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C’è vita oltre le urne? (si chiedeva Francesco Verderami sul Corriere di alcuni giorni fa)

Hai voglia, se ce n’è! D’altro, qualcuno, più colto di noi, ha teorizzato che “la vita è il lato dialettico della morte” (e viceversa, secondo legittime interpretazioni).

  23/06/2019 19:29:00

A cura della Redazione

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L’ECOPOLITICA C’è vita oltre le urne? (si chiedeva Francesco Verderami sul Corriere di alcuni giorni fa)

Hai voglia, se ce n’è! D’altro, qualcuno, più colto di noi, ha teorizzato che “la vita è il lato dialettico della morte” (e viceversa, secondo legittime interpretazioni). Sembrava, solo due settimane fa, che l’elezione del nuovo primo cittadino fosse una sorta di armaggedon, i cui esiti avrebbero condizionato tutto o quasi tutto e adesso ci accorgiamo che, calata la tensione di uno scontro all’OK Corall (scandito dalla polarizzazione e finalizzato all’acchiappo dei consensi), il rinnovo degli organi amministrativi, per quanto significativo, rientra tutto sommato in quadro di normalità.

Con il portato dei suoi atterraggi nello scontato e/o nel prevedibile delle gherminelle tipiche della politica, in cui quasi mai c’è coincidenza tra declamazione e pratica.

Deja ou toujours vu? Mah… Importante, per i portatori sani di cinismo (o anche solo di aristocratico distacco), farsi (se si è incapaci di prescindere dall’etica civile) coinvolgere a minimo sindacale e, soprattutto, travisare a posteriori la fregatura.

Stranamente, se non fosse stato per l’unico gesto cavalleresco cui abbiamo assistito prima-durante-dopo la tenzone elettorale (il solo a congratularsi con il Sindaco rieletto è stato l’esponente del sovranismo-nazionale), saremmo tentati di fare a meno di una citazione, che non è dotta ma edificante. Quell’endorsement del CT della nazionale under 20, Paolo Nicolato, che non si sa se sia più incongrua per il mondo dello sport od in quello della vita pubblica: “Vince solo uno, ma non è che tutti gli altri sono imbecilli. C’è modo e modo di perdere e di partecipare. Il risultato a tutti costi è specchio di una società in cui o vinci o sei fuori. Ma non è un modello giusto né per ottenere grandi risultati né per educare. L’esclusione di chi non vince non è corretto”.

Ora sarebbe del tutto evidente che si partecipa alla tenzone elettorale per marcare diversità di vedute, di programmi e di formazione della squadra.

Ma induce perplessità l’eterogenesi della declamazione planata sul concreto.

D’altro lato, anche questo è scontato, essendo più facile “raccontarla” ad usum delphini che essere conseguenti.

L’impegnativa assegnazione dei ruoli gestionali, che, secondo chi scrive, dovrebbe essere interfacciata ad una griglia valoriale e di congruità all’esercizio delle funzioni, in realtà si è dipanata sin dalle ultime battute della campagna elettorale secondo gli schemi classici dello spoil system (chi vince prende tutto). Hai voluto il sistema anglosassone del maggioritario? Eccoti servito.

Nei più evoluti contesti liberaldemocratici, però, quasi sempre gli spitzenkandidaten presentano “la squadra” (prima!).

Di questo, nel corso della campagna elettorale, si è parlato in una sorta di gioco a smerda (come direbbe il Murphy di “Qualcuno volò sul nido del cuculo”): per attribuirsi vicendevolmente male intenzioni (il manuale Cencelli, non manca mai). Il centro-destra veniva accusato (e non senza qualche ragione) di aver consumato il rito del tramezzino sull’ultima briciola di un patto spartitorio, particolareggiato e, soprattutto, finalizzato a cementare convergenze poco granitiche.

Non a caso, in questo quadrante volano, in materia di paternità della sconfitta, quantità industriali di proverbiali piatti. Al punto che un assetto, già molto minimale di aggregati progettuali e di indirizzi gestionali, difficilmente si approccerà, anche in forza di queste intense liti da ballatoio, alla prospettiva di costituire un utile contraddittore istituzionale al ruolo della maggioranza e della giunta.

Ma, come ben si sa, il campo di centro-destra è organicamente privo di quell’eleganza “florentine”, che, invece, abbonda a sinistra.

Aveva assicurato il Vicesindaco uscente, demonizzando la mal’intenzionalità spartitoria dei competitors destrorsi, che tutto sarebbe stato avocato nelle mani di Galimberti.

Un massiccio proposito, scandito anche dall’assessore uscente (ma rientrante Vicesindaco) Virgilio che, con il ricorso a dosi abbondanti di fumisterie, aveva scandito: “ È il pluralismo che rende forte un progetto, che lo rende autentico dentro a una comunità di persone”.

Un assist che neanche un consumato portatore di palla avrebbe potuto assicurare al bomber per eccellenza Galimberti. Il quale, tenutosi accuratamente lontano da qualsiasi refolo che potesse minimamente scalfire la certezza di tutti e di ognuno che un posto in squadra era assicurato, la sera dello spoglio delle schede se ne usciva, dopo l’ovvia quanto contraddittoria premessa di voler fare in fretta, con il seguente outing “l’esperienza dei cinque anni precedenti che ci ha insegnato la necessità di distribuire diversamente alcune deleghe e di allargare il numero delle persone coinvolte. Il carico di lavoro è altissimo e i progetti in gioco grandissimi, impossibile proseguire con lo stesso numero di persone… Ora lavorerò per rendere forte la squadra esterna, quella che in campagna elettorale ha portato un vento di entusiasmo e passione per il bene comune della nostra città “.

Quando si dice “le ultime parole famose”! Infatti, eccoti scodellato il cerchio magico della giunta (nell’ovvia aspettativa di conoscere in cosa consistano la mission e le relative modalità di ingaggio e di funzionamento della “squadra esterna”.

Importante è che nessuno si sia sentito carne da cannone usata nella pugna elettorale, e che tutti si sentano caballeros, a dispetto dall’estromissione dalla sala di regia (cui molti aspiravano) e dall’insignificanza nel contributo reale e palpabile, quanto meno come testimonianza ideale.

Siamo convinti che, se avesse potuto, il rinnovato primo cittadino avrebbe formato una Giunta di numero pari al roster dei candidati schierati come un sol uomo alla conquista del Municipio.

Squadra pletorica? Motivazioni deboli per accreditarne la fondatezza? Sufficiente caratura per il ruolo?

Belle domande, che affronteremo nel prosieguo (tanto per essere congrui alla posizione ispirata da una certa indipendenza).

Tanto per essere chiari, non siamo organici al campo. Abbiamo votato, per le Europee, nel modo moralmente imposto alla nostra ideale militanza al PSE. Per le Comunali abbiamo espresso un voto “disgiunto” (in ordine di tornata, per il Candidato Sindaco, per la lista del Consiglio Comunale, per il genere dei candidati).

E, per non lasciare nulla di imprecisato, dichiariamo, anche se il voto è segreto, di aver votato per il vincitore solo al ballottaggio. Come facemmo nel 2009 (ma per il candidato soccombente). Ed, altresì, dichiariamo di non aver mai votato a favore dei Sindaci cosiddetti di sinistra (a principiare dalla giunta “anomala” catto-comunista del 1990).

Per la stessa ragione per cui votiamo qualsiasi opzione che rimandi al socialismo europeo, da qualche anno, per assenza di offerte alternative, siamo diventati elettori del Pd. Non esattamente a nostra insaputa, ma molto riluttanti ed assolutamente non fidelizzati. Fatto questo, che, se da un lato, ci rende impermeabili a qualsiasi malaugurata tentazione di cadere dalla padella alle brace (e men che meno dal praticare la diserzione del seggio o la scheda bianca), dall’altro, interroga la nostra coscienza sull’inanità di questa pervicace testimonianza (che non riesce a dare un taglio netto ad un aggregato idealistico privo di riscontri con la realtà).

Detta così sic et simpliciter, però, ci consegneremmo nostra sponte ad un sia pur benevolo ammonimento di essercela voluta.

Ma credete seriamente che la fattispecie descritta di elettori (di provenienza socialista, laica, riformista) non fosse avvertita dell’implicita contraddittorietà tra le ascendenze teoriche e la crocetta tracciata sulla scheda?

Che non si sapesse del nocciolo forviante (ed, in qualche misura, ingannevole) dello speech/wording dei pifferai?

Capirai, dopo decenni di risultati elettorali mai appaganti se non addirittura disastrosamente deludenti, se ci lasciamo impressionare dalla (ennesima) constatazione di un voto contro-natura!

Ce ne siamo già fatti una ragione, ancor prima di deporre la scheda nell’urna.

D’altro lato, si può servire la comunicazione e la formazione dell’opinione anche solo alimentando il pensiero critico.

Nella presente circostanza ci applichiamo all’analisi dello step finale della procedura di copertura delle caselle della “squadra”, in cui inopinatamente comunicazione e, soprattutto, i vincitori hanno collocato il Presidente del Consiglio Comunale. 

Come non condividere il nocciolo della riflessione del Consigliere Comunale di FdI (testimone di una cultura politica da sempre agli antipodi delle nostre visioni, ma non di meno rispettabile e condivisibile quando lo merita) in merito sia al carattere esclusivamente istituzionale della Presidenza del Consiglio Comunale (una carica di cui da sempre non condividiamo l’indispensabilità) sia ai requisiti auspicabili per chi vi si candida.

Perché dovrebbe essere ben chiaro che, se vi si accede a maggioranza degli aventi causa nella scelta, l’eletto (benché teoricamente appartenente alla maggioranza), l’espletamento del ruolo non può prescindere dalla consapevolezza di un incarico ad esclusivo valore istituzionale e non partisan.

Il Presidente deve accuratamente applicarsi ad assicurare lo svolgimento delle sedute nel totale rispetto delle prerogative, delle leggi e del Regolamento. A garanzia di tutto il Consiglio e, se è permesso, della legalità dell’organo nei confronti della Città.

Sarebbe auspicabile che, almeno su questo, non ci fossero non detti, abbozzi, strizzatine, ammiccamenti.

Ne andrebbe della legittimazione delle buone intenzioni e della caratura dell’organo, che si insedierà nel prossimi giorni.

L’elettorato, se non altro per effetto di un maggioritario che non lascia molto spazio alla fantasia per incerti equilibri, si è pronunciato inequivocabilmente quanto meno sulla individuazione dei ruoli di governo e di controllo.

Ruoli che, in ogni caso, dovrebbero auspicabilmente riservare una vasta area di ampia condivisione super partes di bene comune e di indirizzo strategico di interesse superiore. Una considerazione questa che, in aggiunta alla garanzia di totale legalità degli organi elettivi, dovrebbe interrogare le coscienze (individuali e collettive, per tanto tempo schackerate da un “confronto” tanto chiassoso quanto infecondo) circa la ricerca permanente delle condizioni per esaltare, al di là dei legittimi contributi di parte, una mission comune.

E, poiché l’Italia, erede (si dice con una certa dose di auto considerazione) della civiltà latina cui il mondo intero deve le basi del diritto, in realtà si rivela sempre più la patria più dei legulei che dei giuristi, in ciò incoraggiati da una latente rissosità di massa, si contraddistingue ad ogni livello per la propensione ad interpretare più che ad applicare le leggi ed i regolamenti, non v’è chi non veda l’incoercibile tendenza a scavallare in barba al rigore che dovrebbe essere prerogativa etica di tutti.

Può accadere che, in corso d’opera, un consesso amministrativo possa trovarsi di fronte ad un’impasse procedurale determinata da un non univoco approdo interpretativo.

Importante è che i perni delle non sintetizzabili posizioni di partenza non affondino nel proposito di piegare la procedura a fini di parte. Di tale pericolo è stata dimostrazione pratica la recente vicenda dell’indizione di un referendum.

Poi, la vita della consiliatura raramente presenta picchi di criticità procedurale. Al punto, si ripete, da interrogare sull’effettiva utilità della riforma che da oltre un ventennio ha “parlamentarizzato” l’istituzione comunale.

Ma, poiché nella prassi italiana non c’è meno di definitivo e di indifendibile delle sperimentazioni, lasceremo le strade istituzionali lastricate dalle buone intenzioni, quand’anche foriere di risultati manifestamente incongrui e tributari, tra l’altro, di un non trascurabile contributo alla mestierizzazione della politica e della funzione amministrativa.

Riagganciandoci a quella che dovrebbe essere la linea-guida di un corretto funzionamento della consiliatura, corriamo il rischio di farla fuori dal vaso. Azzardando la tesi secondo cui, ancorché eletto a maggioranza, il Presidente del Consiglio Comunale non deve essere inteso come espressione “della maggioranza”.

Anche se così (in barba alla intramontabile vulgata glorificante di Nilde Jotti, ottimo Presidente della Camera eletta trasversalmente) è stato e sarà.

Non occorre possedere le capacità divinatorie di Otelma, per capire che sarà così anche all’alba della sedicesima consiliatura.

Ce ne sono tutte le premesse; a principiare sia dai legittimi pronunciamenti formali sia dalle congetture che consegnano alla macchina della comunicazione insieme agli approdi della dialettica politico-istituzionale anche gli scarti di produzione di un sotterraneo e non meno serrato braccio di ferro attivato da aspettative di carriera e, come forse poco elegantemente ma sinceramente ha scritto nei giorni scorsi il quotidiano locale, di “assegno”.

In tal modo, la questione (che dovrebbe essere di eminente, forse esclusivo, valore istituzionale) dell’elezione del Presidente è atterrata su un terreno scivoloso.

Rispetto al quale è auspicabile che il campo vincitore si attivi per accreditare la certezza che in nessun caso l’individuazione dell’eleggendo sia configurabile nel meccanismo di quella sorta di “premio di consolazione” (per chi, a dispetto di requisiti e consenso personale, non è stato ritenuto meritevole di far parte della “squadra”).

Siamo assaliti da una fase acuta di orticaria; ma come non condividere l’assunto del Consigliere di FdI quando sostiene “Il ruolo richiede obbligatoriamente conoscenze di diritto amministrativo e giuridiche in generale”.

Se fosse permesso, aggiungeremmo anche il possesso di un requisito extra-giuridico ma di grande valore etico: una visione laica e non omologata ai dogmi ed alle fedeltà della politica e della testimonianza istituzionale, come servizio alla comunità.

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