Tra gli effetti collaterali, di segno positivo, della pandemia ne possiamo segnalare, ovviamente a gusto personale, sicuramente uno: la rinuncia al “concertone” del Primo Maggio. Quella specie di festival musicale organizzato annualmente a Roma in piazza San Giovanni in Laterano dai tre sindacati confederati italiani: CGIL, CISL e UIL; con cui la “Triplice” (come era chiamata un tempo) ha, dal 1990, sostituito gradualmente, quasi con un gesto subliminale, il senso e la forma della giornata di festa e di testimonianza civile, gettandola in pasto al pubblico musicarello.
Nulla resta di immutabile nel tempo. A cominciare dalle percezioni e dalle consapevolezze acquisite dalle ricorrenze. Que reste-t-il ...di questa "magata", che, magari nell'intento di avvicinare le nuove generazioni al valore permanente della celebrazione del lavoro, ha pensato di sostituire il cerimoniale tradizionale rievocativo agganciando un format liquido e (nonostante le velleità “impegnate” di alcuni nani e ballerine embedded) la cui inanità risulta manifesta dagli effetti della sospensione decretata dal covid 19.
Intemerata questa che ci consegnerà dritto dritto alla fattispecie dei tradizionalisti; per di più inconsapevoli dell'obsolescenza dei cortei, dei comizi nelle piazze, nelle quasi patetiche feste popolari, degli eventi parasportivi, del corollario di orchestrine popolari.
Saranno state offerte celebrative superate, di scarso appealing nei confronti dei giovani e, soprattutto, avulso dagli indotti del circo mediatico, ma presentavano il vantaggio di mantenere il collegamento tra rappresentanza sociale intermedia e popolo lavoratore (finanche coi loro territori).
L'embargo della relazionalità della testimonianza civile e sociale incanala, quest'anno, irreversibilmente insieme al modulo della celebrazione rievocativa popolare anche la versione mediatica del grande circo spettacolare.
D'altro lato, come sfuggire, con questa reprimenda, all'autoconsapevolezza che quella festa tradizionale non era più sostenibile perché da anni erano ceduti i perni dell'aggregato teorico ed organizzativo dell'associazionismo e della rappresentanza del mondo del lavoro.
Lo smottamento delle basi ideologiche e delle modalità di interpretazione orizzontale e verticale, come si diceva un tempo, nella dialettica sociale e nei posti produttivi ha manifestato plasticamente gli effetti degli squilibri tra economia e politica.
Più che ceduti, i diritti in capo al lavoro sono stati drasticamente circoscritti e conculcati. Come conseguenza di un impari rapporto, che ha affidato all'ineluttabilità del "turbo-capitalismo" ed al mantra del mercato la sintesi del confronto sindacale.
Bisognerebbe aggiungere che sotto questo profilo il quadrante italiano, storicamente in deficit di aggiornamento progettuale e di agganci permanenti alla cultura riformista, ha in qualche misura agevolato questa deriva.
Per chi volesse guardare e vedere oltre le analisi usa e getta delle conseguenze della pandemia su equilibri già inaccettabili e su prospettive tendenzialmente ancor più punitive sulle fasce meno protette, la canonica ricorrenza del 1° maggio, al di là delle modalità celebrative, dovrebbe, soprattutto se rivisitata in assenza degli orpelli mediatici e spettacolari, esortare ad impegnative riflessioni.
A cominciare dall'imperativo di rivoltare come i proverbiali calzini la mission, il profilo e l'intelaiatura associativa del sindacato.
Avremo modo, nel prosieguo di una analisi tematica, che abbiamo avviato da anni e che ha trovato spunto dalla rivisitazione della festa del lavoro e del Cinquantesimo della Legge 300, di rendere ancor più stringenti ed impegnative le riflessioni del confronto aperto con l'associazionismo categoriale (della cui disponibilità diamo positivamente atto).
Focalizzeremo una questione nodale: l'esigenza di superare la (ingiustificata) frammentazione dell'associazionismo sindacale. Per ritrovare l'idealismo che fu alla base del Patto di Roma del 1944, con cui Giuseppe Di Vittorio per il PCI, Achille Grandi per la DC e da Emilio Canevari per la componente socialista (in sostituzione di Bruno Buozzi ucciso dai nazisti cinque giorni prima), gettarono le basi unitarie per la rifondazione di un moderno sindacato (I Congresso Unitario - foto di copertina).
Sono totalmente superate le condizioni che, cinque anni dopo, avrebbero disassato questo afflato unitario. Nulla giustifica più le “parrocchiette”. L'unico discrimine in grado di giustificare la specificità riguarda l'appartenenza alla visione riformista della rappresentanza del lavoro e dei lavoratori ovvero al dogmatismo massimalista e radicale.
Beh, siamo partiti per giustificare che non tutto il male in questo tragico e cabalistico (sin dal numero) 2020, sul terreno del cerimoniale celebrativo e, ben presto, approdiamo ad un convinto outing nei confronti di una opportunità rievocativa e didascalica sostitutiva.
Ci riferiamo al bellissimo (gusto personale) “Pane e libertà” prodotta dalla Rai (che dimostra, purtroppo, raramente come dovrebbe agire l'emittenza pubblica) ed imperniato sulla straordinaria figura umana di Giuseppe Di Vittorio. Il rating della produzione si è avvalso di eccezionali interpretazioni (in primis, di Pierfrancesco Favino), di una notevole regia (Alberto Negrin) e, ultimo ma non ultimo, delle musiche composte da Ennio Morricone.
Diciamo che, anche volendo prescindere dalla centralità della figura di Giuseppe Di Vittorio, è un film ben fatto e godibile. La cui riproposizione nella giornata della festa dei lavoratori ha assunto, come abbiamo anticipato, un valore sostitutivo, edificante e forse terapeutico delle inqualificabili cattive posture del passato.
Se è consentito, lavori cinematografici di questo tipo dovrebbero costituire una costante della programmazione della produzione e dei palinsesti dell'emittenza pubblica. Soprattutto, andrebbero divulgati nelle scuole.
Tutto quanto premesso, non ci lasceremo certamente sfuggire l'occasione per focalizzare, come abbiamo anticipato la grandezza umana e la testimonianza civile, sociale e politica del personaggio che ne è al centro.
Entrò a pelle nelle simpatie di chi scrive qui per una circostanza assolutamente occasionale riguardante la nascita (nacque due giorni prima del nostro amatissimo nonno materno).
Per di più nacque nel periodo in cui il rawlsiano ascensore sociale, non solo non era ancora stato teoricamente messo a punto, ma funzionava esattamente al contrario.
Origini umilissime, un destino da apartheid sociale e civile irreversibile. A quell'epoca (prima decade del Novecento) era destino biblico ineluttabile e per alcuni versi, data la sedimentazione millenaria di una stratificazione sociale certificata dalle convenzioni politiche, culturali e religiose, accettata in quanto immodificabile.
Non casualmente abbiamo fatto cenno alle pregiudizievoli condizioni culturali. In quanto il detonatore che avrebbe trasformato il figlio della plebe rurale furono la consapevolezza del pregiudizio arrecato dalla non conoscenza e, per converso, la determinazione ad acquisire il sapere, come base emancipativa.
Sarebbe stato quello lo snodo esistenziale dell'adolescente bracciante pugliese, suscettibile di incardinare gli elementi fondativi di una testimonianza politica a valere come esempio e come elemento aggregante di vaste masse.
In contrasto con una percezione stereotipata, dedotta dalla militanza partitica, il profilo sindacale e politico di Di Vittorio è, sin dalle origini, ispirato da forti linee-guida gradualiste e riformiste.
Ne fanno fede, seguendo il film, l'accordo sindacale, anticipatore sul piano del metodo e dei contenuti delle conquiste, con una controparte talmente retriva e meritevole di essere presa a cannonate.
Le origini della militanza politiche furono socialiste; per di più correlate al profilo del socialismo umanitario e, per alcuni versi, riformista.
Il futuro segretario della CGIL resterà nel PSI, nonostante la scissione del gennaio 1921. Entrerà nel PCI nel 1924, a seguito dell'assassinio di Giacomo Matteotti. In apparenza contraddittoriamente. Un'apparente eterogenesi dei proponimenti. Il primo motivo fu la piena consapevolezza, derivante dall'orrendo assassinio politico, del piano incrinato della dissoluzione delle prerogative liberaldemocratiche e dell'avvento del totalitarismo. L'antidoto per Di Vittorio era rappresentato dall'unità delle masse; di cui l'ingresso nel PCI poteva costituire un volano per lo sforzo della riunificazione di tutti i socialisti.
Proposito questo, smentito, come gli eventi si incaricheranno di dimostrare, da incoercibili volontà di fare della divisione della sinistra e del campo democratico una dato permanente, funzionale al perseguimento dell'egemonia massimalista.
Su questo terreno Di Vittorio sbatterà contro sistemiche evidenze. Ed anche la sua militanza nei vertici nazionale ed internazionale del comunismo, per quanto apprezzata, non troverà nella nomenklatura che malmostosità, censure e pregiudizio, incardinate dalla consapevolezza di un tratto incompatibile con i dogmi del comunismo staliniano e, forse, anche togliattiano.
Nonostante le divaricazioni nella testimonianza sindacale in esilio, il fecondo rapporto tra Di Vittorio e Bruno Buozzi (che rappresenterà la continuità della CGIL lealista) sarà alla base della convergenza (assolutamente inedita) con i sindacalismo bianco e cattolico di Grandi.
Questo asse portante, ispirato dalla consapevolezza della preminenza dell'imperativo di rappresentare i diritti e gli interessi dei lavoratori, sarebbe deragliato cinque anni dopo, per effetto della verticale divisione del mondo in blocchi contrapposti.
Fatto che complicherà maledettamente, ma non sbarrerà i perni della visione riformatrice ed emancipatrice del capo sindacale.
A tale visione si devono iscrivere, senza tema di smentita, le linee-guida del Patto del Lavoro, che rappresenta la versione italiana avanzata di un new deal compatibile con la condizione di appartenenza all'occidente europeo.
Il Paese, in cui il grande leader avrebbe dato (purtroppo, per un breve troppo breve periodo, a causa di una fine prematura) il meglio di se stesso, usciva dalla tragedia di vent'anni di totalitarismo e di una guerra distruttrice e suscettibile di retrocedere esponenzialmente le condizioni di vita e di lavoro.
La constatazione non può non suggerire una simmetria con i contesti attuali, contraddistinti, pur in assenza di postumi da guerra in senso militare, dagli stessi effetti potenzialmente devastanti.
Ebbene, nello smarrimento di una congiuntura che trova impreparate generazioni abituate a certezze e a livelli esistenziali immodificabili, sarà saggio alzare lo sguardo e a far tesoro delle sagge parole dell'Arcivescovo di Bologna Zuppi
Gli italiani del secondo dopoguerra con umiltà si misero a costruire le case per i loro figli e il benessere per i figli dei loro figli. È molto facile precipitare. C'è bisogno di lavoro e di meno precarietà della vita. Non con il cerotto dell'assistenzialismo, ma con il vaccino del lavoro, che dona sicurezza e serenità.
Fu, allora, e dovrà essere, oggi, la ricetta della resilienza.
L'aveva intuito la cultura politica riformista e progressista; di cui la testimonianza di Di Vittorio si sarebbe rivelata la massima espressione proveniente dal mondo del lavoro.
Il combinato di inoccupazione e di indigenza a carico di masse popolari, già stremate dalla guerra e dal pregresso ventennio, suonava agli orecchi della parte più responsabile della sinistra politica e sindacale come un campanello d'allarme, in tutta Italia ed a Cremona.
Inducendo a collocare in posizione di centralità la questione della piena occupazione, che avrà, un compiuto approdo nel 1949-1950, quando la CGIL di Di Vittorio, vincendo una serie di titubanze soprattutto in casa comunista, lancerà il Piano del Lavoro.
Una centralità discendente non solamente dall'esigenza di affrontare la vita con il frutto del lavoro, ma anche – o forse, prevalentemente – da una sorta di orgoglio derivante da un diritto in grado di dare un senso all'esistenza, di dare anche ai più negletti ed emarginati la consapevolezza di essere partecipi col loro lavoro del consorzio civile.
Sarebbe stato uno dei picchi della capacità di consapevolezze e di progettualità della centrale sindacale maggioritaria. Manifestamente approdata all'incrocio con la cultura gradualista-riformista, contrastata dalle pulsioni massimaliste, che intravvedevano in essa un potenziale pericolo di destabilizzazione dei percorsi sovietizzanti.
Il massimo dirigente della corrente sindacale comunista, Roveda, cui succederà Di Vittorio, sosteneva: “Conservare ancora anche solo per un anno il sindacato legale vorrebbe dire anche dare il tempo di raggiungere il piano dei riformisti”.
Ma, al di là delle enunciazioni tattiche, i fondamenti strutturali di Di Vittorio erano racchiusi in una concezione di classe che “vede nel sindacato l'organo d'unione di tutti gli operai d'una stessa industria e nella Camera del Lavoro e nella CGL l'organo di unione di tutta la classe operaia”.
Il forte ancoraggio della CGIL, nonostante la divisione dei blocchi contrapposti, e, soprattutto, la cristallina testimonianza di Di Vittorio, incoraggiato e sostenuto dalla parte moderata del PCI e della corrente socialista, avrebbero avuto la meglio in un confronto dagli esiti non scontati.
In tal modo contribuendo, pur nella preclusione, a quel tempo, alla prerogativa gestionale nell'ambito istituzionale, ad incardinare un modello di modernizzazione del Paese e di giustizia sociale, da cui non avrebbero potuto esimersi neanche gli equilibri politici tarati su un asse prevalentemente moderato, con venature conservatrici, quando non reazionarie.
Nel corso di quegli anni Cremona, per i suoi trascorsi prefascisti di forte testimonianza sociale e sindacali e per la comunanza rafforzata nell'esilio (dove Di Vittorio avrebbe stabilito un rapporto con Caporali, stretto collaboratore di Buozzi), nonché per una centralità acquisita sul campo per effetto dell'alto livello dello scontro, si stabilirà un forte legame tra il leader, la CdL, la Federbraccianti e la sinistra tutta cremonese.
Al punto che la “capitale del Po e dell'agrarismo (che a quell'epoca pretendeva la proroga in automatico del predominio dell'epoca farinacciana) diventerà laboratorio delle lotte sociali, su cui agirà da cartina di tornasole l'emancipazione della intollerabile condizione di sfruttamento e di arretratezza del ceto bracciantile.
Confluirà a Cremona, il 15 febbraio 1953, la mobilitazione delle Camere del Lavoro di Milano, Cremona, Mantova, Brescia, Piacenza, Pavia, Parma per focalizzare l'attenzione del Paese sull'impegnativo tema “Per una vita civile e serena in una cascina rinnovata”.
Nello stesso anno si sarebbe svolto a Cremona il Congresso Nazionale della Federbraccianti; scelta giustificata sia dalla condizione di epicentro delle lotte sia dalla consistenza dell'aggregato associativa (oltre 44 mila iscritti).
D'altro lato, quel 1953 a Cremona si era prospettato come assolutamente non banale a lungo raggio anche sul piano politico, rivelandosi come segmento centrale dello scelbismo. Manifestando picchi repressivi, come aggressione da parte della polizia di una delegazione che si stava recando in Prefettura su mandato dei partecipanti ad una manifestazione tenutasi all'interno della Camera del lavoro, composta fra gli altri dai segretari locali di Psi e Pci, Zaffanella e Percudani. Il giorno precedente, sempre a Cremona, era stato aggredito dai carabinieri un redattore del settimanale della Fgci, Adriano Zana, mentre stazionava dinanzi alla Ceramica di via Castelleone per informare le lavoratrici delle decisioni sindacali.
Nello stesso anno l'opzione di tenervi la massima assise bracciantile manifestava implicitamente la volontà del vertice sindacale nazionale di fare della condizione dei braccianti e salariati agricoli la chiave di volta delle lotte per una più vasta emancipazione degli sfruttati.
Quel congresso avrebbe messo a fuoco, in un più vasto quadro di contrasto sociale e di riequilibrio delle condizioni di vita dei lavoratori, due importanti segmenti della questione contadina, suscettibili di incidere profondamente anche sul terreno di modernizzazione delle condizioni di lavoro e del processo produttivo nelle campagne: la tutela della salute dei lavoratori (minacciata dalla promiscuità nelle stalle foriera dei picchi di diffusione della tubercolosi bovina ed umana) ed il diritto ad un'abitazione colonica, che fosse decorosa per i lavoratori e funzionale allo stesso stretto rapporto tra luogo di lavoro e alloggiamento.
Anche se, 70 anni dopo, non se ne può avere esatta percezione sul piano innovativo, il convegno ed il congresso, rappresenteranno, anche grazie al sigillo della partecipazione dell'autorevole leader, un traguardo significativo dello sforzo progettuale del mondo del lavoro.
La circostanza, tra l'altro, rafforzerà l'autorevolezza, come uomo e come dirigente, di Di Vittorio nel rapporto di una leva di quadri intermedi e funzionari sindacali, che ne avvertirà il fascino e la statura politica e morale sia nelle normali dinamiche di impegno organizzativo sia per la conoscenza diretta approfondita durante i corsi di formazione nel centro CGIL di Grottaferrata.
Tale “complicità” (in una sinistra massimalista che viaggiava ancora a gonfie vele lungo le coordinate dell'assoluta obbedienza a Mosca) sarebbe emersa anche su questioni extra-sindacali, stricto sensu.
Nel marzo del 1953 scomparve, come è noto, il despota Stalin; circostanza questa che mise in movimento una pregressa situazione stagnante di cieca obbedienza a Mosca.
E, mentre Togliatti sostanzialmente aveva espresso, in chiave continuistica, una certa contrarietà nei confronti del “rapporto segreto” e le conseguenze imponderabili, Di Vittorio, sostenne la necessità di una profonda riforma del “socialismo reale”, se non altro per “fare in modo che siano resi impossibili strumenti, metodi, sistemi antidemocratici”.
Il segretario generale della maggior organizzazione sindacale destinata, a partire dagli ultimi anni quaranta in poi, a diventare “cinghia di trasmissione” del vertice comunista, non solo usciva dall'ortodossia su materie nevralgiche (la repressione dei moti berlinesi, polacchi ed in divenire, ungheresi), ma soprattutto si pronunciava in contrasto ed in aperto conflitto con Togliatti. Che con un articolo apparso sull'organo di stampa ufficiale il 3 luglio 1956, intitolato “La presenza del nemico”, aveva dettato una linea inequivocabilmente differente (“non il disagio operaio fu la causa dei moti popolari polacchi, bensì l'azione subdola delle forze imperialiste”).
Di Vittorio dimostrava l'ardire di contestare la versione di comodo di Togliatti in materia di giustificazioni delle repressioni del 1953 e, regnante sia pur da poco Krusciov, del 1956, ma protestava clamorosamente la accettata regola della “cinghia di trasmissione” (derivata dalla teoria e dalla prassi dei partiti leninisti), alla formazione di un unicum.
In cui, al vertice della piramide, preposta alla definizione della linea, c'era l'oligarchia del Partito; ed, essendo questa impostata sul ruolo e sulla figura indiscutibili del Segretario Generale (con l'aggiunta del “centralismo democratico” e di una certa propensione – almeno negli anni dello stalinismo – al culto della personalità, favorito da un certo conformismo), non v'era dubbio che, per quanto il vertice del PCI (come quello della CGIL, del movimento cooperativo e degli altri organismi) comprendesse personalità di rilievo, l'unica fonte legittimata a “dare la linea” fosse rappresentata da Palmiro Togliatti (col corollario, ovviamente, della funzione celebrativa degli organi collegiali, in cui si discuteva, ma da cui difficilmente uscivano risoluzioni che non coincidessero in toto con le visioni del “migliore”).
Nella drammatica congiuntura “dei fatti d'Ungheria” e nelle dinamiche sottostanti di serrato, lacerante ed ineludibilmente riassorbibile confronto, veniva messo a nudo una sorta di centralismo democratico, doppio e parallelo: quello del Partito e quello del Sindacato, che, come vedremo, sarà costretto a soccombere ai poteri di egemonia e di normalizzazione del primo.
D'altro lato, si era pieno “centralismo democratico”; nei cui operava come regolatore del dissenso il doppio ingranaggio della radiazione o dell'autocritica.
La testimonianza critica di Di Vittorio sui fatti ungheresi, che in una normale dialettica democratica avrebbe costituito una prerogativa lapalissiana, costituì, per quanto appena analizzato, un conclamato caso di lesa maestà. Nei confronti del “Migliore” e nei confronti delle regole al limite della segretezza cospirativa.
Il dirigente di origini pugliesi non solo le aveva violate (il dirigente Vaia, della tendenza militarista tuonò: “I nostri compagni negli organismi di massa devono battersi per l'applicazione dell'orientamento del Partito”) non solo, come abbiamo osservato, aveva invertito i fattori, ma vi aveva fatto convergere l'unanime consenso della corrente socialista e la stragrande maggioranza della componente comunista della CGIL.
La regola dell'autocritica che non avrebbe risparmiato nessuno degli appartenenti ai quadri nazionali, regionali e provinciali avrebbe operato anche nei confronti di Di Vittorio; che avrebbe dovuto sottoporvisi. Il gesto, fu, alla vigilia del congresso normalizzatore del gennaio 1957, preteso da Togliatti con il ricorso a toni particolarmente umilianti.
Non ne potremo mai produrre la prova, ma certamente la circostanza concorse alla morte prematura, avvenuta qualche mese dopo.
Un fine vita e testimonianza civile che addolorerà molto l'intero corpo associativo dei militanti sindacali ed i dirigenti cremonesi, legati da un particolare rapporto di stima e forse di affetto, senza distinzione di componenti, alla sua figura.
Motivata dalla rettitudine, dalla coerenza, dalla capacità lungimirante di un apostolo dell'emancipazione dei lavoratori e dei negletti, che proprio da Cremona aveva griffato storiche “campagne” sociali di respiro nazionale.
Su temi, come abbiamo più sopra sottolineato, all'epoca cruciali: la rivendicazione del diritto al lavoro, accettabili condizioni di vita nelle campagne,la modernizzazione del lavoro agricolo e il contrasto dell'esodo dalle campagne.
Temi questi, apparentemente superati nei contesti presenti; anche se secondo noi di valore permanente.
Un'ultima chiosa la vogliamo dedicare all'attualità politica di Di Vittorio all'inizio del terzo millennio.
La simulazione delle sue caratteristiche in questi contesti richiede un notevole sforzo di sovrapposizione di elementi in parte non facilmente coincidenti.
Indubbiamente il profilo, fortemente ancorato alla cultura laburista e riformista ed arricchito da una grande tensione ideale e morale, lo colloca di diritto e permanentemente nel Pantheon della sinistra italiana.