Siamo stati sollecitati, oltre che dall'impatto quotidiano con un'informazione tematica cresciuta esponenzialmente, anche dai solleciti di alcuni lettori, manifestamente interessati ad una riflessione su una questione endemicamente presente, ma, come si anticipava, avviata a diventare un pezzo forte.
Tra i lettori sollecitanti ascrivo alcuni del mio borgo natio dell'Adda, sulle cui sponde e vestigia storico-architettonico è spiaggiata, come ha segnalato l'amico architetto Marcello Melicchio, fino a qualche mese fa assessore comunale al decoro urbano, una bulimica colonia di piccioni. Per chi scrive non esattamente una primizia. A livello di consapevolezze e, soprattutto, di impegno amministrativo. Come controdedotto, in via privata, al nostro interlocutore, a Cremona tentammo di affrontarlo all'inizio degli anni 90, col catturamento. Fummo denunciati e dovemmo desistere. Ripiegando sul mangime antifecondativo: un fallimento! La questione nel capoluogo si è trascinata fino a giorni nostri. La volonterosa assessora Rosita Viola (che, per inciso, rientra nel parterre dei nostri simpatizzati) ingaggiò, nella precedente Consiliatura Comunale, i falchi. Tuttora in servizio permanente effettivo: una bufala. Costano e convincono solo gli ambientalisti. Ci vuole un altro modulo... Come a Pizzighettone si faceva nell'immediato secondo dopoguerra. Non per crudeltà antianimalista, ma per fame. Si mangiava, come in Cina, tutto ciò che si muoveva. Ho visto, da bimbo, una famiglia di prossimità gustarsi un airone, abbattuto di frodo. Perché, come ho fatto osservare al caro amico Marcello, i cacciatori/pescatori di frodo sulle sponde dell'Adda, in Gera erano tanti. Per necessità e per dna, ereditato dai celti fondatori.
Okay ci stiamo allargando per celia e, rientrando nella razionalità, non abbiamo difficoltà ad ammettere che l'abbattimento da Far West non è neanche un'estrema ratio.
Lo diciamo da ex iscritti e sostenitori della LIPU e dell'Associazione Animalisti (da cui abbiamo preso le distanze per cessato amore associativo e, soprattutto, per totale insopportabilità del profilo dogmatico della testimonianza.
Ma i piccioni di Pizzighettone non sono che un piccolissimo segmento di una problematica ormai amplissima, che segnala (o dovrebbe) l'alterato rapporto tra le specie animali (ricomprendenti gli umani e gli animali). Il ragionamento vale per le nutrie, i cinghiali, gli ungulati, i siluri, i gamberi; tutta la fauna alloctona, importata ed irresponsabilmente abbandonata. Germogliata in un habitat spesso impreparato e soccombente, insieme alle specie autoctone meno attrezzate a sostenere un confronto sempre impari.
Poi, subentrano le vestali della difesa faunistica: poverini sono essere viventi; devono essere tutelati e protetti. Ovviamente, senza liniti.
Et voilà le nutrie che scorazzano dappertutto, distruggono le opere di difesa idraulica e la produzione agricola e, non raramente, causano incidenti stradali.
Se è per questo, gli incidenti stradali vengono indotti anche dai cinghiali ormai liberamente e cospicuamente vaganti, dai cervidi e dai lupi, che si affacciano sempre meno discretamente.
Mentre, invece, come ben si sa l'equilibrio delle specie ittiche da tempo è stato irrimediabilmente alterato ad opera di qualche cretino che, come souvenir dai paesi mitteleuropei, ha trapiantato siluri nei nostri fiumi. In misura talmente sproporzionata che le razze autoctone o sonno scomparse o sono in grave sofferenza. Il discorso vale anche per il trapianto dei granchi americani graziosamente abbandonati nei corsi minori. Qui non c'é da dichiararsi animalisti od antianimalisti. Qui occore prendere razionalmente atto di un mutato equilibrio tra le specie animali e tra le specie animali e la specie umana (in essa compreso il portato della sicurezza e delle attività produttive).
Per nostra fortuna il nostro habitat padano non ha ancora integrato il picco della criticità dell'orso (una specie ancor più preziosa degli accademici e, fors'anche del sacro collegio cardinalizio).
E, più ne approdano da clandestini e/o da trapiantati, più fanno danni alle cose ed alle persone.
Non si dice che il posto di “accoglienza” elettivo sia la “gabbia” assegnata a Charlie nel parco del Santuario di San Romedio, cui annualmente non mancava una rimpatriata, in occasione della sessione d'esami della vicina Sociologia Trentina o su pressante richiesta di Emilio Zanoni svernante a Ponte di Legno. Se non Ti alzi in piedi per denunciare una diffusa acquiescenza all'animalismo senza se e senza ma, accetti implicitamente che due o tre plantigradi scorazzanti nell'arco dolomitico mettano a repentaglio gli allevamenti transumanti e pascolanti, l'integrità degli allevatori e degli agricoltori e, ultimo ma non ultimo, degli appassionati dell'alpeggio escursionistico.
Siamo già afflitti dalla constatazione del degrado provocato dall'inciviltà di frequentatori (il cui habitat di soggiorno è perfettamente descritto nella riviera romagnola). Al cui portato ci adattiamo raccogliendo le ricche res relictae (debitamente portate a valle, nei siti di raccolta dei rifiuti, per cui, in sovraprezzo, paghiamo il deposito). Ma, se in aggiunta a ciò, fossimo obbligati a star lontani dal parco dell'Adamello Brenta (fortemente insediato dai violenti plantigradi) allora raggiungere un punto di non ritorno (sul terreno dialettico e della tolleranza). Prima di rimpatriare in pianura, non ci eravamo fatti mancare numerose puntatine in ambienti paradisiaci che non riveliamo, per evitare l'effetto emulazione. Che ha praticamente devastato l'habitat del lago di Braies. In cui alcuni anni fa era stato localizzato il set di un fortunato serial televisivo. Prendendo spunto da una visura occasionale. Non riveleremmo “cerca qui” neanche sotto tortura.
Che le specie umane stanziali da quelle parti abbiano piena consapevolezza del problema è dimostrato, tra le tante testimonianze discordanti, anche da un aneddoto didascalico.
Il giorno di Ognissanti eravamo andati per un commiato a quel “passo dal cielo”. Al momento del pagamento del conto abbiamo lasciato il nostro tavolo (all'aperto), per avvicinarci alla cassa, dove incombeva una Besitzerin degna, per maestà, di ben altri ruoli.
L'abbiamo ammorbidita, scalfendo mai ripudiate radici tirolesi, mettendo in campo il residuo mnemonico di mai sufficientemente affrontati studi linguistici.
Nelle more dell'operazione ci siamo avveduti dell'impegno iconografico del nipotino di Frau Getrude. Esibito, ça va sans dire, con ragioni d'orgoglio ma anche di outing (nel caso a qualche malcapitato venisse in mente di fare qui l'ideologo dell'animalismo senza se e senza ma).
Pubblichiamo il pastello, ma anche la didascalia, apposta dal schüler.
Che recita testualmente: “Wir müssen den Wolf und den Bär schießen”. Che nella lingua di Dante sta: “Noi dobbiamo sparare al lupo ed all'orso”. Un imperativo sulla cui derogabilità l'aforisma adolescenziale non lascia spazio a tentennamenti.