalle pubbliche amministrazioni i soldi delle tasse. Il primo livello di ciò è quello locale. Poteri centralisti ed assoluti del passato hanno distrutto il senso di appartenenza della gente al proprio Stato. Non ripetiamo – dice Jacini – questo errore con un accentramento attuatosi in Italia che appare persino superiore a quello vigente in Francia. Ministeri che si considerano “onniscienti, onniveggenti, onnipotenti” ed i loro burocrati mandati alla periferia non sono la risposta giusta ai problemi diversificati delle realtà dalla Lombardia alla Sicilia.
Tutto ciò avveniva e si collegava a pulsioni reali qua e là emergenti in Italia. Acute le vicende della Sicilia tanto che, nel 1896, il governo Di Rudinì istituì un “Commissariato speciale per la Sicilia” col quale affrontare situazioni non governabili dalla capitale del Regno. Questo evento poteva essere un inizio di sviluppi regionalisti ma ebbe contraddizioni anche oggettive e fu contrastato anche da importanti personalità, rimase un fatto isolato.
Un'altra forte voce di un cremonese di quegli anni sul tema fu quella del repubblicano Arcangelo Ghisleri, grande politico e geografo illustre. Egli si affianca a personalità come Gaetano Salvemini, Napoleone Colajanni, Guido Dorso e documenta come il centralismo non fosse stato in grado di dare risposte a grandi problemi dello Stato unitario, a cominciare dalla questione meridionale. Esso ha ostruito i canali della partecipazione popolare sostituendoli con ingessati percorsi burocratici o “benevolenze” clientelari. Ghisleri recupera il Mazzini che denunciava l'emarginazione dei ceti popolari per combatterla sul versante non solo di repubblica al posto di monarchia ma anche di autonomia e democrazia locale e regionale al posto di autoritarismo centralistico. Nel 1906 Ghisleri mostra come autonomie locali e regionali possano rinsaldare una consapevole diffusa unità nazionale rendendovi effettivamente partecipi i cittadini. Al contrario di un potere centralizzato che li rende estranei, indifferenti al bene comune o persino ostili.
Originario di Soresina è un altro famoso conterraneo ben presente su questo terreno: Emilio Caldara, trasferito con la famiglia a Milano ne diventerà Sindaco nelle file del partito socialista. Egli richiama come prospettiva il regionalismo ma lavora soprattutto sui Comuni italiani perché si uniscano (l'ANCI nasce nel 1901) e creino un forte movimento per rivendicare l'autogoverno locale. Lo Stato è corpo vivo, dice, in quanto composto da cellule e tessuti vitali. Molto dei servizi pubblici, della scuola, degli acquedotti, delle strade, della vita culturale va affidato all'autogoverno comunale, la Nazione ha tutto da perdere rendendo i Comuni passivi terminali di Prefetti e Ministeri.
IL BINARIO DELLA DEMOCRAZIA: AUTONOMIE E DIRITTO DI VOTO
Usando una similitudine banale consideriamo che la vita democratica di uno Stato come il nostro viaggia su un binario: su due rotaie quindi. La rotaia dell'autonomia permette un potere comunale forte ma perché su di esso viaggi la democrazia è necessaria anche la rotaia del diritto di voto per i cittadini di quel Comune... Fuori di metafora parliamo dunque delle leggi elettorali.
La normativa sul diritto di voto per le elezioni amministrative segnava qualche diversità da quella per le elezioni politiche. Comunque non pare che il numero di chi poteva votare per la Camera fosse molto diverso da quello della elezione comunale. Conta il fatto che per molti anni esso fu in ogni caso limitatissimo. Per il primo Parlamento vigeva una legge elettorale basata solo sul “censo”, cioè sul patrimonio fissato a livello elevato (e per niente sulla “capacità giuridica” come l'istruzione ecc.): ne derivava che il numero degli aventi diritto al voto (e degli eleggibili) era solo del 2% circa sulla popolazione. Fino al 1881 votarono in Italia nelle varie tornate tra i 400.000 ed i 620.000 elettori (solo maschi, come è noto). La riforma elettorale del 1882 (governo Depretis) abbassò il censo e considerò anche la “capacità giuridica”: il numero degli aventi diritto al voto salì fino al 9 – 10 %. Per anni era perdurato e perdurerà lo scontro per l'ampliamento del diritto di voto, fino al suffragio universale indipendentemente da censo, capacità e sesso. Un fortissimo passo avanti ci sarà con la nuova legge elettorale del governo Giolitti nel 1912: se non formalmente nella sostanza la si definirà a suffragio universale maschile. Nel 1913 voterà circa il 23% della popolazione, nel 1919 il 27 %, circa 6 milioni. Così cambiarono le cose anche per i Comuni.
Nel 1888 (governo Crispi) si votò una nuova legge comunale e provinciale che modificò positivamente per qualche aspetto quella del 1865. Si aprì qualche spazio in più per le competenze dei poteri locali. Il Sindaco (prima nel Comuni con 10000 e più ab. poi in tutti) e il Presidente della Provincia verranno eletti dai rispettivi Consigli e non più nominati dal governo. Per il controllo sulle delibere dei Comuni si crea un organismo collegiale nuovo: la GPA (Giunta provinciale amministrativa), con nomina mista di funzionari dalla Provincia e dalla Prefettura: in effetti questo non cambierà molto le cose, il potere di annullare delibere rimane altissimo... La GPA perdurerà fino agli anni '70 del '900.
LOTTE SOCIALI E PASSI AVANTI ISTITUZIONALI
Dopo la crisi economica e sociale di fine '800, con moti popolari, drammatiche repressioni e gravi limitazioni anche rispetto alle libertà e ai diritti previsti dallo Statuto, da inizio '900 prendono peso forze e risposte diverse ai problemi. Si sono organizzate e sono entrate nella dialettica sociale, politica, istituzionale le forze popolari socialiste e cattoliche. Con esse aumenta il peso delle forze del lavoro dipendente ma anche autonomo e dei ceti subalterni in genere, a partire dalla gente dei campi. Parallelamente, dopo l'autoritario governo Pelloux e dopo Saracco, sono ai vertici dello Stato personalità progressiste come Giuseppe Zanardelli e Giovanni Giolitti. Giolitti, ministro degli Interni e poi Presidente del Consiglio afferma una linea per la quale lo Stato non deve reprimere a senso unico le lotte del lavoro ma mantenere, nel far rispettare l'ordine pubblico, una neutralità tra le classi. Egli riprende il discorso di Minghetti sulle autonomie ed anche sul regionalismo e porta avanti alcune misure volte ad un maggior coinvolgimento dei ceti popolari nelle pubbliche Istituzioni. Fanno parte di questa linea la legge elettorale del 1912 che ho citato e importanti novità per i poteri locali. Vengono loro date possibilità nuove in materia tributaria e scolastica e per creare e gestire servizi pubblici fondamentali con la legge sulla municipalizzazione del 1903.
Dunque con la nuova legge elettorale in molti Comuni si eleggeranno maggioranze (o almeno incisive minoranze) di socialisti o di cattolici popolari, con inedita presenza diretta anche di operai e di contadini. Ed esse avranno qualche possibilità di fare cose importanti.
Valga un esempio, quello del Comune di Cremona dove, nel 1914, vincono le elezioni i socialisti, sarà sindaco il tipografo Attilio Botti. Qui già c'era una buona tradizione di autonomia, si pensi che già nel 1907, sindaco il radicale avvocato Dario Ferrari, si tenne sulla politica tributaria comunale addirittura un referendum, uno dei primi in generale, che abbattè i dazi, gravanti su tutta la popolazione e poi sostituendo la relativa entrata con imposte sulla ricchezza. Cose non politicamente indolori, ovviamente. Col sindaco Botti nel 1915 nasce l'Azienda Elettrica Municipalizzata per far giungere in città la massima disponibilità possibile di energia elettrica, per la sua distribuzione e per la pubblica illuminazione. Altro servizio essenziale municipale è quello dell'acqua potabile. Si crearono le farmacie municipali con forti compiti sociali per il diritto ai medicinali. Si crea l'Azienda Annonaria comunale per l'approvvigionamento e la distribuzione (con magazzini e spacci comunali) di generi di prima necessità... c'era la guerra e gli alimentari scarseggiavano per calo di produzione, forniture obbligatorie all'esercito, incetta del mercato nero... Il Comune acquista derrate, latte, legna da riscaldamento, utilizza panifici cooperativi e uno comunale. Insomma il Comune, anche grazie alle nuove leggi può attivarsi in anni drammatici per servizi civili primari, per l'assistenza, per dare lavoro a masse di disoccupati con lavori pubblici ecc.
L'esempio di Cremona mostra che nel primo ventennio del '900 le Autonomie locali sono elemento essenziale nella vita della comunità. Riprende vigore in questi anni anche il dibattito sulla forma dello Stato che, pur con le innovazioni giolittiane, era ferma al vecchio centralismo. Il Partito Socialista punta sulla democrazia comunale per aumentare il potere dei ceti popolari (si parla di “socialismo municipale”). Emilio Caldara riprende il tema del regionalismo, ed uno dei massimi dirigenti socialisti, Filippo Turati, afferma che la Regione non è separatismo ma “rimedio alla idrocefalia burocratica dello Stato centrale”. Antonio Gramsci esprime simpatia per il regionalismo sardo e critica il modo in cui il necessario processo dell'Italia unita è stato ridotto con la centralizzazione dei poteri ad un rigido involucro dinastico e di ristretti ceti dominanti... Il grande meridionalista Gaetano Salvemini propugna un regionalismo democratico per battere il centralismo col quale si è paralizzato il Mezzogiorno come feudo consegnato ad una classe dominante immobilista. Un grande contributo a questo dibattito viene da Luigi Sturzo, con la formazione del Partito Popolare. Il congresso del 1921 del PP vede come centrale il tema “decentramento amministrativo, autonomie locali, costituzione delle Regioni”, approva in conclusione una completa ed organica proposta regionalista ben articolata: dal rapporto Regioni- Stato- Comuni alle competenze agli aspetti finanziari.
Rilevanti in questo periodo ed ancora fino ai primi anni del fascismo, gli interventi di personalità laiche, repubblicane e liberali e di giuristi. Gli elementi reali che motivano le Regioni permangono, vanno legittimati ed incanalati a vantaggio della nazione perché fare il contrario crea solo mortificazione e potenziale contrapposizione, così Giuseppe Saredo nel 1901. Sulla stessa linea continuano ad esprimersi i Ghisleri, Dorso, Piero Gobetti, Ferruccio Parri, Rodolfo Morandi, Oliviero Zuccarini.... Fino ad un Bizzari che nel 1924 critica le impostazioni di ulteriore accentramento di Giacomo Acerbo, sottosegretario di Mussolini mostrando quali materie sarebbero meglio gestite a livello regionale. Ancora nel 1933 Gaspare Ambrosini afferma che la Regione è una entità politica con naturali competenze proprie...
IL REGIME FASCISTA USA LO SCHIACCIASASSI
Ma forti venti contrari spinsero la barca Italia in senso contrario. Con la Grande guerra si esaltano e divulgano cultura ed idee politiche di esasperato nazionalismo per cui Patria e Stato sono monoliti, macchine compatte per combattere e prevalere sul “nemico” esterno ed interno. Anche tanti Comuni forze politiche e personalità democratiche sono nel novero del “nemico interno”...
L'immediato dopoguerra si caratterizza per durissimi scontri sociali, serpeggia la paura del “bolscevismo” e così via... questi ed altri noti motivi portano monarchia e ceti dominanti ad affidarsi al fascismo. Nel 1921 e 22 con lo squadrismo e la violenza (a Cremona viene assassinato il vicepresidente della Provincia Attilio Boldori) si faranno dimettere le maggioranze democraticamente elette nei Comuni e nelle Province. Quindi ci saranno, con Mussolini al governo, elezioni basate sulla forza e l'intimidazione fino alla uccisione, nel 1924, di Giacomo Matteotti che quelle violenze ed irregolarità aveva denunciato in Parlamento... Passi successivi saranno le famose “leggi fascistissime” che, calpestando con l'assenso del re lo Statuto Albertino, porteranno ad un regime dittatoriale.
I poteri democratici delle autonomie locali vengono subito soppressi con la legge 100 del '26 e successivi decreti. Tutto poi verrà reso organico e consolidato con un “Testo unico comunale e provinciale” proposto nel '32 e promulgato nel '34. Il relatore dello stesso esplicita che “l'investitura delle autorità locali non discende più da singoli corpi elettorali ma viene dall'alto, dal Governo della Nazione”. Dal 1926 i consigli comunali e provinciali sono cancellati con le relative elezioni, via anche Sindaci e Giunte. In ogni Comune ci sarà un “Podestà” di nomina regia, cioè del Prefetto (l'indicazione dei nomi veniva naturalmente dal partito fascista). Lo stesso Prefetto lo può anche revocare. Non c'è più la Giunta comunale, nei Comuni medi e grandi le corporazioni fasciste designano dei loro rappresentanti che formano una Consulta. Il Podestà, se e quando vuole, può riunirla e sentirne dei pareri di cui però non è obbligato a tenere conto. Comunque anche il Podestà ha pochissimi poteri, le competenze del Comune sono svuotate e sostituite dalla volontà incontrastata del ras locale, del federale del fascio e del prefetto. I suoi compiti si riducono ad organizzare manifestazioni feste e parate propagandistiche, a provvedere ad alcune incombenze di base d'obbligo su lavori pubblici, igiene e simili, a momenti assistenziali (mai merito del Comune, quasi sempre attribuiti direttamente al duce...). Per la Provincia molti compiti passano direttamente al Prefetto, per il poco che rimane viene nominato dal governo un assolutamente inconsistente “Rettore”.
Così nel ventennio fascista furono cancellati sia i poteri autonomi locali sia il diritto dei cittadini ad eleggere i loro amministratori. Lo Stato Centrale col duce, il re ed alcuni potentati si arroga ed esercita i poteri pubblici nazionali e locali.
Quanto al regionalismo per i politici e giuristi del regime (Acerbo, Borsi, D'Amelio, Vitta) la stessa eventualità di un Ente Regione sarebbe una contrapposizione alla Patria. Un qualche “spirito regionale” poteva magari far capolino solo come folklore... Si pensi che nel 1932 una circolare del capo del governo proibiva ogni riferimento, negli atti delle pubbliche amministrazioni, alle regioni storiche (a partire da Trentino e Venezia Giulia).
AUTONOMISMO E REGIONALISMO TORNANO CON LA RESISTENZA
Le forze politiche che danno vita alla Resistenza, nella prospettiva dello Stato democratico che dovrà nascere dopo la guerra, danno forte rilievo ai poteri locali. Uno dei principali compiti dei CLN già nel corso della guerra è prevedere e nominare Sindaci e Giunte comunali man mano che i territori dal Sud verso il Nord vengono liberati. Persino dove divampava la lotta in aree ancora occupate si crearono temporanee “repubbliche partigiane”: Val d'Ossola, Montefiorino, Langhe, Norcia, Torriglia, Carnia... qui si crearono subito forme di autogoverno civile. Fase finale quella decisiva a nord del Po attorno al 25 aprile 1945. A Cremona il CLN nominò Sindaco il socialista avv. Bruno Calatroni, con una Giunta in cui collaboravano uniti tutti gli esponenti delle forze politiche antifasciste. Essi si impegnarono ad affrontare la tremenda situazione di quel periodo fino alle libere elezioni amministrative nel marzo 1946. Con diritto di voto finalmente universale, comprese le donne, ed una altissima partecipazione, sarà eletta la amministrazione col Sindaco Gino Rossini.
Dunque già in quel periodo di guerra, dall'otto settembre 1943 alla Liberazione e nei mesi successivi, torna vivo il dibattito sulla forma che dovrà avere il nuovo Stato, dibattito che sfocerà nella Costituzione. Mi limito naturalmente al nostro tema, a qualche elemento di fondo. Nel 1944 innesca una dura dialettica la vicenda della Sicilia. Da poco liberata con lo sbarco alleato vi si manifesta un movimento autonomista ed anche indipendentista. In merito il governo dell'Italia appena liberata creò una Consulta che elaborò lo Statuto della autonomia regionale siciliana (poi approvato dalla Assemblea Costituente). Gli indipendentisti non parteciparono: non volevano una Regione autonoma ma uno Stato indipendente. Fu una vicenda aspra e pericolosa che durò qualche tempo e rese ancora più pressante la discussione sulla futura istituzione o meno delle Regioni. Luogo istituzionale primario del dibattito era la Consulta, assemblea che fungeva provvisoriamente da parlamento fino al voto per la Costituente. Era composta dai partiti del CLN ed in essa nel 1944 si formò una apposita commissione interpartitica sul regionalismo. Ecco in estrema grezza sintesi le posizioni che vi si confrontarono.
La Democrazia Cristiana (Alcide De Gasperi, Giuseppe Dossetti...) riprende l'eredità del Partito Popolare e propugna la istituzione delle Regioni come livello istituzionale democratico elettivo, con competenze proprie e con poteri legislativi: questi tuttavia non tali da configurare le Regioni come Stati di una Italia federalista.
Il Partito Socialista (Pietro Nenni, Ferdinando Targetti...) afferma che va certamente abbattuto il centralismo autoritario anche con la istituzione delle Regioni. Nessun lassismo però verso le rivendicazioni indipendentiste ora presenti (Sicilia, Alto Adige...). I poteri delle Regioni sarà opportuno siano limitati al piano amministrativo, salvo la motivata eccezione della Sicilia.
Complessa e con qualche contraddizione la posizione del Partito Comunista (Palmiro Togliatti, Ruggero Grieco...). Il si alle Regioni non deve essere un si ad un nuovo organo burocratico – amministrativo che si aggiunge a quelli esistenti. Nel meridione in particolare deve essere strumento per rompere le vecchie forme di predominio ancora quasi feudali. Nell'ambito dello Stato unitario si diano dunque alle Regioni anche poteri legislativi purchè servano ad un drastico rinnovamento, siano espressione delle forze popolari verso una riforma agraria che superi il latifondismo e per il conseguimento di moderni diritti civili e del lavoro. In primis le masse popolari e contadine devono riconoscere nella Regione qualcosa di nuovo rispetto ad uno Stato troppo spesso lontano ed ostile. Va anche primariamente assicurata l'unitarietà e la solidarietà tra regioni ricche e regioni povere per un complessivo progresso di una Italia unita.
Il Partito d'Azione e quello Repubblicano (Piero Calamandrei, Emilio Lussu, Oliviero Zuccarini...) danno assoluta priorità al rapido superamento della monarchia, primaria fonte di centralismo autoritario e paternalista. La Repubblica dovrà configurarsi con un articolato autogoverno delle popolazioni coi Comuni, le Provincie ed istituendo le Regioni. Per prima cosa va eliminata la “tutela” dei Prefetti sugli Enti locali.
Il Partito Liberale (Benedetto Croce, Luigi Einaudi...) nel 1944 vota un ordine del giorno: “Il PLI afferma la necessità di una riforma nel senso della più larga autonomia regionale”. È radicale la critica alla forma di Stato di impronta napoleonica: lo Stato centralizzato autoritario è una “aberrazione che ha avuto effetti funesti”, scrive Einaudi (i liberali, salvo Einaudi, in anni successivi non saranno però favorevoli alla creazione delle Regioni).
Contributi assai significativi vennero da grandi individualità del pensiero politico e giuridico.
Antonio Amorth col suo “Saggio sulla struttura dello Stato” del 1945 analizza l'inadeguatezza del centralismo dopo l'unità d'Italia nelle sue concrete manifestazioni e ne fa derivare un disegno di redistribuzione di poteri dello Stato alle Regioni. Riservate allo Stato le materie fondamentali proprie si diano alle Regioni ampi poteri legislativi in un quadro di coordinamento tra di loro e con lo Stato stesso. Tutto ciò, conclude Amorth, andrà esplicitamente previsto nella Costituzione.
Carlo Arturo Jemolo, premesso che vanno combattute le spinte separatiste e centrifughe, sottolinea l'importanza di superare il centralismo del passato. Con grande equilibrio e prudenza vanno calibrati i poteri legislativi (che enumera ed analizza) tra lo Stato e le Regioni.
Gaetano Salvemini ritiene che si dovrebbe lasciare alle Province e ai Comuni delle varie parti d'Italia di valutare e decidere se vogliono aggregarsi, federarsi in Regione. Meglio, dice, fare le Regioni solo dove esse sono naturali, storiche e dove i cittadini le vogliono che creare enti artificiosi (1945). Questa impostazione sarà presente poi nel dibattito della Costituente ma sarà considerata non applicabile e non adeguata anche in linea di principio.
REGIONI ED AUTONOMIE NELLA COSTITUZIONE REPUBBLICANA
Alla fine della guerra, della dittatura e della occupazione nazifascista il referendum popolare del 2 giugno 1946 porta al tramonto della Monarchia ed alla nascita della Repubblica. Non è un “plebiscito” ma la scelta è chiara e netta. La Assemblea Costituente eletta lo stesso giorno a suffragio finalmente davvero universale discute, definisce e vota con ampia maggioranza la Carta Costituzionale, in vigore dal capod'anno 1948. Sugli argomenti di cui qui trattiamo nella Assemblea e relative commissioni ebbe luogo un dibattito molto impegnato dal quale uscì una svolta autonomista e regionalista. Una svolta storica, anche se sarà attuata in tempi lunghi ed a fatica negli anni successivi. Impossibile in questa sede dare conto delle varie posizioni, differenze, punti d'incontro attraverso i quali si giunse alle definitive formulazioni. Comunque le posizioni delle forze politiche rimangono fondamentalmente quelle cui ho appena accennato. Nella Costituente la DC è il partito più determinato nel proporre un regionalismo con poteri legislativi. Mostrerà se mai una contraddizione successivamente, quando essendo al governo ritarderà l'attuazione delle Regioni fino al 1970. Le sinistre, al contrario, negli anni '50 e '60 si batteranno per l'attuazione delle Regioni mentre nella Costituente erano state regionaliste ma con molta prudenza e preoccupazioni sui poteri da attribuire alle stesse. Saranno ostili, nel dibattito e nelle vicende successive, i liberali ed i monarchici.
Il testo costituzionale è molto innovativo rispetto ai cento anni di massiccio centralismo precedenti. Si inquadra con l'art 5 dei Principi fondamentali: la repubblica è “una e indivisibile”, essa “riconosce e promuove le autonomie locali” ed attua il più ampio decentramento dello Stato. Quindi, col Titolo V si introduce il regionalismo, essenziale novità che riprende quelle idee risorgimentali di cui ho parlato risolvendole in una forma di Stato unitario regionalista. Province e Comuni dovranno essere elementi di democrazia sostanziale, ogni cittadino potrà e dovrà aver modo di partecipare e di incidere sulla vita pubblica nella propria comunità. Alle Regioni (ad alcune delle quali sono attribuiti speciali poteri per condizioni storiche oggettive) sono dati poteri legislativi in ambiti definiti. Le materie in cui la Regione può legiferare erano elencate negli articoli 117 e 118: sono molte ed importanti senza però invadere gli ambiti tipici dello Stato unitario. Dunque i poteri di ogni Regione non debbono confliggere con l'interesse nazionale e con le altre Regioni. Essi riguardano gli enti locali (sempre rispettandone l'autonomia), l'economia, le infrastrutture, territorio ed urbanistica, assistenza sanitaria, cultura...
Lento – dicevo – il processo per dare piena attuazione all'autogoverno locale e per istituire le Regioni. Con importanti leggi del 1953 e del 1975 si attribuiranno ai Comuni funzioni e poteri più consoni ai principi costituzionali. Negli anni '60 si decideranno le leggi istitutive delle Regioni che nasceranno con le elezioni del 1970. Con ciò i Comuni verranno liberati finalmente dalla invasiva tutela prefettizia con l'abolizione delle GPA. Le Regioni avranno compiti sempre più pesanti, importantissima la competenza sanitario ospedaliera, specie con la riforma sanitaria (legge 833) del 1978. Nel 2001 il Parlamento votò una importante riforma proprio del Titolo V. Cambia la formulazione originaria dell'art 114: “La Repubblica si riparte in Regioni, Province e Comuni” diventa “La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato”. Dalla semplice “ripartizione” territoriale si passa alla elencazione dei soggetti che “costituiscono” la nazione con pari dignità istituzionale anche rispetto allo Stato. Altra novità è nel cambiamento dell'art 117, prima esso elencava e delimitava le competenze delle Regioni (dunque il resto fa capo allo Stato), nel 2001 si elencano invece i poteri esclusivi dello Stato lasciando il resto alla legislazione regionale. In molte materie però le Regioni agiranno nei limiti di leggi quadro nazionali (legislazione concorrente) che assicurino parità di diritti in tutta la nazione. E qui c'è una novità nella novità: le Regioni che lo volessero possono chiedere e concordare ulteriori competenze ed autonomia nelle materie di legislazione concorrente. È in atto su questo punto un vivo confronto tra lo Stato e Lombardia. Piemonte ed Emilia Romagna. Non entro nel merito delle successive novità riguardanti le drastiche modifiche per le Province, la definitiva eliminazione di un organo di controllo sui Comuni, l'introduzione dei principi di “sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza” nei rapporti tra i livelli istituzionali della amministrazione pubblica (… chi fa che cosa...).