Ricorre in questi giorni il ventesimo della morte del giovane giuslavorista e accademico bolognese di impronta socialista riformista. Un commando di terroristi delle Nuove Brigate Rosse da tempo lo attenzionava nel suo pendolarismo fatto di scuola e casa e vigliaccamente lo freddo nel tragitto di rientro. L'omicidio avvenne contestualmente alle conclusioni del lavoro istruttorio che come consulente del Ministero del Lavoro sarebbe confluito nell'approvazione della legge per la flessibilità di alcuni rami di lavoro dipendente. Furono i socialisti che alla fine degli anni sessanta avevano rielaborato la legislazione del lavoro, elevandola al rango di organico Statuto. La riforma era arrivata tardivamente e, a prescindere dai perni ispiratori, che portavano l'Italia nell'alveo dei paesi socialmente evoluti, avrebbe in un breve volgere di tempo denunciato l'esigenza di un aggiornamento a livello di statuizione della fattispecie delle flessibilità, cui erano approdati i sistemi velocemente evoluti; nei quali, come scrive oggi Domenico Cacopardo, “ la tutela dei lavoratori non impediva l'applicazione degli istituti più nuovi e più aderenti alle mutate necessità delle aziende e degli occupati”.
I 20 anni trascorsi dal vigliacco assassinio brigatista non tolgono nulla del valore del contributo civile ed accademico della lungimiranza del pensiero di Biagi. Nonostante le pressanti testimonianze in senso contrario delle lobby annidate nel sindacalismo demagogico.
Che continua ad aleggiare a livello di rigidità contrattuale (a cominciare dalla contrattazione nazionale e dal rifiuto della contrattazione aziendale) che rendono difficile l'accesso al lavoro e, diciamolo, sostanzialmente in linea con il populismo che trova il proprio epicentro nel cosiddetto reddito di cittadinanza.
Il ricordo commosso e grato della figura di Marco Biagi risponde lucidamente all'auspicio di un ritorno a politiche del lavoro che siano coerenti con i principi di equità e di efficienza della condizione del lavoro e del sistema produttivo.