Riflessioni elettorali
Il primo elemento che balza agli occhi e che in pochi sono impegnati ad analizzare è costituito dalla bassa affluenza. In Italia la maggioranza degli elettori non ha votato. Solo il 48,3% degli aventi diritto lo ha esercitato. L'affluenza italiana è addirittura inferiore alla media europea che è del 51%, molto inferiore a quella della Germania, il 64,8%, di poco inferiore anche a quella di Francia e Spagna (rispettivamente il 51,5% e il 49,2%). Si può restare indifferenti rispetto a una tendenza sempre più marcata, che si registra in Italia a partire dalle elezioni del 2008 e che si estende sempre più finendo, come è accaduto in questa consultazione europea, per determinare un evento mai accaduto prima: e cioè che sia maggioritaria la percentuale dei non votanti. E parliamo dell'Italia, cioè del paese in cui si votava di più. Cosa è successo? Può il sistema politico non più identitario non porsi seri interrogativi? Ne propongo due. Siamo sicuri che questi partiti personali e anti storici rispondano alle esigenze degli italiani? Siamo sicuri che la passione e la tensione politica possa essere alimentata tra scelte spesso omologhe o confuse sia a destra sia a sinistra (la difesa dei popoli sottomessi o aggrediti, l'unione politica dell'Europa, l'atlantismo, la sicurezza di Israele e la patria per i palestinesi)? Veniamo all'analisi dei votanti, cioè della minoranza degli italiani. Si è votato con un sistema proporzionale ovunque e mentre negli altri paesi i governi, gravissima la sconfitta di Macron in Francia e di Scholz in Germania, segnano il passo, la maggioranza di governo in Italia avanza e il partito della Meloni, con quasi il 29% dei voti, fa il pieno. Buono anche il risultato di Forza Italia che sfiora il 10% (ma non doveva sparire con la morte di Berlusconi?) e supera la Lega nonostante il contributo di Vannacci che non vuole un mondo all'incontrario e che ricorda il soggetto di quella barzelletta che sbagliava corsia dell'autostrada e s'arrabbiava con le auto che andavano nella direzione giusta. Alla Meloni si è contrapposta la Schlein ed è nata una sorta di bileaderismo. A una donna si contrappone un'altra donna. E col premierato la tendenza si rafforzerà. A questo punto non capisco la contrarietà del Pd che ne potrebbe beneficiare. Con l'eccezione di Verdi e Sinistra Italiana che, col 7% cui la candidatura di Ilaria Salis ha contribuito in modo consistente, sono stati la vera sorpresa di queste elezioni, il resto è noia, come cantava un noto paroliere romano. La lista Stati uniti d'Europa e quella di Azione non hanno raggiunto il quorum. E la decisione di andare divisi si è rivelata, come noi abbiamo scritto più volte consigliando l'unione, deleteria. La responsabilità principale sta sulle spalle di Calenda che si è sentito scottato dalla sua breve convivenza con Renzi. Eppure uno spazio per una Casa dei riformisti, tra il centro-destra e la Schlein, che ha trasformato il Pd in una specie di Pci (non tanto quello del compromesso storico, quanto quello dell'occupazione della Fiat) e che pesca solo a sinistra, e in particolare nel serbatoio dei Cinque stelle ridotti al 9%, esiste. Ma la Casa dei riformisti a questo punto esige due scelte nette e radicali: l'unione di tutte le forze riformiste senza nessuna esclusa e la creazione di una nuova leadership che prescinda dai due litiganti, i quali alla Casa dei riformisti possono ugualmente recare un prezioso contributo. Solo a quel punto i socialisti riformisti e liberali, quel po' che è rimasto in giro, e magari gli stessi compagni del Psi se confermeranno la scelta terzopolista (ho qualche dubbio) ritengono possano impegnarsi in una nuova Costituente.
Scegliere la politica alta e vera
Tornare alla politica e alla politica alta, quella che rende l'Italia protagonista in
Europa e nel Mediterraneo.
Le ultime settimane, invece, segnano una vera e propria involuzione, durante la quale i fattori di affermazione del Paese e dei suoi successi –limitati, ma successi- si sono affievoliti sommersi dal risorgere della demagogia che, con il sistema politico denominato «seconda Repubblica» ha preso il sopravvento trasformando la competizione tra schieramenti e forze politiche in un perenne confronto elettoralistico, nel quale sembra (solo «sembra») affermarsi chi si presenta con il pacchetto di misure più allettanti per un elettorato che, perso il senso delle istituzioni repubblicane, ragiona sempre e solo di pancia.
Il passato successo dei 5Stelle ne è la plastica testimonianza.
Mi propongo di dedicare qualche articolo proprio a questo abbandono della politica da parte del sistema, affrontandone le articolazioni senza risparmiare nessuno.
In questa assenza di politica emergono le furbate. L'ha insegnato Roberto Saviano: spararle grosse attira l'attenzione, rende invincibili –nel suo caso «guru» e tuttologo- e accende le tirature. Una lezione di recente messa a frutto da Antonio Scurati (vedere la ricostruzione dei fatti operata da Marco Travaglio per comprendere la combinazione di casualità, immediatamente messa a frutto dall'autore e cavalcata da Serena Bortone) e da Michele Riondino.
Questa specie di rissa, alimentata da personaggi «border line» tra politica e spettacolo, come le manifestazioni violente degli amici di Hamas portano acqua al mulino di Giorgia Meloni, non ad altri. Se qualcuno di questi giovani e meno giovani virgulti della politica nazionale guardassero un po' di storia, imparerebbero che lo scontro politico e di piazza aiuta sempre e comunque i partiti che un tempo si chiamavano «d'ordine», ultimo esempio il 18 aprile 1948, quando la Democrazia Cristiana conquistò da sola la maggioranza assoluta alla Camera dei deputati e al Senato, dopo un periodo di moti di piazza voluti e organizzati dal Pci togliattiano.
Parto con lo slogan «l'Italia cambia l'Europa» che segnerà la campagna elettorale di Fratelli d'Italia.
Una frase velleitaria, irrazionale e autolesionista. L'Italia non potrà cambiare l'Europa.
È l'Europa ha cambiato in meglio l'Italia come le altre nazioni introducendo fattori di progresso. Ne cito solo uno a mo' d'esempio. Negli anni '80 e, soprattutto, '90 la normativa europea sulla tutela dei marchi e delle zone di pregio ha fatto sì che il vino italiano compisse quel salto di qualità che è sì merito dei produttori nazionali: essi hanno saputo cogliere le occasioni che l'Europa aveva apparecchiato per loro e per i loro colleghi.
C'è anche il manifesto dei conservatori da segnalare. Il loro partito europeo, presieduto da Giorgia Meloni, sostiene che l'Unione deve fare di meno ma fare meglio (mutuando il vecchio «meno stato ma migliore»), cioè ridurre drasticamente le politiche centralizzate di Bruxelles che hanno fatto dell'Unione un superstato federalista (falso) per dare vita a un'Europa delle nazioni, rispettosa delle nazioni, rispettosa delle differenze, quindi soltanto luogo di un mercato comune.
Si tratta di una proposizione irrealistica, divergente dalla realtà internazionale, testimonianza di un distacco dai fatti e dai problemi che può procurare danni irreparabili.
Dimentica del tutto –infatti- la realistica lezione di Mario Draghi che spiega come l'unico futuro possibile per l'Europa è l'affermarsi come terzo e autonomo protagonista mondiale, soggetto politico a livello di Stati Uniti e Cina, capace di dialogare con loro da pari a pari. Per ottenere questo risultato, occorre –sostiene giustamente sempre Draghi- rimettere in moto il meccanismo europeo di crescita della competitività dell'Unione, riconquistando primazie perdute, ottenere vittorie tecnologiche e sociali, per essere una potenza a tutto tondo dotata di uno strumento militare idoneo per assicurare la difesa dell'Unione e delle sue nazioni.
Le proposizioni dei conservatori sono vecchie, giacché risalgono agli anni '50, quando furono enunciate da Charles de Gaulle, e del tutto fuori contesto. Una sorta di disinteresse per la realtà contemporanea per le sue esigenze irrinunciabili per la sostanziale difesa delle realtà nazionali.
Un'Unione trasformata in mero elemento gestore di un mercato, lascerebbe le nazioni al loro destino, prive di libertà a autonomia, con i loro cittadini sudditi di uno dei tanti regimi dispotici in circolazione.
Nei prossimi giorni continueremo l'analisi: ce ne sarà per tutti.
Non è una partita da tavolo verde… ma calma e gesso… lo stesso!
Un po' perché arrischiamo di dare un timbro enfatico ad una sia pur importante parentesi di chiamata alle urne, che per la ricorrenza con cui si svolge; è diventata una costante ormai senza discontinuità temporale e, ciò che è peggio, di specificità rispetto al livello del mandato istituzionale.
Una caratteristica che ne fa un ring permanente e nematicamente indistinguibile in cui la materia del confronto e dell'opzione viene fagocitata e assorbita in un vortice ascensionale azionato da un processo di polarizzazione che conduce ad un ferreo leaderismo. Che lascia spazio solo alla ratio del consenso.
Venuti meno gli impulsi idealistici dei grandi afflati, archiviati i format che per oltre un secolo hanno canalizzato spazi e metodiche di partecipazione popolare alla vita pubblica, definitivamente (temiamo) archiviato un ceto politico-istituzionale che, tra luci ed ombre, aveva propiziato tutto quanto in positivo abbiamo premesso, c'é da chiedersi il fondamento della recente affermazione il bravissimo editorialista Corsera (e nostro indimenticato concittadino) Danilo Taino, secondo cui “la democrazia non se la passa bene”.
Ne sono segnalatori la disaffezione dall'esercizio del diritto-dovere, che costituisce marker in negativo della cattiva funzionalità del modello liberaldemocratico nel suo ganglio fondamentale e che, soprattutto, alimenta la spirale dello sprofondamento della tenuta, e, sinergicamente, la quasi totale smagnetizzazione delle capacità percettive e opzionali della dorsale del sistema, costituita dall'opinione e dalla cittadinanza attiva.
Di tutto ciò è dimostrazione non solo il dato di sovvertimento del costante asset di articolazione delle aggregazioni testimonianti il fecondo processo di sintesi operante dei grandi afflati civili e sociali del 900, quanto l'emersione prevalente delle pulsioni in controtendenza. Era già presenti dopo la caduta del Muro, stando prevalendo come dato di forza elettorale e come prodromo di assetti destinati ad allargarsi. Uscendo dalla metafora, l'elezione del nuovo parlamento europeo certifica che (per quanto i players storici abbiano acchiappato il delta per il rotto della cuffia) si è in presenza di una controtendenza manifestamente favorevole ad una destra variegate ma incardinata su perni esattamente confliggenti con tutto quanto i padri fondatori seppero delineare in termini di coesione, feconda governabilità e modernizzazione del continente, politico e sociale. L'interpretazione facile di questa tendenza sostiene che opinione pubblica, corpi intermedi sociali e ed elettorato non hanno apprezzato fino in fondo un percorso prestazionale caratterizzato da alcune politiche europee, troppo sbilanciate sui flussi migratori, sul cambiamento climatico e in generale su un diffusa indulgenza a timbri radical chic. Avremo modo, ovviamente di impegnarci in un approfondimento di questi profili generali. Al momento, ci è sembrato utile fornire elementi di riflessione attingendo agli importanti contributi di Domenica Cacopardo e di Mauro Del Bue.
Saremo lieti di pubblicare tutti gli scritti che ci perverranno come approfondimento e confronto.